L’ermeneutica (o teoria dell’interpretazione) sgorga dalle controversie teologiche che emergono dalla Riforma e poi viene applicata dal campo della teologia agli altri campi dei filologi, degli storici, dei giuristi e in generale tutti i campi cha hanno a che fare con l’ “interpretare”.
Schlegel e Schleiermacher diedero all’ermeneutica un posto di rilievo nella filosofia e Dilthey ha cercato di porre l’ermeneutica stessa a fondamento dell’intero edificio delle scienze dello spirito per Dilthey l’ermeneutica non è solo una “questione tecnica di metodo” ma è soprattutto una prospettiva di natura filosofica da porre alla base della coscienza storica e della storicità dell’uomo. Tuttavia è stato Heidegger a dare spessore alle idee di Dilthey poiché e quindi a comprendere lo statuto filosofico dell’ermeneutica dal momento che secondo Heidegger essa non è uno strumento a disposizione dell’uomo, quanto piuttosto struttura costitutiva del Dasein, una dimensiione intrinseca dell’Uomo.
L’interprete si avvicina ai testi non come una tabula rasa ma con la sua “pre-comprensione”, con i suoi pre-giudizi, le sue pre-supposizioni, le sue attese! Dato quel testo e dato il framework dell’interprete…egli abbozza una ipotesi/prospettiva di senso e l’ulteriore lavoro ermeneutico consiste nella costante revisione di quella ipotesi iniziale che viene “ri-orientata” in base a ciò che risulta dalla graduale e progressiva, ulteriore penetrazione di quel testo.
Ogni interpretazione infatti si effettua alla luce di ciò che si sa e quel che si sa, appunto, muta: cambiano le prospettive/precomprensioni/pregiudizi da cui guardare il testo, cresce il sapere sul contesto, aumenta la conoscenza sull’uomo, sulla natura, sul linguaggio i mutamenti che avvengono costituiscono cosi occasioni di rilettura del testo, apertura di nuove ipotesi interpretative da sottoporre alla prova. Proprio questi continui “urti” tra l’interprete e il testo ci costringono a renderci conto dei nostri pregiudizi ed a mettere in moto la catena di interpretazioni sempre più adeguata. Noi scopriamo quel che il testo dice, perveniamo a scoprire la diversità dalla nostra mentalità, o magari la lontananza dalla nostra cultura, solo partendo da quelle “donazioni di senso” che noi stessi costruiamo a partire dalle nostre pre-comprensioni e che gradualmente correggiamo e/o scartiamo sotto la pressione del testo. Per questo ”chi vuol comprendere un testo deve essere disposto a lasciarsi dire qualcosa da esso” per cui una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile alla alterità del testo: tale sensibilità non presuppone né una neutralità oggettiva né un oblio di se stessi ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi in modo che il testo non diventi un pre-testo perché parli solo l’interprete.
L’autore di un testo è solo un elemento occasionale: l’autore non è il suo prodotto e, una volta generato, un testo vive di vita propria. Cosi esso ha degli effetti sulla storia successiva che nemmeno l’autore poteva immaginare e questi effetti entrano in relazione con altri prodotti culturali in modo che LA STORIA DEGLI EFFETTI DI UN TESTO NE DETERMINA SEMPRE PIU’ PIENAMENTE IL SENSO in tal modo la distanza temporale che separa l’interprete dall’apparizione del testo non è un ostacolo alla comprensione ma, anzi, più ci allontaniamo cronologicamente dal testo più ci avviciniamo alla sua comprensione. IN sostanza mentre Bacone aveva scovato gli idoli e voleva eliminarli, Gadamer dice che dobbiamo esserne consapevoli e, una volta consapevoli, dobbiamo senza sosta correggerli, ri-orientarli e/o sostituirli con idola migliori.
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