Sabino Acquaviva, sociologo, Roberto Napoletano, direttore de “Il Messaggero”, Willer Bordon, Senatore del Gruppo L’Ulivo e Francesco Florenzano, presidente dell’Upter e dell’Unieda discutono con il sociologo Franco Ferrarotti del suo libro:
Vita e morte di una classe dirigente - Edup 2006 - Venerdì 23 marzo ore 17:00 presso l'Auditorium della Cassa Nazionale Forense Via Ennio Quirino Visconti, 4 c - Roma.
Esiste una classe dirigente italiana? Come mai la classe di potere italiana sembra indifferente a ciò che avviene nella società? Perché il potere non agisce, parla ma non fa? E inoltre, dopo la crisi delle forme storiche di rappresentanza, si può ancora parlare di classe politica e di veri rappresentanti?
Questi alcuni degli interrogativi ai quali sembra rispondere il libro “Vita e morte di una classe dirigente” edito da Edup, in cui Franco Ferrarotti, da sempre attento e acuto osservatore della società italiana e dei suoi sviluppi, propone un’analisi della crisi di una classe dirigente che non ha saputo determinare una politica seria e unitaria da cui sarebbe dipeso, in ultima istanza, lo sviluppo del Paese.
La classe dirigente italiana si è contraddistinta nella sua storia recente come una classe che vive in una sua “stanza separata”, si parla addosso, litiga, diverge e converge e, in ultima analisi, non sceglie, non decide e non governa. La classe politica italiana non è mai divenuta veramente matura: è sempre stata interessata a durare più che a dirigere, alla ricerca di un potere vissuto più come appannaggio privato che come funzione collettiva e di servizio.
Il risultato di tutto questo è stato rovinoso per gli italiani, al punto che si è separato lo Stato dai cittadini e si è prodotto lo scollamento delle istituzioni dalla società. “La società italiana odierna appare come una società alla deriva”, così Ferrarotti descrive l’Italia degli anni settanta e ottanta.
Era il periodo in cui il nostro Paese sembrava mancare la sua occasione storica di diventare un Paese moderno affrancandosi dai suoi mali endemici: un’inadeguatezza delle istituzioni rispetto alle nuove realtà sociali, un capitalismo in ritardo ed eternamente dipendente, la faticosa conquista da parte dello Stato di un’identità pienamente laica, una classe intellettuale incapace di esprimere voci partecipi ma critiche, scomode e non a servizio.
“Vita e morte di una classe dirigente” dipinge un Paese in perenne affanno, tra ritardi storici e
opportunità sfumate, e il potere inerte di una classe dirigente che, si potrebbe definire, nata morta.
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