Con l'opera Musilanguage: a model of music evolution (2000) Steven Brown ha esplorato per la prima volta una prospettiva radicale: la possibilità che lo sviluppo della comunicazione tra esseri umani sia derivato dall'unione inscindibile tra linguaggio e musica.
Competenze musicali “evolutive” di questo genere erano già presenti nei nostri antenati, capaci di modulare il suono in gorgheggi che venivano emessi durante il periodo dell'accoppiamento. Oggigiorno questa tecnica è utilizzata da alcuni primati, tra i quali il gibbone, che impiega un richiamo amoroso non esclusivamente gutturale ma pre-melodico.
Guardando le cose da questa prospettiva, non ci è più possibile escludere la musicalità dal concetto di comunicazione: in parole semplici, quando comunico, “suono”, produco musica. Nonostante l'apparente semplicità del concetto, la teoria è rivoluzionaria e potrebbe da sola ridefinire le basi della biomusicologia; non già per il rapporto tra musica ed evoluzione, ma perché una teoria che connettesse l'evoluzione al suono esisteva solo in campo fonologico linguistico. I “nodi concettuali” in comune tra il linguaggio e la musica sono tre: il tono lessicale, la formazione di combinazioni di piccoli patternfrasali (che Brown ipotizza originati da elementi tonali/musicali) e il fraseggio espressivo, elemento fondamentale sia della comunicazione verbale che del canto moderno.
Steven Brown ha approfondito il rapporto tra linguaggio e musica ipotizzando l'esistenza di un continuum tra i due estremi, secondo un grafico che qui riporto schematicamente:
- linguaggio
- parlato espressivo
- recitativo
- discorso poetico
- canzone
- “pittura sonora”
- leitmotiv
- narrazione musicale
- musica assoluta
Un counselor o un terapista che leggano questo elenco potrebbero domandarsi: quante volte, durante una seduta, io e il mio cliente cambiamo registro comunicativo? Oppure: che registri utilizzo di norma? Quanti ne utilizzo e con che varietà?
E' ad ogni modo interessante notare che l'elemento musicale, laddove in quantità minime, è sempre presente in ciascun gradiente di questa scala, spesso invisibile ma essenziale: infatti la scala del continuum è una sola.
Anche Charles Darwin, nel suo L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto al sesso, si mostra particolarmente incuriosito dalle valenze evolutive del quid musicale. Scrive:
Poiché né il divertimento, né la capacità di produrre note musicali sono facoltà che presentano la minima utilità diretta per l'uomo relativamente alle sue abitudini di vita quotidiane, esse devono essere classificate tra le più misteriose di cui sia dotato. Tali facoltà sono possedute, anche se in modo rozzo e a volte a un livello appena latente, dagli esseri umani di tutte le razze, anche i più selvaggi. (Darwin, 1877)
Darwin considerò la capacità musicale totalmente disgiunta dal processo conosciuto come selezione naturale, introducendo il concetto di selezione sessuale. La musicalità rafforzava la possibilità di una sopravvivenza e di una propagazione non in relazione all'adattabilità o alla competitività, ma al sex appeal, come diremmo oggi. Io, che ho alle spalle innumerevoli serate trascorse a suonare la chitarra intorno al falò e ad andare rigorosamente in bianco, avrei qualcosa da ridire.
Fu lo stesso Darwin, poi, ad individuare il silenzio come elemento di pericolo per i mammiferi sociali. Lo studioso ebbe modo di sperimentarlo sia nei cavalli selvatici che nelle mandrie di bovini. Per gli animali che vivono in colonia, infatti, il silenzio è di norma preludio all'attacco di un predatore vicino, il cui passaggio spaventa tutti piccoli animali (uccelli, piccoli mammiferi) nei dintorni.
A prescindere dal tipo di funzione che si potesse avere nell'antichità, è acclarato che la musica fa parte della storia dell'umanità da molto, molto tempo. Sino ad oggi il reperto più antico rinvenuto è un osso di orso delle caverne, cavo, forato ad intervalli regolari: una sorta di flauto antico di 44.000 anni, del Paleolitico. Quando le glaciazioni erano ancora una realtà con cui fare i conti, durante l'età della pietra, i primi musicisti umani intagliavano e realizzavano flauti nelle ossa cave degli animali, nel legno, nella canna da bambù.
Ho voluto aprire una panoramica su questi cenni storici per due motivi fondamentali: il primo, come dice il titolo del paragrafo, è che la musica è linguaggio ancora prima che arte. La musica è comunicazione. Da questo primo punto deriva la seconda lampante considerazione: la musica, da quando ha inizio la nostra avventura sul pianeta Terra, è parte integrante di noi. Se vogliamo lavorare con la musica, usarla, diventarne strumenti, non abbiamo la necessità di aggiungerla al nostro bagaglio di conoscenze: dobbiamo solo riscoprirla.
Come dice Philip Ball nel suo L'istinto musicale,
...al mondo esistono culture nelle quali affermare “non sono portato per la musica” sarebbe privo di senso quanto dire “non sono vivo”.
(Ball, 2010)
Prosodia
H. Spencer scrisse, nel 1857:
Tutta la musica è, nella sua origine, vocale. Le variazioni della voce sono il risultato fisiologico di variazioni del sentimento.
Qui ci occuperemo di prosodia concentrandoci in particolare sugli aspetti musicali di quest'ultima; è vero che, soprattutto nell'antichità, la prosodia si è occupata e ancora si occupa dello studio di sillabazione e accenti, in particolar modo nella lingua latina.
Il termine prosodia ha origini greco antiche e nasce dall'unione della particella πρός (che significa “vicino”) con la parola Ωδή (musica, canto). L'etimologia già ci suggerisce il significato del termine, che potremmo qui definire come l'intrinseca musicalità del linguaggio parlato.
Potremmo definirla anche come una sorta di elemento comune tra la parola e il suono: il parlato infatti contiene una grande percentuale di musicalità, che si manifesta nell'intonazione, nel ritmo, nell'intensità e in molti altri aspetti sonori.
Pensiamo ad esempio a quanto le pause, vero e proprio elemento “musicale” del discorso possano, da sole, variare il significato di ciò che si esprime. Pensiamo ai tempi comici di uno spettacolo di cabaret: a volte il successo e l'apprezzamento di una battuta dipendono esclusivamente dall'inserimento accorto di alcune pause. Sintonizziamo il nostro televisore su una puntata qualsiasi di Zelig, ascoltiamo qualche sketch e poi proviamo a riprodurlo spostando le pause, modificando il ritmo delle parole. Ci accorgeremo subito della differenza: la battuta appena ascoltata perde mordente, o addirittura perde del tutto il suo significato.
Ripensiamo a tanti “tormentoni” comici ascoltati sempre alla televisione: spesso si rivelano essere semplici giochi musicali, che si basano su intervalli dinamici di tonalità. Il refrain dunque è efficace non dal punto di vista del significato (il più delle volte non significa un bel niente, in effetti) ma esclusivamente in senso sonoro-musicale.
Non pensiamo però che gli intervalli tra suoni acuti e suoni gravi siano esclusiva competenza di attori comici e musicisti: moltissime nostre comunicazioni si avvalgono di suoni rafforzativi, che concorrono ad integrare il messaggio in uscita. Qui di seguito vediamo due frasi significative:
E' stato lo spettacolo più bello che abbia mai visto!
Ma che razza di sciocco che è quel tipo!
Nella prima frase vediamo un movimento ascendente: sulla parola bello il tono sale, la voce aumenta di volume. Dicendo una frase del genere vogliamo comunicare al nostro interlocutore tutto il trasporto che sentiamo per lo spettacolo appena visto, e la “musica” delle nostre parole, unita sicuramente ad una condotta non verbale analogamente entusiasta concorre alla corretta trasmissione dell'informazione.
Discorso analogo e contrario per quel che riguarda la seconda frase: su sciocco la nostra voce scende di tono (forse anche strascicando un poco le sillabe) ponendo letteralmente l'accento sul nostro disappunto.
Ogni frase ha la sua musica: la leggenda vuole che addirittura Vincenzo Bellini si ispirasse, per le sue composizioni, a caratteristiche prosodiche e ad inflessioni del testo parlato.
Essere consapevoli della propria prosodia mi sembra una risorsa inestimabile per il counselor, sia esso al lavoro su di un colloquio individuale, o sia alle prese con la conduzione di un'esperienza di gruppo.
Registrare i colloqui, quando possibile, si rivela in questo caso uno strumento interessante: anche perché spesso manuali su manuali ci suggeriscono di prestare attenzione al tono della nostra voce quando siamo con il cliente, ma non sempre sforzarsi di mantenere lo stesso tono di voce (per quanto pacato e accogliente esso sia) durante tutta la sessione di colloquio è d'aiuto!
Applicare la tecnica dell'ascolto indifferenziato ai colloqui è difficile ma interessante. Può essere di aiuto provare a fare un po' di pratica con qualche registrazione in lingua straniera (che ci concede la possibilità di non puntare tutta la nostra attenzione sul significato delle parole) per “aprirsi” ai suoni e in un secondo momento ritornare su quelli che ci hanno maggiormente stimolato.
In fin dei conti, credo che il controllo della nostra “musica” verbale durante il colloquio di aiuto non sia davvero auspicabile. Tutto preso dall'ascolto delle emissioni tonali, rischio di compromettere il contatto con il cliente alla ricerca di aiuto. E' vero però che mantenendo aperto il mio orecchio “musicale” durante il colloquio mi rendo sollecitabile a quegli intervalli acuti e gravi che spesso dicono molto di me e degli altri.
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