Ogni essere umano, fin dalla nascita, possiede un sistema neurofisiologico preposto al controllo e alla gestione delle emozioni (detto sistema limbico ed ha sede nel cervello). Tuttavia, per essere attivato con efficacia, va educato nel tempo attraverso continui scambi interattivi. Se tale processo educativo non avviene o avviene parzialmente ed in modo distorto, le emozioni, invece di assistere l’evoluzione della personalità in senso adattivo, rimarranno scariche pulsionali immediate, costringendo l’individuo a trovare adattamenti relazionali ed affettivi gradualmente sempre più disadattati, fallimentari e devianti. Insegnando le emozioni dobbiamo anche ricordarci di insegnare ed evidenziare che non esistono emozioni negative ed emozioni positive.
Non vanno negate o inibite le une e favorite le altre. Le emozioni vanno tutte sostenute, comprese e modulate, affinché si apprenda autonomamente a identificarle, utilizzarle e gestirle. Il discorso ovviamente sarebbe affrontabile e da affrontare fin in tenera età e l’evidenza di ciò deriva anche dall’osservazione dei bambini caratteriali; lasciare un bambino da solo alle prese con le proprie emozioni, senza intervenire a livello educativo, rischia di spingerlo a ricercare le migliori soluzioni possibili ai suoi pressanti stati d’animo interni e tale affannosa ricerca può condurre, nel tempo, ad essere fortemente dipendente dal mondo esterno. Alcuni studi tendono ad attribuire la responsabilità delle dipendenze proprio a siffatto comportamento, infatti sostengono che, non riuscendo a gestire adeguatamente le proprie emozioni, tenterà fin dalla preadolescenza di delegare questa funzione a persone, situazioni e sostanze esterne (come la droga, l’alcol, il cibo).
Le basi di un’educazione emotiva si fondano già in tenera età ma non per questo l’alfabetizzazione emotiva diviene impossibile nell’arco dell’adolescenza e nell’età adulta. In base alla mia esperienza di genitore e dalla conta degli errori relazionali nei quali spesso sono inciampata vorrei affermare che chiedere semplicemente com’è andata la giornata o di cosa necessitano i nostri figli, come fossero comunicazioni di servizio, non è costruttivo: meglio interessarsi a cosa hanno “sentito” in una determinata situazione. “Cos’hai provato quando il professore ti ha detto...?”, oppure “Perché hai quell’espressione? Che cosa ti sta succedendo?”, “Che cosa ti entusiasma?”. A quest’ultima domanda, purtroppo, così come Galimberti (2007) ci mostra molti giovani non sanno rispondere.
Per aiutare i nostri ragazzi a scoprire cosa potrebbe dar loro gioia o a definire il tipo di disagio provato potrebbe certamente essere utile una conversazione attiva e costruttiva che verta non più sull’esigenza materiale, ma sulla comprensione delle emozioni dell’adolescente. Se una o due generazioni fa gli adolescenti, pur soffrendo e vivendo intensamente i propri conflitti, pensavano che un giorno o l’altro si sarebbero realizzati e avrebbero concretizzato i propri sogni, oggi il futuro non riescono neppure a immaginarlo. La disillusione deriva in parte anche dalla caduta dell’autorità genitoriale: dall’autoritarismo si è passati nel giro di qualche decennio ad un permissivismo ed ad un lassismo educativo senza precedenti: manca oggi la capacità da parte degli adulti di assumere un atteggiamento autorevole, caratterizzato da empatia, ascolto attivo e costruzione di regole e confini adeguati.
I genitori di oggi, della modernità, fagocitati dal vortice dell’efficientismo («La modernità costringe tutti a un ritmo di vita che non si confà a nessuno» - Tiziano Terzani) non hanno tempo per dare regole, non tentano di comprendere gli stati emotivi dei figli e si preoccupano di fare avere loro tutto ciò di cui hanno bisogno: soldi, oggetti di moda, abbigliamento ricercato. In questo modo come genitori non facciamo altro che trattenere i nostri figli concentrati sulle pulsioni che da bambini sono di tipo fisiologico, riguardando prevalentemente i bisogni primari ma, a mano a mano che crescono, diventano soprattutto psicologiche. Si abituano così ad esigere l’appagamento immediato di tutto quello che desiderano nel momento presente.
In questo modo non ci rendiamo conto però che i giovani, alla ricerca di una loro individualità e identità, contenti non lo sono: vogliono comunque sempre di più, senza che nulla li possa davvero appagare. Entrano così in un circolo vizioso, non riuscendo a colmare la sofferenza generata dal vuoto appena percepito, ma subito evitato, cercando di riempirlo con altre merci e arrivando perfino ad assumere sostanze per lenire l’angoscia. Dare tutto e subito ai propri figli, convinti di farli contenti e non farli soffrire, contribuisce alla costruzione di un Io molto fragile e a un falso senso di onnipotenza pronto a frantumarsi alle prime, inevitabili frustrazioni. Contrariamente a quanto si crede, accogliere con autentica empatia un figlio significa anche contenerlo, ponendogli limiti e regole. Questo lo tranquillizza sollevandolo da molti conflitti.
Non esiste alcuna buona relazione d’amore educativa che non preveda regole ed eventualmente sanzioni. Così come in famiglia ciò vale anche e soprattutto nella scuole e proprio scuola e famiglia sono per gli adolescenti i punti di riferimento centrali per il loro mondo interno e per il mondo esterno. Punti che in vista dell’autonomia emozionale, affettiva e cognitiva verranno superati per giungere alla conclusione dell’adolescenza ed al raggiungimento della piena realizzazione personale, familiare e professionale.
Quanto io propongo in questo lavoro non è certamente una scuola per genitori o un’educazione emotiva a tutto tondo bensì una valutazione su quali siano le risorse personali, le risorse della scuola, quelle famigliari e societarie per potenziare la dimensione emozionale poiché è da intendersi quale grande risorsa comunitaria.
Mycounselor Manuela Fogagnolo
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