il counseling nel frastuono del mondo per ...dar voce al silenzio


 

Leonid Afremov, By the lake

 

il counseling nel  frastuono del mondo per ...dar voce al silenzio

           

            Viviamo  l'inquinamento acustico e con maggiore fastidio se il nostro canale preferenziale è l'uditivo; abbiamo netta percezione che, scomparsi i suoni, tutt'intorno non esistano che rumori: brusii di fondo, continui appena percettibili, di strumentazioni e apparecchi che qualificano la nostra attività quotidiana, toni alti di voci, spesso irritanti al di sopra della soglia dell'accettabilità, forse a coprire l'assenza di campo di senso (Wilhelm Schmid, L'amicizia con se stessi, 2012, pag.388). Non ci sono eccezioni neppure per le musiche, ascoltate indifferentemente da anziani e giovani, ad un volume tale che deforma anche le più suadenti e discrete melodie facendole riecheggiare e rimbalzare da un cortile all'altro. Potremmo seguire la trasmissione TV preferita del nostro vicino di casa senza accendere il nostro televisore e, se non abbiamo il privilegio di abitare lontano dal centro della città, abbiamo dovuto imparare, per legittima difesa, ad escludere il rumore del traffico veicolare che si diffonde tutt'intorno, anche nelle ore notturne, con livelli di rumore compresi tra 60 e 75 dB. Escludiamo tutti questi rumori, o piuttosto ci illudiamo di farlo, perché in realtà ci riconosciamo irritabiliquasi sempre, insofferenti e per nulla accomodanti,  anche senza plausibile motivo.

 

            È questo il nostro mondo, declinante verso direzioni lontane dalla naturalezza per inseguire traguardi di cui conosciamo solo pochi aspetti seducenti e di cui pretendiamo di ignorare i tanti aspetti disumanizzanti, un mondo inclinato-inquinato:  all'inquinamento acustico fa da specchio l'inquinamento luminoso di cui ci ricordiamo puntualmente ogni anno, in un giorno preciso, il 10 agosto, quando, tra sogno infantile e rigurgito di ottimismo per il futuro, vorremmo contemplando il cielo contare le stelle cadenti, ma, offuscate dalle mille luci delle nostre metropoli, quasi neppure in aperta campagna più si distinguono l'Orsa maggiore e minore.

            Per restare al tema, il silenzio, vinto dal rumore, si è fatto da parte o forse noi l'abbiamo ricacciato indietro, abbiamo voluto negarlo, rifiutandone il valore. Al silenzio preferiamo la parola, la nostra o l'altrui e fuggiamo il silenzio che quando ci è insopportabile definiamo...assordante. Persino soli con noi stessi preferiamo parlarci per raccontarci che abbiamo noi ragione su questo e su quello, piuttosto che sospendere ogni discorso e lasciare che tra noi e noi si accenda il dia-logo, che il nostro io profondo affiori con le nostre emozioni, sensazioni, nutrito dai nostri desideri, dai nostri bisogni per ascoltarci  veramente.

Già, ascoltar-ci è l'esercizio che volutamente ignoriamo, o che non ci riesce quasi mai del tutto, per paura o per pigrizia o per entrambe, mentre siamo abilissimi a trovare giustificazioni, a crearci solidi alibi che magicamente risolvono questo rifiuto di dare spazio al silenzio in abilità di saper correre al passo con i tempi, come i più apprezzati modelli di questa società ci insegnano.

            In questa strettoia, si colloca la centralità dell'ascolto, l'obiettivo primario del counseling in qualunque approccio e l'impegno più arduo per il counselor chiamato all'ascolto in tutte le sue forme, perché sia possibile alla persona in aiuto ascoltar-si o ri-ascoltar-si. Frequentemente persino di fronte al counselor, la persona in aiuto preferisce parlare piuttosto che sopportare pochi istanti di silenzio e se non interviene il counselor ad interromperla, continua ad arricchire di particolari ogni suo racconto con arditi passaggi logico/emotivi pur di parlare e raccontare, sempre più insistendo sul proprio punto di vista, mentre con tutto il non verbale cerca affannosamente l'approvazione del counselor. È un tentativo piuttosto maldestro della persona in aiuto per placare l'ansia e il sottile disagio che prova nella situazione ben rara di essere ascoltata e comunque accolta dall'altro. Al counselor il compito di far decantare ansia e disagio, rallentare il ritmo e, se necessario, distrarre la persona dalla situazione concitata in cui si trova perché il vero colloquio possa iniziare.

            Ma,  se è il counselor a provare disagio, a sentirsi in difficoltà di fronte al silenzio?

Non dovrebbe poter accadere, proprio in ragione del percorso di studio ed attività/competenze esperienziali che ogni counselor ha vissuto per poter accedere alla professione, ma, capacità, abilità, competenze, strategie e tecniche, che tutte insieme costituiscono il supporto necessario e imprescindibile per un professionista, non potranno mai essere disgiunte dalle sue personali e squisitamente individuali caratteristiche, doti e limiti e al counselor, infatti, è chiesto di acquisire consapevolezza dei propri limiti per poterli rendere meno invadenti, per vincerli, è chiesto cioè di fare esperienza di ciò che costituirà il nucleo peculiare della sua attività verso la persona in aiuto: l'aiutare ad aiutar-si. 

Dunque, impossibile negare che se la persona in aiuto tace, il counselor possa trovarsi in ansia e senta l'impulso a coprire quello spazio di silenzio, prendendo subito lui/lei la parola, magari ponendo nuove domande. Tuttavia, al counselor compete di rispettare quel silenzio per poterlo gestire; si concentrerà sul non verbale, proprio e della persona in aiuto, per ascoltare le voci, i tanti significati che da quel silenzio, collegato alle parole e alle emozioni che lo hanno preceduto, emergono. Su queste avvisaglie potrà indirizzare il colloquio.

Prossimamente, rileggeremo un frammento sull'elogio del silenzio.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

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