L’ambiguità della sigla BES consta nella sua aspecificità e generalità descrittiva, che se da una parte individua ed include soggetti caratterizzati da generali difficoltà ravvisate negli ambiti culturali, socio-economici e linguistici, dall’altra è questa stessa definizione ad aprire ad una pluralità di concetti, ipotesi causali, scelte strategico-metodologiche, traiettorie di apprendimento e di pianificazione didattica che volgono ad un orizzonte eccessivamente frammentato, dentro cui si avverte la necessità di mettere ordine al caos e di delineare indicatori e punti comuni che mitighino il senso di insicurezza e di incertezza dovuto al carattere non formale della classificazione terminologica in oggetto.
La perplessità espressa da più parti verso questa sigla, è dovuta principalmente al fatto che la stessa si presenta come un esteso contenitore semantico che non sembra soddisfare a sufficienza ciò che invece è soggetto al rigore delle nomenclature clinico-diagnostiche formali che si articolano come sottocategorie della macro-classificazione denominata BES. Il bisogno di poter disporre di un framework dalle coordinate affidabili e validate dall’esperienza e dal sapere scientifico, favorisce l’orientamento dentro una progettualità che se da una parte si avvale di un modo di procedere flessibile ed attento ai cambiamenti, d’altra parte combina questo aspetto con le preziose indicazioni operative e metodologiche giustificate da linee guida e pratiche consolidate già ampiamente confrontate nell’ambito educativo e didattico. Perciò, la possibilità di poter riferirsi a nomenclature formali descritte e riscontrate nei protocolli diagnostici, sembra sollevare l’insegnante e altre figure educative dal compito di comprendere l’espressione e l’avvicendarsi del fenomeno osservato. In pratica, se è vero che da una parte ci si sente più sicuri per il fatto di poter contare sulla scelta di percorsi ed opzioni operative e progettuali legate a una determinata sindrome inquadrata fra le categorie nosografiche attualmente conosciute, dall’altra è da considerare il rischio di sentirsi poco co-responsabili del livello di rendimento, di qualità della risposta di adattamento e di vissuto esistenziale nell’esperienza del singolo studente diagnosticato secondo canoni formali. Di conseguenza, ciascuna etichetta utilizzata, sia essa proveniente dall’ambito formale e strutturato che da quello più aleatorio dalle definizioni più sfumate, include il rischio implicito sul non saper gestire in modo adeguato il proprio livello di coinvolgimento e co-responsabilità come fattore influente e facilitante nel percorso sia scolastico che di vita dello studente. In sintesi, un insegnante potrebbe commettere l’errore di spostare e decentrare il focus sia delle cause che degli effetti sulle aree di criticità misurate, al singolo studente, con il rischio di nasconderne risorse, abilità e potenzialità, in quanto eccessivamente percepito dentro una sorta di equivalenza unica fra lo studente medesimo e il suo dominio circoscritto di differente espressione rispetto alla norma. L’effetto di queste conclusioni è che il docente potrebbe attribuire troppo alle variabili note e che producono il fenomeno in oggetto, una quasi esclusiva ragione sulle manifestazioni sintomatologiche della sindrome osservata, sottostimando il peso delle circostanze a carattere ambientali, soprattutto separliamo di studenti accompagnati da certificazioni conclamate, ed invece sovrastimando nel caso in cui si tratti di nomenclature (quali a proposito l’espressione BES) che ascrivono l’emissione delle dimensioni di problematicità osservate esclusivamente a cause di natura ambientale complessa. In entrambi i casi, il docente è affrancato dal sentirsi parte e concausa della modalità espressiva attraverso cui lo studente perviene alla manifestazione di sé. In una circostanza, infatti, attribuisce ciò che osserva a cause esclusivamente endogene, dall’altra a fattori eziologici ambientali, sottovalutando il ruolo attivo del soggetto stesso interessato all’intervento e la funzione stessa della figura insegnativa come co-partecipe significativa e rilevante a sostegno della qualità del percorso formativo identificato per (e in alcuni casi anche con) lo studente. Differente è la questione se declinata sotto l’aspetto dell’individuazione di una tipologia che rientri nell’area di criticità del fenomeno affrontato, e quindi sotto l’aspetto della costruzione di un itinerario di apprendimento in assenza di indirizzi già suggeriti e collaudati come nel caso in cui si sia ricevuti esternamente un responso medico-diagnostico. In questa circostanza, infatti, le responsabilità sull’intero processo di istruzione programmata è rimessa a completo carico del team docente e scolastico. È questa condizione di incertezza e di vaghezza terminologica che potrebbe aprire a confronti fra il personale preposto, dentro una dimensione di eccessiva soggettività o dominata da prospettive ed aspettative ingenue. È in questa precisa circostanza che viene messa alla prova anche la competenza insegnativa sulla necessità di gestire le proprie proiezioni e inferenze personali prevenendo la creazione di stereotipi, pregiudizi e processi di interferenza e condizionamento come ad esempio il noto fenomeno della profezia inconsapevole. Spesso si posseggono già in anticipo immagini idealizzate dell’alunno, e in quel caso la sigla BES diventa una piattaforma di senso su cui viene fatto il confronto fra “bambino immaginato” e “bambino reale”; e sarà il rapporto di somiglianza/divergenza fra queste due identità, a prefigurare la percezione dell’insegnante sulle possibilità del bambino in merito alla possibilità di poterlo gestire e comprendere, poterlo aiutare a favorire il successo scolastico, poter sostenerne il processo di progressiva conquista dell’autonomia e dell’autoefficacia, agevolarne le conquiste in termini di sviluppo di abilità e competenze. Deve pertanto esistere la necessità di considerare che l’utilizzo inappropriato di una sigla nata con il proposito di includere, individuare e ragguagliare situazioni non altrimenti circoscritte da precise e conclamate condizioni cliniche, possa essere condotto in modo non appropriato, per la mancanza di criteri e requisiti definiti con accuratezza, ma anche, ed è bene ribadirlo, per la responsabilità di chi resta eccessivamente invischiato nell’alveo delle sue personali suggestioni e rappresentazioni personali sulla identità del soggetto interlocutore. Tutto ciò accade perché ancora oggi è possibile constatare una lacuna formativa nell’ambito delle competenze di ascolto, comunicazione e gestione delle relazioni interpersonali in chiave di funzionalità. E ciò compromette la buona prassi coinvolta nella complessa dinamica del rapporto insegnamento/apprendimento fra allievo e docente. Di certo non aiuta l’espressione coniata mediante la sigla BES, in rapporto soprattutto all’ambivalenza semantica contenuta nel termine “speciale”. Questo vocabolo, infatti, può rimandare ad un’accezione declinata nell’ambito della patologia, dove il concetto di specialità è quello ereditato dall’approccio emendativo, correttivo e normalizzante, che tende cioè a riallineare l’individuo ai parametri generali attesi ed auspicati. D’altra parte, può invece essere associato addirittura al suo rovesciamento, ovvero al percepire il soggetto speciale come equipaggiato di doti superiori, irraggiungibile ed impareggiabile per la media delle prestazioni conosciute. Si tratta dopotutto dell’ennesimo stereotipo con cui in assenza di un approccio rigoroso e scientifico sul tema, degenera in una visione favolistica e superficiale, la quale ovviamente non corrisponde a verità. Allora qual è la specialità di cui si parla? Si dovrebbe trattare di una specialità che valorizza la singolarità dell’individuo in termini di risorse, potenzialità e punti di forza. Non si tratta però di trascurare o minimizzare gli aspetti di criticità, ma di promuovere giustappunto una visione integrata e complessiva della preziosa unicità del singolo. È questa la grande differenza con gli approcci antinomici e parziali avvinti dal pressapochismo e dall’ingenuità. Per reperire tali coordinate di una certa attendibilità, possiamo fare riferimento all’approccio Index For Inclusion, che consiste per l’occasione nel tentativo di identificare i criteri e i presupposti principali per facilitare e promuovere la collettiva inclusione in ambito scolastico. I tre pilastri fondanti per attivare questa visione riguardano un impegno suddiviso essenzialmente su tre fronti: quello culturale, quello politico e quello delle pratiche in vivo. Con il primo aspetto si intende agire sulla collettività. Diventa cioè indispensabile informare, generare attenzione sociale sui temi educativi e sulla diversa abilità. Divulgare l’importanza del tema organizzando eventi ad hoc. Sensibilizzare promuovendo una cultura dell'altro, della diversità, dell'accettazione matura che si emancipi dall'eterofobia e dal pietismo come estremi dello stesso continuum. Creare riflessioni e dibattiti culturali, elevare la partecipazione sociale, la comprensione, la vicinanza, l'accoglienza, perchè la società tutta maturi e superi l'empasse dell'imbarazzo di non saper interagire con la persona dalle caratteristiche atipiche e non comuni. La seconda dimensione si riferisce all’importanza di responsabilizzare il mondo delle istituzioni e della politica, e non soltanto in termini limitatamente annunciati o auspicati durante una campagna elettorale. Investire piuttosto risorse finanziarie appropriate per assicurare interventi e forme di sostegno educativo, favorendo l'integrazione, l'accesso ai servizi, la fruizione delle risorse culturali e di tutte le occasioni di istruzione e di formazione. Agire secondo una prospettiva di lavoro di rete teso alla mobilitazione delle risorse individuali, al potenziamento delle abilità residue, all'incremento dell'autonomia e alla prevenzione dell'esclusione. La terza voce in capitolo si lega invece alla necessità di attivare in vivo percorsi operativi di crescita e di sviluppo dell'individuo agente, pianificando un itinerario cherisponda all'effettivo profilo personologico e dei bisogni del singolo. Delineando cioè con precisione le sue aree di bisogni, preferenze, attitudini, punti di forza, abilità consolidate, isole di competenze, che possono costituire il fulcro motivatore delle azioni dello stesso e della sua volontà di partecipare attivamente e di essere protagonista del suo cammino di sviluppo e autoaffermazione. Alla fine, tutto ciò che conta, anche oltre la questione sul disquisire e dibattere sulla controversa sigla di cui in oggetto, è di indirizzare l’agire educativo su di un territoriodove lo studente è per l’appunto considerato secondo un’ottica olistica ed ecologica, colto in tutti i suoi aspetti, noti e meno noti, ed altri ancora da scoprire ed esplorare insieme allo stesso protagonista immesso a pieno titolo nell’esperienza dell’apprendimento. La volontà a lasciarsi sorprendere, scoprire l’inedito e accoglierel’ignoto e l’imponderabile, affrancherà il docente a voler controllare a tutti i costi, e ciò eviterà il processo dell’etichettamento (labelling), vera piaga sociale (o più propriamente antisociale) che si pone sempre su uno scenario il cui sfondo è sceneggiato da un contesto massificato dove domina la spinta ad essere agganciato a modelli pre-impostati e più comunemente accettati. BES o non BES, la vera sfida da vincere si misura su questo terreno: ovvero la capacità di impiegare le risorse educative (e soprattutto se stessi come educatori) per superare questa angoscia dovuta all’essere “devianti” rispetto agli standard, ad essere definiti sia sotto l’aspetto quantitativo (percentili, Q.I., solo per fare degli esempi) che sotto l’aspetto qualitativo (diverse manifestazioni del Sè) come diversi con una accezione di soggetti da rifiutare, da guardare con sospetto, soprattutto se facenti parte di una minoranza, di una qualunque minoranza che non è assoggettata alle scelte più popolari o appiattita al comune sentire e percepire. Se quel concetto di “specialità” insito nella S, viene assunto sotto questo significato, si potrebbe addirittura fare la scoperta su come ciascuno di noi risulti già collocato al di la delle sigle, in quanto la specialità è da sempre un dono irripetibile e individuale da coltivare mediante un agire maieutico. Si tratta in fondo di restaurare il profilo di una pedagogia storicamente troppo asservita a logiche verso le quali dovrebbe piuttosto essere in antitesi. Abbiamo cioè bisogno di una pedagogia che rilanci il concetto di specialità non come privilegio di pochi o addirittura secondo una lettura di atipicità estranea alle condotte “normali”, ma come un valore imprescindibile che riponga al centro le risorse peculiari di ogni studente. Poichè ogni studente, in fondo, come tutti noi, anche se non lo certifica è e resta comunque a suo modo un individuo speciale. dott. Nuccio Salis - Pedagogista clinico, Counselor, Formatore
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