Galeotto il libro e chi lo scrisse


Così come, secondo la teologia morale scolastica medievale codificata nelle Summae di Tommaso d'Aquino, non è certo un peccato mortale gustare una buona pietanza o delibare di quando in quando un vinello d'annata, neanche l'eros – ovviamente quello considerato naturale -, di per sé è da annoverarsi tra i vizi capitali, cioè tanto gravi da provocare la morte dell'anima; anche perché significherebbe considerare peccaminose le passioni in quanto tali, mentre, se rettamente intese, contribuiscono alla realizzazione e al perfezionamento della vita buona, cioè virtuosa.

Non sono le passioni e gli istinti, dunque, a perdere le anime – e i corpi – delle creature umane, ma il loro sconfinamento nei sette vizi o peccati detti, appunto, capitali: superbia (eccesso di amor proprio), avarizia (desiderio smodato di possesso), invidia (sentimento di astio e rancore per l'altrui felicità o successo o fortuna), ira (impulso incontenibile a danneggiare qualcuno per sfogo o vendetta), lussuria (insaziabile brama di piaceri carnali), gola (mancanza di moderazione nel mangiare e nel bere), accidia (negligenza nel lodare Dio e nel compiere opere buone). Il peccato mortale non sta nei desideri ma nella debolezza o nella cattiva volontà che non li sa o non li vuole “contenere”.

Non per niente Virgilio spiega, “In su l'estremità d'un' alta ripa”, sull'orlo del sesto cerchio dove sono puniti negli avelli infuocati gli eretici, al pellegrino Dante, dopo averlo richiamato a ricordare “quelle parole / con le quali la tua Etica pertratta / le tre disposizion che il ciel non vole, / incontinenza, malizia e la matta / bestialitade” che l'incontinenza, pur rimanendo un peccato mortale (sempre che non ci si penta in tempo), è la meno grave delle tre.

Ai lussuriosi infatti è assegnato il secondo cerchio, quello successivo al Limbo, e dove cominciano a farsi sentire “le dolenti note”, cioè le strida, il compianto e il lamento dei “peccator carnali / che la ragion sommettono al talento”; e proprio perché si sono lasciati travolgere dal desiderio, ora sono travolti dalla “bufera infernal, che mai non resta”.

La pena, come sempre nell'Inferno - eccettuate le anime del Limbo - e nel Purgatorio, colpisce, anzi “percuote” i dannati anche nel corpo, e tuttavia il tormento di questa bufera che “mena li spirti nella sua rapina” assomiglia più a un turbamento psichico che a una tortura fisica, tanto che le immagini scelte dal poeta sono quasi sempre alate e lievi: “e come gli stornei ne portan l'ali / nel freddo tempo a schiera larga e piena..........e come i gru van cantando lor lai, / facendo in aere di sé lunga riga...........Quali colombe dal disio chiamate, / con l'ali alzate e ferme al dolce nido / vengon per l'aere dal voler portate........”.

Le colombe innamorate che prontamente rispondono all'affettuoso grido di Dante sono le anime dei due cognati Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, colti in flagrante adulterio e per questo uccisi. Tra i due delitti, il più grave è fuor di dubbio quello del marito che uccide a tradimento la moglie e il fratello (per lui è già pronto un posto nella Caina, il reparto del nono cerchio riservato ai traditori dei parenti); mentre Paolo e Francesca sono colpevoli sì di adulterio, ma anche vittime di quello che i poeti provenzali chiamavano fin amor, l'amore che sarà definito “cortese” dal filologo romanzo Gaston Paris, e i cui principi fondamentali sono ricordati dalla stessa Francesca: “Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende..........Amor, ch'a nullo amato amar perdona............Amor condusse noi ad una morte..........”.

Il racconto apologetico di Francesca è così nobile, alto e appassionato da far quasi dimenticare, a noi lettori e al Poeta, che si tratta pur sempre, secondo i principi dell'etica cristiana, di amore profano e peccaminoso. Ma, di nuovo, come è possibile che un sentimento tanto sublime comporti la dannazione eterna? Qui è necessario ancora rifarsi all'etica aristotelica: se la realizzazione massima per l'uomo consiste nella vita contemplativa, è chiaro che l'eros praticato, anche tra marito e moglie, distoglie dall'esercizio delle virtù dianoetiche, cioè quelle proprie dell'intelletto, le sole che, secondo Aristotele, ci danno la possibilità di conoscere il Sommo Bene, che è Dio; inoltre, quando il desiderio sessuale eccede l'ordine e la misura della ragione, avviene come una sovversione interna nella gerarchia delle facoltà dell'anima, così che una facoltà inferiore come la sensitiva comanda a una superiore come l'intellettiva.

E' da notare che questa concezione non ha fondamenti biblici: nell'Antico e nel Nuovo Testamento non troviamo l'idea di questo dominio della mente sulle altre facoltà, ma se mai l'idea che tutte le facoltà, intelletto compreso, vanno armonizzate e integrate intorno e grazie all'amore di Dio. Rimane incontestabile, tuttavia, che così per Paolo , come per Agostino e Tommaso (e non parliamo nemmeno del povero Abelardo che pensò bene di evirarsi per sfuggire alle tentazioni carnali), per chi aspira ai carismi più alti la castità è lo stato migliore di tutti.

Già, ma se tutti rimanessero vergini, che ne sarebbe dell'umanità futura? Per questo fu istituito il sacramento del matrimonio, anche come rimedio e prevenzione contro la lussuria e la fornicazione. E nondimeno abbiamo visto che non sempre è un rimedio efficace, soprattutto quando si tratta di matrimoni combinati, come quello tra Francesca e il deforme Gianciotto, né le flagellazioni, i cilici e le cinture di castità pare abbiano potuto molto contro le tentazioni demoniache.

Sul finire della sua appassionata rievocazione, Francesca indica nella lettura del romanzo cavalleresco in cui si narra dell'amore tra Lancillotto e Ginevra, l'occasione che spinse Paolo a baciarla sulla bocca: “Quando leggemmo il disiato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante./ Galeotto fu il libro e chi lo scrisse...........”

Dunque certi romanzi possono in certi casi diventare Galeotti, cioè mezzani, come i loro autori? E, in tal caso, fu giustificato il famoso Index librorum proibitorum e relative condanne al rogo da parte di Santa Romana Chiesa? Per alcuni, a quanto pare, anche ai nostri giorni, sì. D'altra parte, non è forse meglio bruciare i libri (e, magari, anche i loro impenitenti autori ) piuttosto che finire all'inferno per aver letto i libri sbagliati? Non ha forse ragione il Grande Inquisitore di Dostoevskij nel preferire alla carità di Cristo l'autorità della Chiesa? In fondo gli uomini (e le donne) quale uso hanno fatto e fanno tuttora del dono della libertà? Non è che, per caso, preferiscano la schiavitù come gli schiavi della caverna platonica?

Fulvio Sguerso

www.foglidicounseling.org

Potrebbero interessarti ...