Formazione, Counseling o Coaching ?


gruppoLo scopo di questo articolo non è produrre una ennesima distinzione teorico – metodologica tra le tre modalità di intervento indicate nel titolo bensì favorire una riflessione sulle loro possibili connessioni.

Gli interrogativi che ci poniamo, in sostanza, sono:

fino a che punto la formazione, nella pratica, può separarsi dal coaching e dal counseling ?

quali sono i momenti, durante un percorso formativo, in cui queste modalità si incontrano ?

Tali quesiti mettono l’accento sulla natura effettiva della formazione ossia conducono a domande come a) che cos’è, in pratica, un intervento formativo e b) quali sono gli obiettivi legittimi che può perseguire nei confronti dei destinatari.

 

Specifichiamo che in questa sede intendiamo “ intervento formativo “ una modalità di trasmissione del sapere che non si riduce al puro passaggio di dati ma che, oltre la fase informativa, prevede il coinvolgimento dei partecipanti in un lavoro attuale di rielaborazione degli stessi concetti appresi.

L’evento a cui ci riferiamo implica che i contenuti trasmessi, e le modalità con cui tale processo si realizza, non si limitano ad aggiungere sapere al bagaglio conoscitivo ed esperienziale dei riceventi ma che ne producono una reale trasformazione dove per tale, però, non si intende l’adesione passiva al punto di vista del formatore.

L’intervento, cioè, acquista significato quando favorisce, nel destinatario, una nuova ottica, originale ed autonoma, sulla tematica in questione e sul suo stesso rapporto con tale tematica.

Per chiarirci, ipotizziamo un percorso in cui l’argomento consista nella conflittualità relazionale ed i destinatari siano professionisti impegnati nel contatto diretto e quotidiano con clienti/ utenti acquisiti e/o potenziali.

Possiamo logicamente immaginare che se queste persone aderiscono al percorso lo fanno in quanto si reputino bisognosi di nuovi strumenti comportamentali con cui risolvere le difficoltà di approccio e di mantenimento della relazione con i rispettivi interlocutori.

E’ ipotizzabile, in sostanza, che i professionisti in questione si trovino intrappolati in una sola modalità relazionale che, per quanto articolata possa essere, risulta per loro la sola disponibile e, per giunta, inadeguata alla realizzazione delle mete.

Essi, pertanto, chiedono non solo informazioni ma soluzioni.

Lo stesso può dirsi, con le opportune differenze, per percorsi rivolti ad altri tipi di ruoli familiari, sociali e professionali: qualsiasi sia la dimensione in cui sperimentano conflitti relazionali, i partecipanti vogliono risolvere.

 

Da questa premessa già si intuisce, almeno dalla nostra ottica, lo stretto rapporto tra la formazione e l’intervento di coaching e di counseling. Chi aderisce ad un percorso formativo infatti lo fa spinto dalla stessa istanza di coloro che, individualmente o in gruppo, si rivolgono al coach o al counselor: bisogno di trovare opzioni, e di trovarle rapidamente, ad una specifica tematica collegata ad un particolare aspetto della loro vita professionale, sociale, familiare.

Anche la richiesta, diretta o indiretta, alla formazione, così come nei due altri ambiti di intervento, è generalmente di modificare l’esterno. Si domandano nuovi strumenti comunicativi, cioè, per agire sui comportamenti altrui più che sulle proprie modalità relazionali ed il sistema di riferimento personale.

Il formatore, perciò, cosi come il coach ed il counselor, deve costantemente tenere conto di questa svalutazione e, ad un certo punto del percorso, evidenziarla.

La stessa svalutazione, dunque, diventa prima o poi argomento di discussione.

 

In cosa consistono, nella pratica, le connessioni a cui ci siamo riferiti nell’introduzione all’argomento? Come si manifestano ? Cosa fa, in concreto, il formatore che, in particolari fasi del percorso , lo avvicina al coach ed al counselor ?

Per dare una risposta a questi ulteriori interrogativi partiamo dal presupposto che l’intervento formativo si rivolge, ovviamente, ad un gruppo di persone che svolgono un dato ruolo professionale e sociale. Dunque il formatore deve tenere conto proprio di questa ovvietà e concentrare le energie in due direzioni: una che conduce alla persona, con la sua storia privata, sociale e professionale. L’altra che approda al ruolo ossia all’ insieme di specifici obiettivi, compiti, competenze necessarie alla loro realizzazione ed aspettative personali ed ambientali riferite alla messa in atto del ruolo stesso.

Nella pratica quotidiana la distanza tra ruolo e persona è sottile tanto più la comunicazione diventa conflittuale. Il sistema di riferimento personale , ossia il complesso di convinzioni attraverso cui ognuno si orienta nel mondo e si spiega quanto gli accade intorno, subisce significative sollecitazioni, così come è per la sfera emotiva, in caso di contrasti relazionali che rallentano o inibiscono del tutto la realizzazione delle mete connesse al ruolo. Coloro che vivono simili esperienze, perciò, presentano la medesima istanza pur rivolgendosi a professionisti che propongono modalità di approccio al problema diverse tra loro.

Il formatore, come il coach, ad un certo punto del percorso dovrà prendersi cura del ruolo e potenziarlo ossia favorire, nella persona, la consapevolezza di quante altre risorse comportamentali, ancora non emerse, sono in esso contenute. Di quanti e quali altri modi efficaci ed efficienti, dunque, quel medesimo ruolo può essere svolto.

 

Lo stesso formatore, in un altro momento, come il counselor dovrà occuparsi della persona che occupa il ruolo e lo mette in atto nel suo specifico ambito di appartenenza. Dovrà sostenerla nel risolvere il disagio derivante dalla conflittualità legata all’esercizio del ruolo e favorire in essa la consapevolezza delle proprie risorse emotive/ cognitivo/ comportamentali, sopite o svalutate, utili al potenziamento del ruolo.

In questa fase, cioè, il formatore dovrà aiutare il soggetto ( anche se collettivo ) nel conciliare aspettative personali e professionali, obiettivi individuali e mete collettive, motivazioni private e spinte connesse propriamente alla professione.

Da dove iniziare poi, se dall’essere prima coach e poi counselor o viceversa, è una scelta che non si appoggia su alcuna regola precisa. La direzione del movimento che conduce da una modalità all’altra dipende, in effetti, dalla natura e dallo spessore delle istanze presentate dai partecipanti al percorso e/ o da una loro chiara e diretta richiesta al formatore.

 

Ci domandiamo ancora una volta, comunque, che cosa faccia in pratica il formatore quanto si cala nei panni del coach e del counselor.

Se qualcosa di tangibile segna il passaggio, pur se momentaneo, da una figura professionale all’altra, tale trasferimento è segnato da un diverso modo di essere in relazione con l’aula.

Se nella fase della formazione i contenuti rappresentano il motivo privilegiato per cui si sta comunicando e la teoria è la cornice che contiene la relazione tra chi trasmette e che apprende, essere coach e counselor necessita che il formatore esca dal mantello protettivo dei concetti e si mostri. A quel punto la cornice diventa la relazione in aula e con l’aula. La teoria, lo sfondo.

Il passaggio dalla pura trasmissione al prevalere della relazione implica che il formatore ( o, a questo punto, coach o counselor ) abbia la determinatezza, e perché no il coraggio, di rivolgersi non solo alla sfera logica dei partecipanti ma anche, e di più, alle loro dimensioni emotive e cognitive.

In tal senso diventano di estrema utilità specifiche metodologie quali esercitazioni e simulate che, oltre a fare emergere ulteriori contenuti su cui riflettere, non hanno lo scopo di dimostrare ciò che accade ma di mostrare ciò che, nelle dinamiche professionali, potrebbe accadere sia in merito agli esiti sociali e manifesti della comunicazione che principalmente a livello emotivo e cognitivo ( quali pensieri emergono a seguito della simulata, ad esempio, sia nei diretti interessati che negli osservatori? Quali convinzioni si indeboliscono o si potenziano nel loro sistema di riferimento? Quali sono o potrebbero essere gli esiti comportamentali ? ).

 

Eppure esercitazioni e, in particolar modo, simulate costituiscono non le premesse ma gli esiti di una già avvenuta trasformazione nella relazione tra formatore ed aula. Non seguono la fase della trasmissione del sapere semplicemente in base ad un ordine di presentazione delle tematiche. Non fanno parte di una scaletta. Esprimono, invece, una svolta e saranno tanto più utili ed efficaci quanto più i partecipanti le utilizzeranno per mostrarsi a loro volta. Ma lo potranno fare se e solo se si sentiranno protetti e cioè al riparo da ogni giudizio di valore da parte di chicchessia e sicuri che nulla verrà chiesto loro che, per quanto radicato nell’intimo, non faccia parte della loro istanza.

Si sentiranno protetti se e solo se avvertiranno il formatore dalla loro parte ( che non significa uguale a loro sotto l’aspetto delle competenze e degli scopi ).

Si sentiranno protetti se e solo se ci sarà alleanza ( affinità di obiettivi ), empatia ( sospensione del giudizio è, perciò, disponibilità a considerare possibili altri punti di vista ) e fiducia ( consapevolezza dell’assenza di qualsiasi rischio emotivo) .

Condizione che si potrà realizzare se e solo se il formatore sarà stato, tra tutti, il primo a mostrarsi.

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