I percorsi didattici svolti a partire dalla scuola dell’obbligo, salvo eccellenze ed eccezioni, prevedono itinerari e curricoli di apprendimento basati su una pratica insegnativa ripiegata pressoché esclusivamente sulla tradizione. Il principio dominante resta quello “mentale”, fra l’altro impropriamente inteso come training delle sole abilità cognitive. Tale modello di insegnamento/apprendimento, prevede l’esercitazione ripetitiva e meccanica di prestazioni quali: la memoria, l’attenzione sostenuta, i tempi e la rapidità delle risposte. Ciò che si privilegia, dunque, sono il rendimento e l’efficienza, centrando le attività sul compito, e disponendole all’interno di sequenze ridondanti, favorendo l’automatismo, l’assimilazione acritica e compiacente dei contenuti trasmessi.
Nonostante la portata di poderosi e storici contributi ormai noti anche ai profani, circa i cambiamenti dei modelli teorici e pratici nell’agire pedagogico, i percorsi di scolarizzazione ufficiale mantengono ancora ben saldo, di fatto, l’orientamento mentalista, a scapito di una cura educativa e un'opera didattica globali. Nemmeno le conquiste più recenti della pedagogia clinica, validate da certezze scientifiche di elevato profilo sperimentale, sono riuscite a determinare cambiamenti significativi all’interno del panorama di ogni attività didattica. A parte le ragioni di una tale resistenza, che affondano in motivi di ordine ideologico-culturale e socio-politico, soprattutto in un Paese come l’Italia, il quadro che si viene a delineare, nel suo complesso, descrive una deleteria discrepanza fra i bisogni autentici e profondi di un bambino, e le obsolete procedure e ipotesi di intervento mediante cui si struttura e si organizza il cammino formativo. Non è certo una questione di irrilevante interesse.
Esiste ormai da irragionevole e immemorabile tempo, un eccessivo scollamento fra capacità di comprensione e contenimento dei bisogni dell’età evolutiva e pressanti richieste implicite ed esplicite di soddisfazione degli stessi, in ordine al rapporto fra istituzione Scuola e mondo espressivo dei giovani e giovanissimi. Questa frattura, che pare ormai a molti osservatori cronicizzata e piuttosto insanabile, è certamente la risultanza di un complesso di fattori sociali, intra ed extrascolastici, dentro la cui composta interazione, anche la scuola ha fatto la sua parte, in termini di agenzia deputata alla presa in carico dei bisogni educativi.
Evitando di impegolarsi in contorte disamine storiche, fra l’altro largamente note, ed affrontando la questione da un punto strettamente metodologico, occorre mettere in evidenza come la lacuna maggiormente significativa sia proprio da ricercare nelle tipologie e negli obiettivi in seno alla progettazione dei percorsi dell’apprendimento.
Un bambino che arriva alla classe prima elementare, ha già solitamente frequentato la scuola dell’infanzia, che prevede per statuto una presa in carico globale nella cura delle dimensioni dello sviluppo, e le considera interdipendenti e ciascuna meritevole della medesima degna attenzione. Il bambino “prescolare” ha imparato che l’esperienza dell’apprendimento avviene soprattutto mediante il gioco, il movimento, l’esplorazione senso-manipolatoria della realtà, l’attenzione alle regole ed all’impegno in un contesto di scambio interpersonale. L’apprendimento, in un contesto così illustrato, è finalizzato alla crescita, alla consapevolezza di se come essere senziente, sociale e individuato. Si punta all’armonia olistica di ciascuna delle parti coinvolte nel processo evolutivo.
Non vi sono né l’attesa né la richiesta pressanti dell’istituzione sull’efficacia delle prestazioni, verso cui, all’improvviso, ecco stagliarsi gli sguardi valutanti degli insegnanti, quelli ansiosi o preoccupati dei genitori, e in certi casi quelli etichettanti di chi ha la responsabilità di fornire referti diagnostici. Il passaggio improvviso verso il contesto scolastico basato sul compito e sul rendimento, risulta un potenziale produttore di una situazione disorientante e traumatica. Lo scollamento da un approccio olistico e ludiforme, ad una modalità che prevede il raggiungimento di un risultato da livellare nella media prevista, risulta non meno che lacerante, brusco e incompatibile con le necessità a carattere complessivo di un bambino.
Inoltre, dentro tale transizione, percezione e padronanza del Sé, da parte del bambino, sembrano essere frantumate da una sopraggiunta esperienza che determina, tutto ad un tratto, la scomparsa del corpo. La dimensione corporea, che infatti risultava precedentemente coinvolta, in modo diretto, con le accattivanti attività di sollecitazione delle competenze totali dello sviluppo, ora passa in secondo piano, e soprattutto viene distinta e isolata dal resto delle capacità globali, riservata a momenti di attività ginnica e non sfruttata in virtù delle sue potenzialità di rafforzamento di abilità cognitive, comunicative-relazionali e socio-emozionali.
Recidere le dinamiche corporee dall’esperienza dell’apprendimento, provoca una riduzione drastica anche delle restanti capacità dello sviluppo, esattamente come accade per la componente creativa, che non a caso subisce un interessante flessione proprio con l’ingresso del bambino nella scuola dell’obbligo. I dati e le ricerche parlano chiaro; autorevoli ed esperti osservatori si sono già pronunciati in proposito, non limitandosi soltanto a divulgare giuste e sensate critiche all’indirizzo di una vecchia pedagogia che ancora non muore mai, ma anche a suggerire alternative metodologiche da impiegare a favore di un urgente rinnovamento formativo nell’ambito scolastico.
L’ostinazione da parte dell’istituzione Scuola, ricorda ancora oggi quel rifiuto aprioristico e ideologicamente strategico del metodo, durante il ventennio del regime fascista in Italia. Salvo diffuse e locali esperienze di collaborazione fattiva con personalità professionali che arricchiscono il ruolo degli insegnanti ed il loro corredo di strumenti, la scuola rimane, sotto il profilo della politica ministeriale a cui è vincolata, una entità formativa in pieno stallo, blindata da un misto di arretratezza ideologica e anacronismo strumentale.
A farne le spese, naturalmente, sono i bambini in cosiddetta fascia scolare, che devono disimparare ad utilizzare la corporeità durante il processo dell’apprendimento, ovvero ad interrompere di punto in bianco l’esperienza della crescita di un Sé totale, unitario e consapevole.
Eppure, diverse ricerche attestano l’evidente legame fra dinamiche psico-corporee e abilità grafo-segniche, fonemiche e metafonemiche, in quanto competenze dovute all’armonizzazione psicomotoria dello schema corporeo.
Che le capacità e le attitudini della letto-scrittura dipendano anche e soprattutto dagli equilibri dell’organizzazione psico-corporea, è una scoperta che dovrebbe catturare l’interesse di tutti gli operatori coinvolti nella prevenzione, sostegno ed intervento sui bisogni speciali. Molte difficoltà riscontrabili nel campo della decodifica ed esecuzione scrittoria, sono spesso da imputare a disordini percettivo-sensoriali, ad anomalie nell’orientamento spaziale, nei disturbi della lateralità e della postura, a discinesie o disfunzionalità nella rappresentazione dello schema corporeo e gestione non appropriata dello stesso. Disarmonie nel ritmo del respiro o singolari conformazioni particolari nell’apparato fonatorio possono essere correlate a conseguenti disturbi del linguaggio, con effetti a catena su capacità comunicative, vissuti emotivi, motivazione alla relazione. A ragion veduta, dunque, le conclusioni invitano a pensare come non si possa più ammettere la discontinuità e la parcellizzazione delle aree dello sviluppo, ma privilegiare un approccio integrato, un’accoglienza totalizzante di tutte le dimensioni individue della persona, che va riposta al centro dell’opera educativa.
Non è pensabile sottrarsi allo spessore cospicuo di queste tematiche, che premono sul futuro del benessere psico-fisico delle attuali e successive generazioni.
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