Il Counseling Interculturale: l’adattamento nel nuovo paese


counseling interculturaleCi si sente spaesati in casa, nella scuola, nella città in cui ci si stabilisce.
Ci si trova di fronte a una “babele di linguaggi”.

Il counselor li affianca e li segue per traghettarli verso situazioni più soddisfacenti. Il primo approccio va calibrato attentamente poiché l’altro ha paura di fidarsi nel parlare spontaneamente, mentre il professionista è consapevole che il primo ostacolo di disorientamento va superato prioritariamente con l’accoglienza e l’ascolto, col far sentire l’interlocutore di un’altra etnia, protetto e sicuro di poter esporre le sue problematiche, chiunque egli sia.

Nel contesto specifico la personalizzazione dell’incontro fa riferimento a tutta la persona con i suoi pregi e i suoi difetti, la sua storia, il suo bagaglio culturale, il suo lungo viaggio con i relativi preparativi, che a volte durano parecchi mesi.
In questa sua “attesa” di partire si impone la speranza di trovare serenità e benessere fatto di sogni, di aspettative, di entusiasmi e di euforia, o di illusioni, la paura di non farcela, di sentirsi un “fallito” per aver sognato inutilmente.
Ognuno di loro attribuisce un significato alle sue esperienze passate intrise di affetti positivi, negativi, ostacoli, è un modo che raccontandolo a chi ascolta con attenzione, fa da cassa di risonanza liberatoria e contestualmente il soggetto rivive il suo passato con le sue sfaccettature.

E’ il caso di Cecilia (Il nome è fittizio, in conformità alla privacy), peruviana, una ragazza di 25 anni che conosco da anni poiché faceva da badante ad una signora molto anziana che io conoscevo.
Ci vedevamo sovente con Cecilia, poiché io andavo a salutare la vecchietta, quindi approfittavo per instaurare una relazione interpersonale con la giovane ragazza per conoscere meglio il suo mondo, a volte capitava che prendessimo anche un caffè insieme. Cecilia è un tipo molto riservato, gentile, calibrata nei suoi atteggiamenti e relativi comportamenti, ha dei bei modi di presentarsi e di stare insieme agli altri.

Dopo il decesso della signora, con la “badante” non ci siamo viste per parecchio tempo.
Quando la rivedo, per caso, noto nei suoi occhi che c’è qualcosa che la rende triste, le chiedo se sta bene e se posso esserle di aiuto in qualità di counselor.
Fa fatica a parlare, non per difficoltà di esprimersi in italiano, perché ha appreso molto bene la nuova lingua, poiché vive in Italia da parecchi anni,ma perché sente un groppo in gola che le dà la sensazione di soffocare.

Conoscendo, un po’, il suo carattere, la tranquillizzo e la invito a vederci in un centro di ascolto per fare una “chiacchierata”; infatti nei giorni successivi arriva puntualmente nel luogo indicatole.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso: dal suo racconto emerge un mondo affettivo fatto di momenti belli della sua adolescenza vissuta nel suo paese di origine, laddove vengono, invece, fuori disagi per un matrimonio poco fortunato, dal quale è riuscita a liberarsene, dopo tante difficoltà.

Naturalmente nel primo incontro lascio che il fiume in piena scorra per far sì che trovi uno sbocco. La metafora è appropriata perché vedo la mia interlocutrice alleggerirsi di un fardello non indifferente che si portava dietro da tempo.
Fissando gli altri incontri, in tutto cinque, Cecilia mi dice che ha tanta fiducia in me e ringrazia non solo verbalmente ma anche analogicamente attraverso i suoi occhi, che ora brillano. Successivamente abbiamo modi conoscerci e di arricchirci vicendevolmente.

Il raccontare la sua autobiografia, il suo mondo vissuto in Perù, con la sua famiglia, i suoi fratelli, le sue esperienze scolastiche, il suo periodo adolescenziale, la sua relazione coniugale vissuta in costrizione, la sofferenza metabolizzata da lunghe pause di lacrime e silenzi, ha restituito a Cecilia la forza di ri-cominciare, ri-trovando se stessa; ha seguito alcuni corsi che a le stavano a cuore.

Il sentirsi più sicura le fa dire che qui lei vive con altre due sorelle venute in Italia da alcuni anni: questo particolare mi lascia inizialmente perplessa e le chiedo come mai non me ne aveva mai parlato. Si scusa, ma le faccio notare che lei non era obbligata a dirmi tutto. Lei ribadisce che nel contesto in cui si trova con me, si sente sicura, protetta, per cui non ha avuto remore nell’aprirsi spontaneamente.
Cecilia aveva “sentito” che poteva ora fidarsi di me (parole sue). La sua narrazione dettagliata, mi ha dato modo sovente di riformulare ed evidenziare i collegamenti a nuove prospettive, a nuovi orizzonti.
E’ bene integrata e ha assimilato con perspicacia la nuova realtà dalla quale periodicamente (ogni due anni) si allontana per rivedere la sua terra, la sua gente, i luoghi in cui è vissuta ed assaporare certi momenti con i suoi genitori, per poi fare ritorno in Italia, dove ormai si è ambientata bene: ha dei progetti che gradualmente realizzerà.

Il poter ri-raccontare ha colmato quel vuoto, visualizzato, elaborato e rielaborato, chissà … con cose vere o fantasiose, ma sicuramente ha rappresentato, per lei, un “valvola di scarico” che le ha dato sicurezza e quindi più energia e serenità.

E’ basilare, nel contesto specifico, che il Counselor consideri e segua la storia dell’immigrato per farsì che lo sguardo di ambedue sia momentaneamente verso il suo vissuto, per poi essere un esperto costruttivo sul futuro dell’altro pensando alla sua sistemazione, alla sua integrazione nel paese di accoglienza.
Praticamente il vissuto dell’immigrato non deve rimanere scollegato, ma deve fare da continuum alla sua storia.


Guglielmina ColonnaGuglielmina Colonna
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