VIETATO SENTIRE. Le censure emotive e le ingiunzioni paradossali

Inviato da Nuccio Salis

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I tabù sociali impongono una selezione nella vasta gamma delle emozioni da sentire e da esperire. Argomenti come la morte, il sesso, la malattia, per esempio, danno luogo a un’articolata serie di varianti emozionali che vanno dal dolore, all’angoscia, alla tristezza, al disagio, alla sensazione di vulnerabilità, fino ad arrivare alle intemperanze neurochimiche ed emotive del piacere, dell’orgasmo e della ricerca dell’eros.

La società dedita al culto della giovinezza eterna combatte a mezzo di pastrocchi farmaceutici la caducità dovuta al tempo, e intenta violenze chirurgiche ai visi, fabbricando in modo seriale volti plastificati con effetti, oltreché esteticamente grotteschi, non certo scevri da incidenti ed evidenti conseguenze collaterali per le quali il rimedio si mostra peggiore del “male”. E quale sarebbe il male? Invecchiare, naturalmente, perdere potere attrattivo, forza, vigore, esuberanza, e anche ruolo sociale. Ciò, inoltre, predispone alla inevitabile degenerazione organica, cellulare e dei tessuti, disponendo ciascuno alla possibilità della debilitazione e quindi, probabilmente, di una qualche malattia.

 

Ecco allora che l’intero ventaglio emozionale riferito a queste esperienze viene spesso taciuto, e vige un generale accordo informale incline ad omettere ciò che si sente e si prova durante un difficile periodo di fragilità oggettiva ed esistenziale. In pratica, è pressoché vietato mostrarsi deboli. La debolezza, in natura, soprattutto fra gli animali sociali, non premia la sopravvivenza, e le condizioni compromesse di un appartenente al branco può esporre il resto dei membri al pericolo. Il legame atavico dell’uomo con queste registrazioni a carattere bio-arcaico sembrano tutt’oggi vincolarlo a principi rinforzati da un organizzazione sociale che, fra l’altro, emargina e disconosce facilmente gli individui con minore forza assertiva e competitiva. Esporre la propria debolezza, dunque, può essere percepita come un pericolo per se stessi, e sentirla dagli altri predispone ad avvertire un rischio che ricade invece sulla specie di appartenenza. È questo modello di credenze che genera, pare ovvio, quei messaggi educativi che riceviamo fin da piccolissimi, fra i quali, certamente possiamo annoverare “Sii forte”; richiesta genitoriale che nell’analisi transazionale prende il nome di spinta.

Si interiorizza dunque il comando del non mostrarsi mai deboli, con la spiacevole conseguenza di sentirsi dire, di fronte a un evento decisamente increscioso che ci tocca, che “bisogna essere forti”, “devi reagire”, “non piangere”, “su con la vita”, “supererai anche questo brutto momento”, fino all’immancabile “bisogna essere ottimistiiiiii!”, a completare l’idioziario delle demenziali frasi di circostanza, che altro non sono se non mancate occasioni di fare bella figura col silenzio.

Insomma, via il dolore, via la debolezza, non c’è spazio per queste espressioni in una società dove impera la corsa, la fretta, la ripresa efficiente, lo sprint, la velocità, il dominio dell’uno sull’altro.

I divieti non finiscono certamente qui, e le stesse frasi sfatte non attendono altro, dopo la malattia, l’evento della morte, ovvero l’esperienza della perdita accompagnata dall’inevitabile cordoglio e da tutti i processi emozionali vissuti lungo le fasi dell’elaborazione del lutto.

È in questi frangenti che si rivela come la nostra sia una società alessitimica, incapace di ascoltare e fare i conti con la complessità emotiva (propria e del prossimo), impreparata com’è ad accogliere l’altro nella sua dimensione psichica profonda, perché comporta impegno e profondità, valori sconosciuti all’uomo contemporaneo civilizzato. Ed ecco che il repertorio fraseologico si ripresenta, incessante, con una ridondanza mostruosa, segno dell’imbarazzo che suscitano il dolore e la tristezza, rifiutate ed etichettate sempre più come malattie, combattute farmacologicamente alla stregua di virus e batteri, misconosciute nella loro funzione di assestamento e riequilibrio del sistema psicofisiologico dell’individuo.

E già, il dolore, fondamentalmente, a chi piace? Peccato però che la società contemporanea bocci anche il piacere, soprattutto se carnale, e lo marchi come un segno peccaminoso, pervertito, anche se ricercato all’interno della liceità e affrancato dalla dipendenza compulsiva.

L’ambiguità che caratterizza i modelli educativi impartiti ai bambini, consegna a questi ultimi sia l’obbligo strutturante della spinta “Sii forte”, che l’impatto formativo di impliciti messaggi che costruiscono sensi di colpa con tutta la loro valenza nel provocar ferite che indeboliscono proprio il senso di identità che invece viene richiesto dall’esterno e in primis dai rispettivi genitori. Arriva cioè un doppio messaggio, e si struttura un doppio vissuto, che genera nel bambino confusione, disorientamento, senso di insicurezza, sfiducia, percezione di vulnerabilità e non protezione, e dunque comportamenti la cui censura conseguente, innesca esattamente la spirale che riporta, in un contorto ed insano meccanismo di coazione retroattiva, tutti quei vissuti di malessere sperimentati dal bambino. Gli adulti finiscono così per interrogarsi sul perché di un disagio di tale fattura, generando ipotesi ed eventuali soluzioni che possono rivelarsi efficaci solo a patto che si esca da una prospettiva adultocentrica e soprattutto si immetta la conoscenza di tali dinamiche. Diversamente, e come quasi tutte le volte accade, le contromisure diventano invece frutto dell’improvvisazione e della scarsa attitudine a rimettere in discussione linee di pensiero e di azione che richiedono quell’impegno ristrutturante che molti, troppi adulti non vogliono nemmeno minimamente prendere in considerazione. E questo, pur se nella fattispecie si dovrebbe possedere una responsabilità educativa. Ciò è causa fondante della buona parte dei malesseri sociali e giovanili principalmente diffusi.

La gestione e l’accoglienza del mondo emozionale dei giovani e non, è dunque un argomento che deve necessariamente coinvolgere discussione e presa in carico dei vissuti e dei sentimenti, in modo totalmente accettante, senza condizioni, senza etichettature sulla base di un improponibile gradiente bello/brutto. Non esistono emozioni belle o brutte, esistono invece emozioni congruenti e non congruenti, cioè rispettivamente idonee alla circostanza e quindi adattive, oppure discrepanti rispetto alla richiesta dell’ambiente, e quindi potenzialmente disfunzionali, inopportune e inefficaci sul piano dell’azione. Questo è il loro unico fattore di distinguo. La tristezza, dunque, non è brutta, se questa diviene per qualche contingenza, fondamentale alla ricentratura di sé, in quanto portatrice di una istanza di silenzio interiore, bonifica dal rumore esterno, ripristino delle funzioni psichiche, proprio come talvolta occorre fare anche ad un software informatico. Così come è inaccettabile respingere e censurare la rabbia di per se, e non mi riferisco alle modalità discutibili o non lecite con le quali può essere espressa. Il problema è che essa viene talvolta denigrata alla radice, e inascoltata come “voce dei giusti”, come l’urlo giovanneo che invoca giustizia, che ammonisce i potenti per le loro malefatte e implora riscatto dall’oppressione e vittoria sulla menzogna. Eppure, di fronte alla rabbia urlata, anche se giusta, la reazione più comune è quella di non prestare ascolto e minimizzare la validità dei contenuti, al di la della carica comunicativa con la quale sono inviati all’attenzione altrui.

A completare il lavoro dei doppi messaggi, nel processo formativo su come debbano essere sentite e utilizzate le proprie emozioni, si innestano e fruttificano le cosiddette ingiunzioni paradossali. Tale evento psichico è stato descritto dallo psicologo Paul Watzlawick, nell’ambito dei fenomeni comunicativi e specificamente degli atti linguistici. Una spinta dall’apparenza positiva quale “Sii spontaneo”, si rivela nella sua incongruenza, dal momento che associa in modo evidente un obbligo a una sollecitazione della spontaneità. Ma come può la spontaneità essere obbligata? Ecco il paradosso, esattamente come quando un soggetto riceve dal proprio partner la richiesta di ricevere premurose attenzioni, mediante la formula “Devi amarmi!”

Questo contorto intreccio di esperienze psichiche, contribuisce a formare quel complesso calderone legato alla multisfaccettata sfera del sentire. Se la forza censuroide dei divieti permane, il soggetto manifesterà una resistenza interna che impedisce una chiara e profonda visione di sé, interferendo nei processi della conoscenza di sé e nell’autenticità. Il risultato è un disagio a cui non si è capaci il più delle volte di dare un nome, di attribuirne una ragionevole causa o una ipotetica origine, con la conseguenza di ripiegarsi in un nichilismo fatto di passività e devastante disistima. È importante invece, anzi direi vitale per la propria salute, imparare a riconoscere le categorie delle personali emozioni proibite, al di la della causa, prima che queste si interpolino nei processi emozionali, sostituendosi alle emozioni adeguate e disturbandone la funzione comunicativa e catartica, portando l’emozione stessa su un piano di incongruenza. Poiché ciò significherebbe, in conclusione, addurre significati e comportamenti impropri rispetto all’aderenza che la circostanza dei fatti richiede all’emozione in corso, onde poter costruire successive risposte adeguate. In estrema sintesi, il rischio sarebbe quello di ridere quando si dovrebbe piangere o viceversa. La regolazione delle emozioni è importante, e compito di qualunque trainer emozionale, abbia un ruolo educativo primario o secondario a vari connotati e sfumature, è proprio quello di permettere il libero fluire di tutte le espressioni collegate alla sfera del sentire, affinchè ciascuno la disponga come quell’importante ricettore informativo che in effetti risulta essere.

Il contesto protetto e professionale del counseling ben si presta ad agevolare questo tipo di esperienza.

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