“facciamo che io ero…e tu eri…”


“facciamo che io ero…e tu eri…”

           È stato il gioco più diffuso, un autentico se pur temporaneo processo di identificazione con adulti e familiari per le bimbe e ragazzine, e per i bimbi e ragazzi con eroi ammirati, calciatori (complici gli album Panini) o personaggi che emergevano dalla lettura di giornalini e qualche libro. Tutti  loro, in quella fascia d’età in cui i giochi erano più nettamente differenziati tra bambine e bambini di quanto non lo siano oggi –segno certamente positivo di emancipazione che stiamo ottenendo da schemi precostituiti–  erano capaci di esaltarsi in emozionanti imprese verosimili o fantastiche.

Interpretare un personaggio significava esserne un attento osservatore, subirne il fascino, proiettarsi nel futuro con le sue caratteristiche:  le bambine, interpretando il ruolo della mamma alle prese con la cucina e i figli disubbidienti (mentre il papà  era al lavoro quasi sempre in un Paese lontano e dunque mai presente nel gioco) si proiettavano nel loro futuro di donna identificandosi in un preciso modello, suggerito/imposto dalla realtà/convenzioni sociali oltre che familiari; per i ragazzi, scegliere un personaggio da interpretare significava possederne almeno una foto, raramente una preziosa, invidiatissima gigantografia da poter esibire e, se necessario, scambiare con qualche amico, ma soprattutto significava vivere un’esperienza, un’impresa talvolta pacifica, più spesso animata da accesa sfida, come le improvvisate partite di calcio, anche solo a due (uno in porta e l’altro goleador) tra beniamini appartenenti a squadre avversarie/nemiche.

           Perché parlarne in un ambito di counseling e ricerca del BenEssere?

Perché non può non colpire la naturale disinvoltura con cui quel processo identificativo veniva praticato –due, tre decenni fa– da ciascun/a ragazzo/a e quella evidente sensazione di appagamento di un evento esaltante, da ripetere l’indomani, che facevano sentire ogni interprete/attore davvero capace di realizzarsi in futuro come desiderava.

Nell’immaginario di quei ragazzini il futuro c’era, mentre da tempo le giovani generazioni non lo hanno conosciuto né lo conoscono oggi. Averne riprova è quanto mai facile: un/a ragazzino/a di dieci anni o un/a ragazzo/a di quindici avvezzo/a a vivere, in caotica frettolosità,  frammenti di presente, non sa rispondere alla domanda di come si vede nel futuro; il suo futuro non si spinge più in là della fine dell’anno scolastico, o delle vacanze estive, il resto è nebbia, assenza di modelli, assenza di progetti, tutto chiarissimamente espresso da una alzata di spalla.  E  noi adulti, educatori in particolare, siamo chiamati non ad imporre modelli di futuro, bensì ad agire perché alle giovani generazioni sia restituita l’idea, la percezione di futuro, l’energia per credere di poter modellarsi come sentono, la voglia di mettersi in gioco e anche di andare controcorrente.  

           Oggi, il gioco del come se… è proposto come modalità di problem solving, nella relazione di aiuto, nella strategia di soluzione delle più diverse problematiche. Quante volte, come counselor, per porgere uno strumento immediato ed efficace, abbiamo  sollecitato la persona che ci ha chiesto aiuto a chiedersi come si sentirebbe se il problema che l’angustia fosse già risolto, e ogni volta abbiamo potuto cogliere i benefici effetti che la finzione e lo spostamento di prospettiva innescano.

Abbiamo dunque recuperato il vecchio gioco dei bimbi e lo abbiamo collocato nel mondo della relazione d’aiuto, corredato da giustificazioni scientifiche e da posizioni teorico esperienziali? Non proprio.

Un particolare particolarmente significativo rende quel lontano e oggi raramente praticato o addirittura dimenticato gioco di bimbi, un esercizio ben più raffinato e di un’efficacia insopprimibile, ben maggiore del gioco come se…

La più sottile forza, la grande efficacia di quel cesello psicologico che consentiva al bambino di uscire da sé e renderlo di esprimersi e vivere almeno una parte dei suoi sogni, assumendo atteggiamenti e comportamenti che lo entusiasmavano risiede tutta in quel verbo all’imperfetto: io ero, tu eri.

Che meraviglia! L’imperfetto chiude l’esperienza che ha entusiasmato in un mondo ipotetico che, in quanto tale, può rimanere immodificato nel tempo e dunque manterrà intatto tutto l’entusiasmo che ha generato fin dalla prima volta. Una efficacissima àncora (Richard Bandler,PNL ).

Ringraziamo Edward de Bono per aver ribadito quanto sia importante per crescere uscire da se stessi e giocare il ruolo di un altro … con il gioco dei sei cappelli

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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