Fare counseling con una persona anoressica è alquanto impegnativo e rischioso. Impegnativo perché il più delle volte si prova una sensazione di impotenza che mette in discussione il counselor stesso e rischiosa perché c'è la possibilità, se non adeguatamente preparati, di includere ulteriormente la persona nella patologia che sta vivendo e condizionando la sua quotidianità. Inevitabilmente la persona condurrà il discorso sulla tematica alimentare e corporea. Un buon counselor non deve cadere nella trappola di impostare il percorso d'aiuto discutendo di tali tematiche (peraltro sovente le persone anoressiche conoscono l'ABC della dietologia) perché ciò preclude la possibilità di apertura del soggetto già di per sé coartato nonché inflessibile e perfezionista. Il counseling non deve trasformarsi in una lotta tra due persone ne tantomeno partire col presupposto che da una parte c'è chi potrebbe morire. La possibilità della morte, in alcuni casi reale, può apparentemente non spaventare il paziente ma può rendere il counselor timoroso e conseguentemente indurlo ad un atteggiamento difensivo.
E' necessario essere spontanei ed attivare i meccanismi empatici per entrare in sintonia con la parte non-anoressica della persona che va ricordato essere sempre presente se pur scotomizzava dalla patologia. Certo il mondo anoressico è particolare, chiuso da dinamiche personali e relazioni familiari a volte disturbate e che non consentono una delimitazione dei propri confini. Fare emergere le risorse e dar loro corpo può contribuire a mettere in scacco tale sistema ed a provocare delle dinamiche reattive e fortemente difensive. Qui si può ingenerare la sensazione da parte del counselor di doversi preparare ad una guerra che potrebbe non avere sbocchi. Il ritiro, di una parte o dell'altra, è sempre in agguato. Non è certo un caso che molti pazienti hanno già peregrinato per svariati professionisti. Ancor più facile il ritiro del professionista di turno che tenterà di deresponsabilizzare il proprio operato adducendo al paziente la colpa del mancato successo o giudicando la situazione comunque irrisolvibile e cronicizzata.
Ci sarebbe materiale per discutere cosa si intenda per successo del counseling in queste situazioni ma è altrettanto vero che se non c'è una preparazione, non solo professionale, ma anche relativa alla conoscenza dei propri limiti e possibilità ed una consapevolezza di trovarci di fronte a persone e non a pazienti, difficilmente si riuscirà a "bucare" il mondo dell'anoressia. Citando Alfred de Musset: "L'uomo è uno scolaro e il dolore è il suo maestro; nessuno si conosce finché non ha sofferto". In un certo senso l'anoressia è la possibilità che si è data una persona per sentirsi riconosciuta anche se il risultato è il riconoscimento in quanto malata. Uno scheletro che deambula difficilmente suscita visioni che vanno oltre l'anoressia e chi ha il dovere di cura spesso viene intrappolato dall'estetica della patologia.
La problematica dell'identità nell'anoressia è centrale e un buon counselor deve far sì che la persona possa riconoscersi per ciò che è e non per ciò che rappresenta. Rompere il meccanismo di equivalenza identità/patologia è fondamentale per consentire l'approdo nel mondo cosiddetto "normale" e consentire alla persona la sperimentazione della propria libertà. Uno dei primi trattati sull'anoressia si intitolava appunto "La gabbia d'oro".
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