PIENO DI SOLITUDINE. LA RICOSTRUZIONE DEL SÉ DOPO LA PERDITA

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INTRODUZIONE

La perdita è una fase inevitabile della vita, forse la cosa più naturale che ci sia. Eppure, anche quando preparati ad affrontare il “lutto” che da essa ne deriva, non sembriamo mai pronti. Lutto e perdita, sono termini che non possono prescindere dalla vita dell’essere umano, e che rievocano esperienze stressanti per l’individuo, in grado di cambiare la percezione di sé e del proprio corpo.

La scelta di un tema così forte è nata dalla necessità di far contattare in modo “pieno” la persona e restituirle la sua possibilità di esser-ci, nonostante tutto. Quando parliamo di perdita non ci riferiamo solo alla morte, ma alla perdita dell’altro che genera sofferenza psicologica e fisica, che ci fa sentire “a pezzi” e quasi incapaci di ri-costruirci.

L’altro, che in una prospettiva analitica potremmo individuare come l’oggetto sociale dell’attaccamento (Bowlby), attraverso la morte o la separazione, rompe il legame e mette così in pericolo la sopravvivenza del soggetto (Pezzotta, 2002). L’organismo di chi subisce la perdita, porta le conseguenze della rottura perché deve reggersi da solo in un ambiente sociale che improvvisamente è cambiato.

Si tratta di un cambiamento obbligato, non scelto, che genera conflitto. Da una parte c’è il passato, che è l’unico posto in cui è ancora possibile incontrare l’altro, dall’altra c’è il futuro, che in un momento di stasi e di sentimenti di angoscia e paura, non è facile vedere.

Il workshop nasce dall’esigenza di approfondire e far sperimentare, modalità “sane” per affrontare la perdita dell’altro significativo. A partire dalla percezione della propria identità, l’obiettivo è quello di contattare il vuoto dato dalla perdita per poi ri-costruire la propria identità grazie anche all’incontro con l’altro, il tutto in un ambiente protetto.

Nei racconti di chi subisce una perdita ci sono tre fasi tipiche del processo di elaborazione del lutto, denominate: “Shock”, “Tristezza” e “Chiusura”. Ogni fase a sua volta porta con sé un iter di emozioni e sentimenti in conflitto fra loro, fra cui la negazione, la tristezza, la rabbia, quella denominata “autorabbia” o “rabbia retroflessiva”, l’invidia, il senso di colpa.

Nella prima fase, quella definita ”Shock”, può insinuarsi una modalità “negazione”. La persona è come se avesse perso una parte di sé e possono emergere allucinazioni nonpsicotiche, in cui si cerca di dare continuità ad una realtà che non esiste più. Il corpo è ipertonico e il cervello vive ancora la relazione fisica con l’altro.

IL WORSHOP SECONDO IL CICLO DI CONTATTO

 

SENSAZIONE

Ogni ciclo di contatto inizia con la fase di ritiro, quella fase in cui le sensazioni e le emozioni appartengono al campo al di fuori del workshop. In questo caso i partecipanti arrivavano dal momento del pranzo, ognuno con la propria storia e il proprio vissuto, chi felice per la giornata di sole, chi sazio del lauto pasto consumato, chi ancora “scosso” dalle esperienze della mattina.

È importante in questa fase attivare tutti i sensi per far entrare le persone nello stato d’animo della perdita, in quel turbinio di emozioni che caratterizza l’essere umano quando si trova a dover rimanere da solo con i propri vuoti.

Per questo motivo, abbiamo deciso di iniziare subito con una poesia stimolo, che a nostro avviso rappresenta la relazione con l’altro e la possibilità/impossibilità di creare legami simbiotici.

 

Non ho smesso di pensarti,

vorrei tanto dirtelo.

Vorrei scriverti che mi piacerebbe

Tornare,

che mi manchi

e che ti penso.

Ma non ti cerco.

Non ti scrivo neppure ciao.

Non so come stai.

E mi manca saperlo.

Hai progetti?

Hai sorriso oggi?

Cos’hai sognato?

Esci?

Dove vai?

Hai dei sogni?

Hai mangiato?

Mi piacerebbe riuscire a cercarti.

Ma non ne ho la forza.

E nenache tu ne hai.

Ed allora restiamo ad aspettarci invano.

E pensiamoci.

E ricordami.

E ricordati che ti penso,

che non lo sai ma ti vivo ogni giorno,

che scrivo di te.

E ricordati che cercare e pensare son

Due cose diverse.

Ed io ti penso

Ma non ti cerco.”

C. Bukowski

 

Una volta creato il climax, abbiamo provveduto ad entrare nell’esperienza attraverso la presentazione dei conduttori e dei partecipanti e attraverso una domanda stimolo: << quando ti senti o ti sei sentito pieno di solitudine?>>

terminato il giro, abbiamo chiesto ai partecipanti di costruire la propria “carta di identità”: questo è uno strumento gestaltico, che permette di rappresentare se stessi attraverso il livello immaginativo, infatti, si utilizzano fogli A3 da piegare a metà e riviste per la ricerca delle immagini. I partecipanti scelgono e incollano le immagini che ritengono rappresentarli al meglio: all’esterno ciò che fanno vedere di sé agli altri, all’interno ciò che invece tendono a “proteggere” di più.

Successivamente alla costruzione della propria identità, abbiamo chiesto ai partecipanti di muoversi nello spazio per incontrare l’altro, attraverso lo stimolo di una base musicale, le persone in silenzio, e solo attraverso l’uso dello sguardo, hanno ricercato l’altro significativo con cui condividere l’esperienza.

 

A questo punto, vi è stato un momento di scambio dove i partecipanti hanno “raccontato” la propria carta di identità all’altro, utilizzando il livello cognitivo-verbale per illustrare quello che il livello immaginativo aveva creato. Posti colori e altro materiale utile al centro della stanza, abbiamo chiesto ai partecipanti di scambiare le proprie carte di identità, e di “sporcare” quella del compagno seguendo le emozioni suscitate dal racconto.

Ogni relazione influenza la nostra identità, è una contaminazione di due anime che si “sporcano” a vicenda.

Questo è il momento dell’incontro vero e proprio, quel luogo/tempo indefinito che si manifesta dopo la presentazione di sé, quell’attimo di cui non siamo quasi mai consapevoli, che registra il tipo di relazione che si andrà a creare con l’altro. È il momento in cui i confini di contatto sono labili, in cui la permeabilità è massima, data dalla confluenza dell’incontro.

È un momento talmente breve, talmente labile, che la nostra coscienza non lo registra, ma il nostro mondo emotivo sì. Successivamente vi è un “rientro” nei propri confini per assaporare e cercare di digerire l’esperienza appena avvenuta.

Per questo motivo, ogni partecipante si riappropria della propria identità e, abbiamo chiesto loro, di strapparla in piccoli pezzi.

L’identità creata, non c’è più, l’incontro ci ha reso diversi e al tempo stesso uguali, è il momento di raccogliere quanto il “mondo esterno” mi ha modificato e di sentire l’effetto che questo ha sulla mia precaria unitarietà.

Ogni partecipante così, mette i “suoi cocci” in un sacchettino da appendere al collo, perché l’identità non è perduta, è ancora lì, al nostro fianco, la sentiamo su di noi, dentro di noi, ma non è più la stessa.

Per poter far sperimentare al meglio le sensazioni che questa delicatissima fase restituisce, si è scelto di bendare i partecipanti cercando di ridurre il più possibile gli elementi di controllo della realtà (vista), facendo così sperimentare in modo più accentuato la sensazione di perdita. 

 

 

Da come si può vedere, molto spazio è stato dato alla fase della sensazione, in quanto era necessario ricreare emotivamente il senso della perdita. Da evidenziare che per perdita non si intende solo la fine di una relazione amorosa, ma anche il lutto, quindi la perdita fisica, la fine di una relazione lavorativa e/o amicale, il filo conduttore è l’impossibilità di “tornare indietro”, perdendo, appunto, l’altro.

 

CONSAPEVOLEZZA

Nel momento in cui i partecipanti sono bendati, viene chiesto loro di muoversi nello spazio in musica, vagando con il proprio senso di solitudine) evitando il contatto con l’altro, sperimentano cosa significa letteralmente andare in pezzi dopo una perdita, e cosa significa essere soli.

Dall’osservazione fenomenologica del gruppo, i conduttori estrapolano le sensazioni e le emozioni, per offrire spunti di riflessione, e per amplificare il sentimento di perdita.

Iniziamo a prepararci per l’esperienza di pre-morte, chiediamo ai partecipanti di scegliere un punto nello spazio dove poter rimanere da soli e in contatto con il proprio mondo emotivo, chiediamo loro di stendersi supini e di incrociare le braccia sopra il proprio petto, in modo da simulare una vera e propria “morte fisica”.

Secondo Baumann, in una società liquida come questa, la fase di “Negazione” è vissuta in modo esponenziale. Questa liquidità ci proietta in una dimensione irreale sostenuta da una grande rigidità narcisistica, che non ci permette di vivere il qui ed ora e di pensare alla morte come fase naturale della vita.

 

MOBILIZZAZIONE DELL’ENERGIA

Una volta stesi a terra, attraverso la respirazione, e la conduzione guidata, i partecipanti irrigidiscono ogni muscolo del proprio corpo e attraverso le tecniche respiratorie mediate da una temporalità ben precisa, i partecipanti sperimentano la rigidità del corpo e allo stesso tempo l’assenza, per quanto possibile della respirazione (il respiro è l’indice della vita).

Questa è la cosiddetta fase di pre-morte, ovviamente è impossibile eliminare il processo respiratorio, ma attraverso i momenti di apnea, il partecipante sperimenta cosa significa l’assenza dell’aria, cosa significa il trovarsi “senza fiato”; inoltre ad ogni respirazione il corpo si fa più rigido perché impegnato a mantenere attivi i processi vitali minimi, pertanto la persona può sperimentare il più possibile una specie di “fermo immagine” della propria vitalità.

 

Successivamente, dopo un tempo stabilito attraverso l’ascolto del gruppo, si “riportano” in vita i partecipanti e si chiede di riprendere contatto con il proprio corpo attraverso dei movimenti che porteranno il partecipante in una posizione fetale, per un vero e proprio momento di rinascita. Il tutto avviene sempre tramite la respirazione e la ripresa del contatto con il proprio corpo, si chiede di muoversi, di stirarsi, di riattivare i muscoli, di tornare alla vita, passando dalla posizione fetale.

Una volta rinati, e vista l’intensità dell’esperienza, si permette di togliere le bende, e si chiede ancora una volta, di utilizzare il cognitivo-verbale, scrivendo su di un foglio un’unica parola che identifichi l’esperienza appena effettuata.

 

Nella concezione gestaltica la figura non è chiara e la fragilità prende il sopravvento su tutti i sensi, fino ad arrivare alla “Tristezza”, attributo funzionale nel processo. Tristezza concepita come sentimento e non equiparabile alla depressione intesa come patologia cronica, che porta con sé un’ipotonicità del corpo. I bulbi oculari sono ipotonici, la muscolatura molle e la respirazione è leggera. Il corpo non è stabile quasi a comunicare la sensazione di “non essere visti”.

In questa seconda fase la persona tende a pensare che senza l’altro nulla ha più senso, è il momento in cui è necessario lavorare attentamente sul corpo. Risvegliare la muscolatura e far sentire la persona nel presente. In questo momento sopraggiunge la rabbia, che come un motore acceso può aiutare la persona a ri-crearsi a  partire dai “pezzi”.

E’ la fase in cui ci si sente più spesso dire “Stai su”, “Non essere triste”, “Forse doveva andare così”, tipiche affermazioni che ci fanno sentire ancora più soli, a pezzi, non capiti.

E se tutti intorno non comprendono e non si sintonizzano con il malessere che porto con me, la rabbia esplode e diventa irascibilità, voglia di chiudermi all’esperienza sociale.

Il contesto diviene dunque un limite, non più un’opportunità. Ma questa è solo “la notte buia” prima del nuovo giorno.

 

AZIONE

È arrivato il momento di muoversi! Dopo tanto dolore, dopo tanta immobilità, è arrivato il momento di “scuotersi” e andare per il mondo alla ricerca del “giusto aiuto”. In questo senso abbiamo chiesto ai partecipanti di muoversi nello spazio con la propria parola in bellavista, alla ricerca di quella parola che possa soddisfare il bisogno della persona e di formare delle coppie (stavolta tenendo fermo il punto della relazione a due).

 

CONTATTO

Una volta formate le coppie, abbiamo puntato sulla forza della relazione, chiedendo alle persone di ri-costruire la propria identità, scegliendo se fonderla con quella dell’altro, se mantenere la propria individualità, o se ri-costruire direttamente l’identità dell’altro, il tutto in silenzio, senza parlare lasciandosi guidare solo dalle emozioni.

È stato un momento in cui tutte le difficoltà relazionali sono emerse, il momento in cui si è evidenziato se il processo di separazione era stato effettuato al 100% oppure no. Infatti, le chiusure nella vita sono importanti, non si può pensare di ri-aprirsi al mondo , alle relazioni, all’altro, se non si è effettuata una buona chiusura.

In gestalt questo momento è vissuto come atto creativo, determinato da forze adattive. La persona ha la possibilità di ri-costruirsi a partire dai suoi “cocci” e tornare nell’ambiente che può sostenerla, poiché non è possibile elaborare il lutto in solitudine.

E’ una fase molto delicata quella della resilienza, poiché può generare sentimenti di invidia “tu sei vivo e lui no” e autorabbia “non voglio più farmi male”, che a loro volta generano sensi di colpa. La rabbia in questa fase è funzionale, serve per far uscire un’eccesso di energia dal corpo, e per questo la nostra proposta è stata quella di canalizzarla nel processo creativo di ricostruzione, senza il quale non sarebbe stato possibile il momento finale, quello di “Chiusura del Lutto”.

 

In Giappone si dice che “un vaso rotto non può più tornare come prima” e per questo viene riparato con l’oro. E’ una tecnica di riparazione che si chiama Kintsugi, lunga e costosa, e consiste nell’incollare i frammenti dell’oggetto rotto con una lacca giallo rossastra naturale e nello spolverare le crepe che attraversano l’opera ricomposta con della polvere d’oro.

Il Kintsugi dimostra che da una ferita può rin-ascere una forma di bellezza e di perfezione superiore, ma che è necessario accettare, vivere il processo di elaborazione in modo presente e consapevole,  per far si che la ferita si rigeneri e “i pezzi” trovino il loro posto.

 RITIRO

Una volta terminata l’esperienza di ri-costruzione siamo tornati nel grande gruppo e abbiamo chiesto i feedback in merito al workshop, tornando al livello cognitivo-verbale.

 

CONCLUSIONI

Ciò che risalta di più in figura è che attraverso lo stare nella perdita, nel lutto, nonostante la difficoltà del momento emotivo, i partecipanti hanno avuto la forza per ri-costruirsi, come se passare attraverso il dolore sia una tappa inevitabile per tornare a stare nella relazione.

Il processo di separazione interna, dopo aver sperimentato la naturale confluenza che una relazione dà, è sempre inaspettatamente semplice, probabilmente perché l’energia data dal gruppo ha permesso di diluire il dolore che ogni partecipante stava provando in quel momento.

Un’altra cosa che ha colpito è che alcuni partecipanti, nonostante avessero avuto dei problemi nella sperimentazione del vuoto, dell’assenza, hanno voluto continuare il workshop fino alla fine, permettendosi un viaggio personalissimo dentro il proprio dolore.

Proporre un laboratorio che parlasse di lutto e perdita è stata una grande possibilità in termini didattici e formativi, sia per noi docenti che per chi ha scelto di mettersi in gioco.

La gestalt, che mira in primis alla sintonizzazione mente corpo e all’integrazione, è stata la vera protagonista. La metodologia utilizzata infatti, proprio per la sua peculiarità di utilizzare in modo funzionale tutti i livelli dell’esperienza, ha reso possibile la co-creazione del sé a partire dai “sentirsi a pezzi” dopo la perdita.

L’adattamento creativo è una possibilità per l’individuo di “ri-nascere” in termini fisici e psicologici, è parte di un processo di elaborazione in cui tutte le emozioni citate devono essere riconosciute, canalizzate e trovare il giusto spazio, per poter generare qualcosa di nuovo, proteso al futuro.

In quello spazio in cui IO e TU si incontrano, può accadere di tutto. Possono crescere, possono evolvere, possono ferirsi e possono morire. In quello spazio tutto ciò che accade è anche dell’altro, influenza e contamina l’altro e la relazione. In quello spazio, tutto ciò che esiste si chiama NOI. Per questo non è possibile dire che è solo una persona a morire. La morte, la perdita, la separazione, portano con sé una morte per entrambe, così come un’opportunità di rinascita.

Attraverso la lettura globale del ciclo d’istinto (Perls), inteso come esperienza di attivazione/blocco all’interno dell’esperienza, possiamo comprendere come in ogni fase è possibile per l’individuo sviluppare e rispondere in modo adattativo , creativo e flessibile alla situazione in essere.

Come una cellula, che attraverso la modificazione fluida della propria membrana plasmatica si concede di prendere e dare all’ambiente, proteggersi e accogliere, smaltire e modificare la materia, l’individuo può ritrovare in sé la possibilità di mettere in atto, con la stessa fluidità, il movimento di entrata e uscita da sé, o per meglio dire, dai propri self. Solo così, accedendo alla capacità di distinguere quelle che sono le sue gestalt fisse da quelli che invece sono adattamenti funzionali che l’organismo mette in atto per sopravvivere, allora può evolvere e ri-costruirsi, in qualsiasi momento, dopo qualsiasi perdita.

A cura di Cinzia Colantuoni e Claudia Battistoni

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IL WORKSHOP E' PRESENTE NEL TESTO "COME ACQUA CHE SCORRE. ADATTAMENTO CREATIVO ED ESPERIENZE DI CONFINE NELLA SOCIETA' LIQUIDA, DI CRISTIAN FLAIANI

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