PREVEDERE L’IMPREVEDIBILE: La prospettiva ecologica nel “decision making”

Inviato da Nuccio Salis

prendere decisioni

Prendere decisioni è un processo che consta di una implicita complessità, molto spesso a carico dello stesso attore che ne assume l’iniziativa e la guida. L’assunzione di una decisione presuppone un senso ed una direzione, quindi un percorso orientato ad uno scopo. Analizzato dal punto di vista algoritmico, tale procedimento darebbe luogo a schemi e descrizioni processuali a carattere opzionale, che in virtù della loro disposizione figurale sembrerebbero illustrare un modello semplificato sul percorso delle scelte da intraprendere. La percezione della riduzione della complessità è un primario elemento legato alla prospettiva di un possibile controllo delle variabili presenti nelle procedure decisionali; il tentativo che ci si propone consiste infatti nel cercare di arginare e riconoscere determinati fattori considerati potenzialmente ostacolanti o disturbanti durante l’assunzione di decisioni.


Il vizio della cultura occidentale, insito in un retaggio materialista, tende a dirigere verso una gestione certificata del processo decisionale, caratterizzata in modo prevalente dalla dimensione del controllo. Gli scopi delle scelte intraprese, difatti, sono molto spesso legati ad aspetti utilitari, che richiamano elementi quali il ricavo, il beneficio, il rendimento in positivo.
In base a questa diffusa finalità, l’esigenza più emergente che ne scaturisce riguarda la possibilità di poter contare su un modello sicuro, cioè su un percorso decisionale programmato. A tale modello è affidata la garanzia dell’efficienza in merito alla bontà dei risultati previsti. Questo proposito, come si può intuire, risulta influenzato da un atteggiamento di “positivismo matematico”, che delega a procedimenti logici e razionali il controllo e l’ottimizzazione dei risultati e dei processi. Il fine perseguito che ci si riserva di soddisfare, riguarda il bisogno di arginare l’ansia dell’ignoto e quindi di deviare ogni incertezza, rendendo prevedibile l’imponderabile.
In pratica, si producono aspettative, obiettivi e itinerari i quali vengono considerati affrontabili in forza di una mera intellettualizzazione del problem-solving. È questa posizione per “partito preso” a generare facilmente l’illusione di procedere secondo rigore delle proprie attese e dei propri calcoli, con il rischio di non saper o poter affrontare eventuali discrepanze fra ciò che “è” e ciò che “dovrebbe essere”. Questa forbice mette in crisi la propensione fideistica verso il modello oculato e calcolatore, rendendo conto dell’interferenza di variabili slegate dalle regole proposizionali, e che emergono con tutta la forza dell’imprevedibile e del mistero.
Specie su decisioni particolarmente contraddistinte dalla complessità, il modello logico-razionale presenta tutte le sue imperfezioni, facendo rischiare molto spesso lo scivolone nel riduzionismo e nella conseguente inefficacia solutoria. Secondo questa impostazione, infatti, tutto fluisce senza intoppi a patto che ogni cosa vada secondo i piani prestabiliti. Tale paradigma è più che altro il risultato di un’inclinazione culturale e politica nella gestione dei problemi, maggiormente concentrata sul soddisfacimento dei bisogni dell’Io, e di contro più decentrata ad un’attenzione verso la dinamicità del rapporto dell’Io con il suo ambiente. Una pecca certamente di non poco conto.
Si tratta cioè di una ragion pura che non pone a disamina la complessità e l’eterno mutare. La conseguenza di questo atteggiamento rischia di essere controproducente proprio in merito alla costruzione di processi per problemi da risolvere, nel senso che, invece di giungere a soluzioni accettabili, vengono aggiunte ulteriori difficoltà. Tutto questo per l’incapacità, e soprattutto per la paura, di cogliere proprio nei movimenti estemporanei della vita stessa, le opportunità per creare nuove risorse ed opzioni.
Questi due elementi fondanti del modello calcolatore, sono l’intelletto e la volontà. La loro sommatoria da come risultante la decisione. All’intelletto è ascritta la funzione di pianificare, alla volontà è invece attribuito il compito di agire. Il primo programma l’azione, la seconda la intraprende e la realizza. Esplorandone la matrice da cui scaturisce tutto ciò, si perviene fino alle piattaforme teoriche di Platone e di Schopenhauer, i quali, rispettivamente, esaltavano il ruolo del Lògos e dell’atto di volontà.
Questo cascame filosofico, forse poco correttamente approfondito o interpretato, ha influenzato le modalità nel rapporto fra l’uomo occidentale e i suoi problemi. La successiva radicalizzazione dualistica fra materia e spirito, ha spinto verso la chimera del possedere risposte incontrovertibili e risolutive verso tutti gli aspetti problematici dell’esistenza, affrancando l’individuo umano da uno sguardo interiore, e concentrandolo esclusivamente sugli artefatti della technè, i quali, invece di essere utilizzati esclusivamente per la loro funzione, sono divenuti simboli identitari da idolatrare come i nuovi vitelli d’oro.
In merito all’assunzione di processi decisionali, questa forma mentis ha condotto ad un approccio meramente quantitativo sul ragionamento del dato, legato agli aspetti problemici. Di fatto, il primo passo che si pianifica all’interno di un progetto matematico della scelta, riguarda l’impegno nel reperire un maggior numero di informazioni sul fenomeno implicato nella procedura decisionale. Si pensa cioè, che la semplice conoscenza del dato ricercato (quantificato eventualmente per statistiche o percentuali), sia un sufficiente elemento protettivo per subissare le ipotesi di rischio o di insuccesso. Ciò di cui non si tiene conto in questo processo, è l’aspetto qualitativo dell’informazione, in quanto non è soltanto l’analisi e l’acquisizione del dato oggettivo in sé ad assicurarci la conoscenza del fenomeno, quanto anche la gestione qualitativa del sapere, che permette cioè di far ricadere i dati sotto precise chiavi di lettura e di interpretazione, evitando che l’abbondanza informativa degeneri nella dispersione e nella frammentazione.
Purtroppo, col ricorso frequente all’universalità del dato, ci si impedisce di contemplarne l’eccezione, e anche di eleggere l’individualità dell’agente coinvolto nel processo, rendendo la vita umana qualcosa di scontato, anonimo, aspecifico e rispondente solo a formule prescritte. La sicurezza offerta dal noto e dal ripetuto, che tanto aggrada chi non desidera affrontare cambiamenti migliorativi, impoverisce e mortifica l’atto creativo, e chiude dentro automatismi segnati dall’obsolescenza della ripetizione, che non ha così partecipato attivamente alla trasformazione contestuale, svilendo il rapporto Io/Ambiente. Questa è la condizione che conduce al depauperamento dell’interiorità umana e delle sue straordinarie risorse e potenzialità.
La circostanza salvifica rimane quella relativa alla possibilità di concepire il cambiamento e la trasformazione. Allora, a fianco alla filosofia platonica e di Schopenhauer, vi aggiungeremo quella di Eraclito, che pur ci ha insegnato che tutto scorre, ancor prima che fossero postulati gli assiomi della scienza pura. Considerare il divenire, sembra essere proprio questo il modo migliore per prepararsi a reagire con una rinnovata volontà, per ri-organizzare le proprie risposte, coniugando la logica con l’intuito, imparando a pensare, senza rinunciare ad accogliere il mistero.
 

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