IL PRIMO MANUALE DI COUNSELING: IL Vangelo

Inviato da Nuccio Salis

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In una società secolarizzata e materialista, addestrata a rifuggire dalla spiritualità, è sempre più facile rendersi impopolari ed esporsi all’equivoco o al fraintendimento, evocando temi a carattere religioso o contenenti comunque discorsi di natura trascendentale. La tendenza generale sembra proprio consistere nel battere in ritirata, evitando sempre il confronto e l’approfondimento. Irridere lo spessore e l’importanza di tali questioni è generalmente la prima mossa della maggior parte dei soggetti comuni, refrattari a un tipo di dialettica che si tende ad affrontare con eccessiva superficialità, pregiudizio e pressapochismo.

 

La reazione più comune riguarda la sensazione di sentirsi aggrediti sotto il profilo ideologico. Come se sviluppare la propria parte animica attentasse a quel senso di sicurezza personale che ripiega in uno sterile e infecondo scetticismo preconcetto. Parlare di spiritualità disturba, fa apparire “strani”, sconvenienti, complessi; il più delle volte si viene immancabilmente catalogati dentro un’etichetta precotta che prevede l’appartenenza a una qualche corrente dottrinale. E da questo punto in poi, naturalmente, ecco che a cascata, sotto lo tsunami dell’effetto alone, l’identikit  è bello che descritto e profilato, in funzione dei canoni di lettura più diffusi ed accettati. Si va dal mito del solitario che non deve avere una vita, e che preferisce stare magari dentro una grotta, astratto dal mondo contemporaneo, per passare poi al visionario che sogna e che si dedica a cose intangibili ed irrealizzabili.

D’altra parte, la millantata razionalità umana non prevede mediazioni di sorta, ed irrazionalmente tradisce se stessa blindandosi dentro un’ideologia che impedisce lo spirito di ricerca e dunque il progresso personale.

Sono certo che già il titolo di questo articolo ha provocato fastidio, e che gli illuministi non lo leggeranno, perché la loro maturità interiore non si presta a contemplare certe superstizioni. Eppure non c’è niente di più irrazionale che decidere di vivere menomati nella coscienza spirituale, l’unica in grado di smascherare la realtà illusoria con cui viene ingannata proprio la mente pensante.

Eppure, leggendo e rileggendo gli insegnamenti di Gesù Cristo, non può che apparire così straordinariamente chiaro che ci è stato già detto e insegnato tutto. Il rigurgito anti-religioso dei più, magari impedisce di fare una valutazione serena e non ideologica di tale affermazione, ma è ciò che si può constatare nel visionare le meravigliose parabole di Nostro Signore.

 

Le scienze sociali e del comportamento umano, così prodighe di spiegazioni articolate, così ricche di ricette e formule per un benessere personale, ricalcano esattamente il senso ed il nucleo fondante degli insegnamenti che abbiamo ereditato soprattutto dal Maestro di Galilea.

Non c’è operatore dell’aiuto che non ravvisi nel disagio altrui il pilastro portante di tutto il malessere: l’incapacità di far co-abitare la dimensione dell’amore di sé con l’amore per gli altri. Questo squilibrio produce soggetti egodistonici, sofferenti per la mancanza di un bilanciamento energetico. Ovvero, da una parte l’eccessivo amore di sé che sottrae attenzioni e premure per gli altri, e d’altra parte uno smodato annullamento di sé che preclude il dedicarsi ai propri bisogni. Ecco dunque entrare nel palcoscenico della vita il carrozzone dei soliti noti personaggi: i persecutori, le vittime e i salvatori; tutti costruiti rigorosamente ad incastro, pronti a dimenticare le loro rispettive essenze originarie, protetti come sono da un personaggio-maschera che li farà sperimentare ogni indicibile malessere, per giunta con estremo  imbarazzo e stupore.

La semplificazione in pillole di psicologismo, che spesso si propina, è però tanto banale quanto seria: “forse tu non ti ami abbastanza!”, ci si può sentir dire, dando seguito ad una pletora di consigli che in genere servono a vendere più rotocalchi destinati a un target femminile, oppure a riempire palestre e piscine di chi cerca di dimagrire bonificando certi sensi di colpa.

Ma al di là delle scappatoie che riconducono poi alla stessa gabbia dorata, se la promozione del benessere esistenziale dipende dalla formula transazionale ‘Io sono Ok, Tu sei Ok’, non equivale, forse, questo motto, al più antico ‘Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mc, 12, 18.34)?

Questo insegnamento è l’apoteosi della forma d’amore più matura, quanto meno fra soggetti umani. Non si possono davvero apprezzare gli altri, se svalutarsi diventa la pratica quotidiana nel rapporto con se stessi.

Inoltre, le innovazioni copernicane in campo della pratica dell’aiuto alla persona, sono state considerate tali quando è stata ritenuta di vitale importanza la parola, e l’attività libera della stessa, ed è quindi stato introdotto un metodo che lo stesso Freud chiamò la ‘cura parlante’. 

“Con le parole –diceva lo stesso fondatore della psicanalisi -un uomo può renderne felice un altro, oppure spingerlo alla disperazione”-

E quanto è contemplato il valore della parola, nella testimonianza della vita di Cristo? Il Verbo stesso viene presentato come la manifestazione diretta dell’essenza divina macrocosmica. L’importanza del parlare, del raccontarsi, di produrre una propria biografia, di esprimersi come soggetti narranti e fondati sul proprio divenire storico, quanta parte ricopre nell’efficacia di una buona relazione di aiuto? A supporto ulteriore di tale risposta, sappiamo infatti che “ne uccide più la lingua che la spada”, e che “dovremo rendere conto di ogni parola che esce dalla nostra bocca”. Dunque si evince l’importanza dello scegliere le parole con cura, poiché  esse non sono soltanto suoni, ma vibrazioni, energia, manifestazioni dirette di pensieri, intenti, stati d’animo ed emozioni.

 

Non si può negare, per giunta, che la relazione d’aiuto sia finalizzata alla crescita dell’autonomia e della responsabilità. Direi proprio che ogni sforzo, all’interno della stessa, è orientato proprio alla realizzazione di questa meta. Comprendere le conseguenze delle proprie azioni è molto importante per poter assumere decisioni responsabili e costruttive. È utile per avere un ‘locus of control’ secondo cui si distribuisce un giusto peso di influenze fattoriali, in egual misura sia a noi stessi che alle variabili di rischio e di opportunità che ci circondano. Si tratta, nella fattispecie, di recuperare la capacità di connettere la dimensione dell’agire a ciò che scaturisce a seguito delle proprie azioni.

Fare counseling significa anche guidare l’altro nel rendere conto a se stesso delle proprie azioni, aiutarlo a contemplare l’esistenza della Legge di Causa/Effetto che ci governa, inappuntabile. Sono numerosi i riferimenti del Cristo al funzionamento di tale Legge Universale. Forse il più edificante rimane il passo in cui Gesù ammonisce il discepolo Pietro che taglia un lembo d’orecchio a un soldato, giunto col resto della truppa accompagnata da Giuda, per catturare il Maestro Gesù, il quale infatti rimprovera subito: “Pietro, riponi la spada nel fodero, perché chi ha ferito di spada, morirà di spada” (Gv, 18, 1-11). Quindi le nostre azioni ci ritornano indietro come un boomerang, perfino con maggiore forza anche rispetto a quando il boomerang lo abbiamo lanciato, visto che se “feriamo”, l’effetto è quello di “morire”. È un monito più che chiaro.

E ciò si rivela come insegnamento prezioso affinché ciascuno maturi una pienezza responsabile circa il dono del proprio libero arbitrio.

Senza lo sviluppo di un’etica adeguata a sostenere la grandezza di tale dono, infatti, tale condizione potrebbe farci precipitare nella più bieca dannazione.

 

In continuità a tali riflessioni, si può sottolineare come il counseling proietti sempre all’azione, promuovendo in ciascuno la capacità di saper pensare e progettare una nuova esistenza, rimarcando a se stesso il diritto di goderne, di essere appagato e soddisfatto in linea con la propria natura ed i propri bisogni più autentici. Tale risultato deriva da un atteggiamento costruttivo e volitivo, il quale implica soprattutto un lavoro di attesa e di pazienza, da cui si ha la consapevolezza di cogliere un domani succulenti e prelibati frutti. Saper aspettare, coltivare con abnegazione su un terreno fecondo, richiama la parabola del seminatore che svolge la sua antica e sapiente mansione, rimettendosi ai ritmi ed ai principi della natura e delle sue stagioni. Non è un caso che nel linguaggio quotidiano ci capita di utilizzare l’espressione “coltivare le relazioni”, attribuendo alle stesse un evidente valore legato all’impegno nel realizzarle e consolidarle nel tempo. Le relazioni dunque si ‘coltivano’, dedicando alle stesse cura e manutenzione, se si vuole osservarne una crescita sana, appropriata e regolare. Ed i frutti non possono essere raccolti se si è coltivato su un terreno brullo o comunque inadatto alla semina. I rapporti umani possono rivelarsi fecondi dal momento che l’humus spirituale su cui si innestano, rappresenta la terra buona. Diversamente, si avrà attenzione nel non entrare in relazione con soggetti interessati soltanto a risucchiare le nostre energie con lagne, atteggiamenti chiusi, dogmatici, ipercritici giudicanti o anche acritici, intorpiditi e passivi. Il passo evangelico sul seminatore ce lo insegna:

Uscì un seminatore per seminare; nel gettare il seme, parte di esso cadde lungo la via; vennero gli uccelli e se lo mangiarono. Parte cadde in un suolo roccioso, dove non c’era molta terra; e così per mancanza di terreno profondo nacque subito, ma al sorgere del sole rimase bruciato e, non avendo radici, seccò. Parte cadde fra le spine; ma queste, crescendo, lo soffocarono. Infine, una parte cadde sul terreno buono, tanto da dar frutto…” (Mt, 13, 1-23).

Le relazioni umane devono nutrire, fruttificare, altrimenti ci rendono aridi, sterili, inutili alla terra. E su questo principio, ciascuno è chiamato ad essere parte attiva.

 

Un altro punto essenziale, nella crescita della persona, consiste certamente nella conquista di un atteggiamento di fiducia verso se stesso, nella capacità di saper ri-conoscere le proprie qualità, si investire sulle stesse per sviluppare abilità di autonomia, resilienza proattiva, costruttività ed autoefficacia.

Ciascuno di noi nasce con dei talenti, ma, molto spesso, il modello di esistenza che ci viene propinato, ci rende fin troppo increduli e distratti rispetto alle nostre capacità. Sono troppi coloro che crescono con la convinzione di essere inadeguati, incapaci, inabili, e che strutturano un’immagine di sé svalutante, perdendo così potere, tensione progettuale e competenza nel realizzarsi e compiersi con successo. Ancora una volta, il counseling insegna il valore insito nella capacità di credere a ciò che già si possiede internamente, e che attende soltanto di essere manifesto. In questo, il counseling coincide pienamente con il principio fondante di ogni processo educativo, e che consiste cioè nell’ ex-ducere, cioè tirar fuori dal di dentro.

Si deve purtroppo constatare che molte delle persone incontrate non hanno realizzato una chiara visione di se stesse, e che ristagnano in una passività che mortifica ogni loro potenziale e spegne la possibilità di esplicitare un atto creativo.

Il counseling è quel processo che impiega strategie idonee a far maturare nella persona una visione di sé finalmente valorizzante, e impegnata con curiosità e con convinzione ad esperire le parti di sé più costruttive. E nel fare questo, la persona stessa dovrà prestare maggiore attenzione a come il mondo intorno a se stessa offra risposte sulla base dei propri atteggiamenti. Quindi, in primis, se si vuol cambiare la realtà attorno a sé, è proprio da sé che bisogna partire, dal momento che la realtà è un costrutto, quindi un correlato che partecipa della nostra personale attribuzione di significato a ciò che ci circonda. Non c’è distinzione fra il di dentro e il di fuori, prendendo in analisi tale dinamica.

 

Il counseling non offre miracoli, ma aiuta a credere negli stessi. La realtà infatti possiede in se stessa ogni possibile magia, ed a noi spetta crederci e costruire quel legame su cui desideriamo sintonizzarci, per costruire quella realtà che noi vorremmo. L’Universo ce la offre, non ci resta che accettarla, e rifletterla nel nostro microcosmo quotidiano. È necessario credere, fortemente credere ma soprattutto verificare, che l’Universo vibra con noi, in una ininterrotta relazione ed interconnessione energetica. I doni da ricevere sono tanti, e già ne abbiamo ricevuti di meravigliosi, non ci resta che aderire all’insegnamento del “chiedi e ti sarà dato, bussa e ti verrà aperto” (Mt, 7, 7-11), perché mentre aspettiamo una chiamata dal Cielo, è proprio il Cielo che aspetta una chiamata da noi.  Vivificante, su questo appunto, l’episodio della giovane donna emorroissa, che confidando nel guarire soltanto nel toccare un lembo della tunica di Gesù, così riuscì a fare mentre Egli procedeva in mezzo alla folla, e voltatosi le confermò: “La tua fede ti ha salvata!” (Lc, 17, 11-19). Quindi, nessuno può salvarci se questo va contro la nostra volontà e il nostro impegno.

Per guarire dobbiamo sentirci pronti a gestire le conseguenze dell’essere risanati, poiché ciò implica comunque delle responsabilità.

Ecco un argomento piuttosto delicato, quando si parla della capacità di fronteggiare e superare i propri nodi problematici. Il cambiamento conseguente, infatti, riproduce nuove problematiche da affrontare ed un nuovo equilibrio da riassestare. Non c’è solo un ‘prima’ del counseling e un ‘durante’ il counseling, ma esiste anche un ‘dopo’ il counseling. Il tema del follow-up è assai rilevante e significativo, perché da una continua premura su ciò che accade dopo il trattamento, dipende anche la qualità del sostegno alla persona, la cui vita non è fondamentalmente fatta di blocchi così rigidi e così soggetti ad una sequenzialità sistematica tale da non consentire eventuali irregolari fluttuazioni. La vita è più complessa degli schemini studiati sui manuali, quindi è naturale che possano ripresentarsi paure, angosce e turbamenti nel ri-organizzare la propria nuova forma dell’essere e dell’agire. Forse, per rimanere in tema, qualcuno ci urlerà perché lo abbiamo abbandonato, salvo poi capire da solo di possedere straordinarie possibilità e capacità di risorgere. La sfida, per quanto difficile, consiste nel riuscire ad avere uno sguardo che oltrepassi le preoccupazioni mondane, mettendo la materia al servizio dello spirito, cioè al contrario di come propone la società massificata dei consumi.

Nel qual caso, difatti, troviamo nel Vangelo questo interessante passo, in cui Gesù si rivolge ai discepoli:

Non vi angustiate, dunque, chiedendovi ‘Che mangeremo?’ ‘Che berremo?’ Oppure ‘Di che vestiremo?’ Tutte queste cose le ricercano i gentili. Ora, il Padre vostro Celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il Regno di Dio e la sua Giustizia, e tutte queste altre cose vi saranno date in sovrappiù”. (Mt, 6. 24-34).

 

E inoltre, pur facendo riferimento a gran parte della letteratura sulle modalità tecniche e strategie con cui condurre un colloquio di ascolto, evitando di invischiarsi nei vissuti problemici altrui, garantendo al tempo stesso un’attenzione focalizzata e un’accoglienza genuina, rimane pur vero che l’esperienza dell’ascolto empatico ed attivo, per chi si appella alla relazione di aiuto, viene registrata come significativa, talvolta perfino intensamente catartica e terapeutica. In questa occasione, almeno nella sua accezione primigenia, il consulente che offre la prestazione dell’aiuto alla persona, recupera il significato originario del counseling come consolare, stare (insieme CON) vicino a colui che è SOLO. Ciò rievoca un importante richiamo alla funzione di condividere col prossimo i gioghi delle proprie fatiche, racchiuso nella frase: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt, 11, 25-30).

Nulla di più chiaro. Gesù Cristo è dunque il primo divulgatore della relazione umana che nutre, che dissipa le tormente interiori e riargina i motti tumultuosi di un mondo intrapsichico a volte rifuggito perché troppo arcano, altre volte ricercato ma non decriptato come dovrebbe.

E allora, specie per questo ultimo punto, un insegnamento edificante che si può ricavare, riguarda la capacità di sostare con il mistero profondo di se stessi, per trasformare questa paura in curiosità, per compiere un cammino che altrimenti ci sarebbe precluso, se utilizzassimo soltanto la limitata mente razionale. Non a caso è risaputo, infatti, che il Signore ha nascosto ai sapienti e agli intellettuali e ha rivelato agli umili (Mt, 11, 25).

La gnósis(γνῶσις), dunque, implica un percorso da compiersi soprattutto mediante l’esperienza del sentire, perché ciò risulta uno stratagemma importante per ritrovare se stesso, dal momento che “dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore” (Mt, 6, 21).

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