Uno dei temi che vivacizza le discussioni fra professionisti dell’ascolto riguarda il livello di influenzamento nel colloquio, nel caso si utilizzi appunto uno degli strumenti per eccellenza a disposizione dell’operatore. Da una parte vi sono i seguaci di un approccio rogersiano “puro”, che intende la consulenza supportiva come una struttura di rapporto interpersonale che proverebbe come sia possibile sollecitare senza alcuna forzatura, nei confronti della persona richiedente sostegno, un buon livello di autorivelazione e fiducia riposta nel consulente da parte della stessa. Si tratta del principio non direttivo, bandiera di tutto il movimento culturale della terza forza. Lo stesso Rogers sosteneva come fosse auspicabile, e anzi addirittura dimostrabile, provocare nell’altro apertura ed un sentimento di buona alleanza e complicità, percezione di sicurezza e protezione, soltanto utilizzando una serie di rispecchiamenti su contenuti e processi emozionali, per garantire la certezza del sentirsi accolti ed accettati senza condizioni preliminari. In sintesi, i rogersiani asseriscono la possibilità di dirigere un confronto facendo a meno di ricorrere a domande, invio di informazioni supplementari o richiami verso aspetti incongruenti presenti fra i vari elementi comunicazionali del ricevente ascolto.
Coloro che, pur rifacendosi ai principi rogersiani, ma integrati e combinati con la varietà degli indirizzi sviluppati nel tempo, utilizzano dunque consimili tipologie di intervento, si mostrano maggiormente critici e dubbiosi sulle affermazioni dettate da una direzione esclusivamente non direttiva del colloquio. La critica si attribuisce legittimità dal momento che mette in evidenza come il professionista non possa comunque fare a meno di condurre il colloquio, cioè fondarlo verso una direzione di senso, strutturarlo, evitarne la dispersione e la frammentazione, delineando il setting come un contenitore di significati. Queste correnti, che divergono evidentemente dal paradigma tradizionale, si propongono di spingere in maniera costruttiva i contorni di un approccio che può beneficiare di un ampliamento del proprio orizzonte teorico-pratico. L’oggetto verso cui si muovono le principali sottolineature delle contraddizioni riguarda proprio il fatto che nella dimensione dell’aiuto verso il prossimo, esiste immancabilmente un certo grado di influenzamento, di intrusività e di impatto; anche perché tali fattori faranno parte dell’esperienza percettiva del cliente, e pertanto, anche se possono e soprattutto debbono essere presi determinati accorgimenti per ridimensionarli, non potranno essere del tutto evitati. Per questa ragione, pronunciarsi a favore di un esclusivo intervento non direttivo potrebbe risuonare eccessivamente idealistico. È necessario tenere conto di tante variabili e contingenze personali e contestuali che non risultano di facile e prevedibile gestione. Inoltre, ed anche questo è un aspetto da tenere ben presente, se il fine concordato del percorso di counseling coincide col superamento di vecchi schemi ed abitudini, allora l’impegno del rivestirsi di nuovi abiti mentali e comportamentali dovrà essere un cammino monitorato, incoraggiato, stimolato; e non potrà esserlo pienamente senza l’ausilio di input e sollecitazione con un maggior gradiente di direttività.
Quindi, nella nostra cassetta degli attrezzi di counselor, disponiamo anche di tecniche aventi un maggiore impatto nella dimensione del controllo e del monitoraggio sui contenuti esperienziali del cliente, in termini affettivi e cognitivi. L’elemento di cui tenere conto, circa l’appropriato uso delle metodologie direttive, risiede nella dimensione del tempo e della maturazione legata alla reciprocità affettiva fra counselor e cliente. Soltanto quando la relazione è ben salda e consolidata sulla vicendevole fiducia, il cliente sarà pronto a rimandi ed interventi di natura direttiva, sempre tenendo presente un certo imponderabile margine di rischio. Dunque, allargando l’ipotesi di un intervento strutturato di aiuto, all’eventuale impiego necessario di tecniche non direttive, ciò che occorre è una programmazione temporale maggiormente elastica, seppur limitata, anche se soggettivamente, ai tempi previsti di un percorso di counseling, i quali per implicita caratteristica non potranno essere notevolmente estesi.
Vediamo ora il corollario delle tecniche direttive annoverate in letteratura, che non mancano certo di suscitare ulteriori repliche e controrepliche all’interno degli addetti ai lavori, come si evincerà dalle rispettive descrizioni.
A). Ridefinizione: Prende anche il nome di interpretazione, non mancando così di agitare reazioni circa il fatto che l’interpretazione è inclusa nella formula VISSI della comunicazione non efficace. Il counselor offre il proprio punto di vista sulla situazione, aggiungendo inoltre un possibile inedito piano su obiettivi definiti in prima persona dal professionista stesso. Mette cioè in evidenza la discrepanza fra ciò che accade e ciò che “dovrebbe accadere”, consegnando al cliente un programma di aspettative e di valori a cui viene sollecitato a realizzare.
B). Follow up: È una tecnica a impatto direttivo che consiste nel richiamare il cliente alle conseguenze sulle proprie azioni. Il counselor può prima immettere un avvertimento, far suonare una sorta di campanello di allarme, far comprendere i rischi impliciti che il cliente sottovaluta su scelte considerate perniciose da colui che lo sta guidando dentro un percorso di crescita. Naturalmente, il fine è quello si sviluppare nel cliente una maggiore attenzione verso di se, in ottica preventiva su azzardi e pericoli non troppo calcolati, associando ciascun ragionamento ad una ipotesi alternativa in chiave positiva e costruttiva, cioè: “Se faccio X può accadere Y, e ciò è spiacevole, pertanto faccio X1, così ne consegue Y1 e ciò è gratificante”.
C). Autorivelazione: È un intervento a valenza direttiva che riguarda l’espressione di sé, cioè del counselor, che riporta stralci di personali narrazioni che somigliano o aderiscono alle vicissitudini biografiche del cliente. L’uso di tale tecnica include la manifestazione dell’Io esperienziale del counselor che rivela cosa prova nell’ascoltare od osservare ciò che esperisce il cliente. Espressioni tipiche del messaggio Io sono: “Sento che… Anche io… ecc”, a cui si cerca di dare valore di vicinanza e condivisione, mediante un uso appropriato che non privi l’altro della percezione di essere egli oggetto di attenzione.
D). Feedback: Inviare al cliente informazioni su cosa stiamo osservando, fornirgli dati sulla base delle nostre aspettative, ammonimenti, incoraggiamenti, sottolineature positive; tutto ciò assume una forma efficace di direttività, purchè ci si attenga alle regole fondamentali della restituzione. Ovvero inviamo un feedback in modo da evidenziare punti di forza, cercando di essere specifici, concreti, descrittivi, non giudicanti, sintetici e, molto importante, formulare domande di controllo sull’impatto esercitato dal feedback, del tipo: “Come ti senti ora che ti ho detto questo?”, “Ti ritrovi in questo che ho detto?” ecc.
E). Consigli: Nella piena accezione di counselor come consigliere, il professionista dona una serie di pareri, suggerimenti, idee, col proposito che il cliente le faccia sue.
F). Direttive: Nella forma di prescrizioni, il consulente può inviare precise indicazioni su come procedere per un qualunque problem-solving. La cura dell’aspetto comunicativo verbale e non verbale definirà il livello di assertività e autorevolezza con il quale il counselor consegnerà istruzioni molto precise al cliente.
Ciascuna di queste tecniche, è bene ricordarlo ancora, è da utilizzarsi secondo criteri temporali che definiscano la relazione in una fase avanzata, ovvero in un momento in cui counselor e cliente sono riusciti a produrre una sana e proficua alleanza. Un contesto protettivo, valorizzante, un clima di accettazione comprensiva, che non tolga potere decisionale al cliente, è importante per non decentrare l’attenzione sul cliente. Pertanto, se utilizzate in modo prematuro, imprudente o poco rispettoso, tali modalità direttive andranno a svantaggio di ambo le parti coinvolte.
È importante plasmare la relazione in modo che le transazioni, appellandomi al linguaggio dell’analisi transazionale, non siano complementari fra il Genitore direttivo del counselor ed il Bambino del cliente rispondente in modo compiacente e subordinato. Saranno invece gli Stati dell’Io-Sé Adulto-Adulto che dovranno costruire un rapporto interpersonale affinchè ne godano il valore di crescita e di evoluzione che può implicare.
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