1. L’essere umano cerca sicurezza. Sembra proprio che sia nella sua natura, e non può farne a meno. Desidera certezze, punti di riferimento, stabilità, permanenza della sua condizione (specie se agiata). Il bisogno di sicurezza è annoverato nella scala dei bisogni costruita dallo psicologo Abraham H. Maslow (1908 – 1970).
Questo motore motivazionale, insito nella specie umana, sembra creare una spinta che incita ciascuno di noi ad acquisire il più possibile fattori di certezza nella propria vita. Questa spinta ci domina e ci sovrasta a tal punto che finisce per costituire il punto nodale stesso della nostra esistenza.
Sicurezza, nel linguaggio dell’uomo contemporaneo, nella società occidentale, sembra far prolificare significati legati al procurarsi vantaggi personali per assicurare a se stessi, ed al massimo al proprio branco verso cui si sviluppa senso di affiliazione e protezione, una vita il più possibile ripulita da pericoli e minacce. Insomma, rendere sicura la propria esistenza significa difendere la propria prole ed i propri congiunti, tutelare privilegi acquisiti e dedicare gran parte del proprio tempo al rendere il più stabile e lineare possibile la propria situazione ideale.
Nella civiltà occidentale contemporanea, il nostro senso di sicurezza è minato dai pericoli scaturiti da una società violenta, sanguinaria e guerrafondaia quale è quella in cui sopravviviamo; una società organizzata che può delinquere a norma di legge, che mediante le sue istituzioni politiche, economiche e scientifiche manipola emozioni e convinzioni allo scopo di foggiare soltanto una massa acritica di consumatori, beotamente felici della loro schiavitù.
Certo, l’insicurezza fa girare l’economia: banche, armi, blindi, tutori dell’ordine ecc. Esiste un notevole indotto di grande rispetto.
Nella mente dell’uomo occidentale, niente scorre (nihil rei). Tutto deve affrancarsi dall’idea di cambiamento e dinamicità e questo, si, è davvero qualcosa che va contronatura. Il lavoro deve essere fisso, una moglie è per sempre, i figli devono completare un copione immaginario proiettato su di loro, e tutto deve essere rigorosamente sotto controllo, gestibile, prevedibile, nulla può e deve violare le aspettative.
L’attuale crisi, naturalmente, nella mente nihil rei, è soltanto una pausa che sta interrompendo infelicemente il piano di vita di una società che da ordine e stabilità alla sua supremazia mondiale. Poi tutto ritornerà come prima, si potrà riprendere a banchettare, ad arricchirsi, moltiplicarsi, far schizzare il livello e la produzione dei consumi ai ritmi già conosciuti.
La sicurezza ci obbliga alla conservazione, certamente legittima, di tutto ciò che accumuliamo; poiché essa si collega di contro alla paura della perdita. L’ossessione maniacale per la sicurezza sembra palesarsi non tanto per una naturale tendenza alla salvaguardia di se dei congiunti del branco più prossimi, quanto per una sorta di reattanza immaginaria che consiste nell’angustia di pensare alla perdita e alla privazione.
Lo stato finanziario dei molti, dirottato con precisi disegni verso la forma della precarietà e della miseria, pare abbia esattamente lo scopo di far vertere tutta la nostra attenzione verso la conservazione e la difesa assidua di quel che abbiamo materialmente, inducendoci così a diventare facilmente allarmati, egoisti, divisi, depressi, instabili sotto ogni aspetto. Sotto questa esasperante condizione, magari è facile abbandonarsi allo sconforto ed ottundere le proprie qualità personali, riscoprendo il proprio valore e il proprio potere mentale. È invece proprio ciò che si renderebbe necessario fare.
L’orizzonte di questa indicibile precarietà sembra suggerire grossomodo due strade: affrontare di petto l’incertezza costruendo tentativi di conquista e mantenimento di una più favorevole condizione materiale, oppure abbracciare l’onda inquieta di un’esistenza che insospettabilmente avrebbe molto da offrirci e molto da stimolarci in un cammino di autoesplorazione.
Insomma, Gesù diceva “Chi cercherà di guadagnare la propria vita la perderà, chi invece perderà la vita per me la ritroverà” (Lc, 9, 18-27).
Ovviamente, il nostro atteggiamento immediato è quello di conservare, trattenere e possibilmente moltiplicare la materia; guadagnando la vita nella sua declinazione mondana, e magari anche a scapito di altri. E già, ci sono le priorità: i figli, il gas, le ricariche, la pay TV in hd ecc. Più difficile e decisamente antipatica e impopolare è la seconda decisione, troppo impegnativa, poiché chiede rinunce e sacrifici, nel nome di qualcosa poi a cui mica si crede poi tanto, o forse per niente. Inoltre, la seconda decisione è facilmente ammantata di pregiudizi e quindi distorta da una forma mentis conservativa e convergente. Il fatto di non fare nessuna controforza come risposta alla propria condizione di disagio, non significa fluttuare fra le nuvole e cibarsi di sogni. Le necessità materiali vengono soddisfatte, ma trattasi di necessità primarie e non superflue. Quello che cambia è la prospettiva di ricerca ed il tempo dedicato alla materialità, che si riduce a favore del tempo rivolto alla perdita di sé, alla propria destrutturazione.
La crisi contemporanea sta offrendo la straordinaria possibilità di ripensarsi all’interno di un ottica di autenticità, elevata finalmente rispetto a quei duri ed impersonali vincoli di ruolo, di apparenza e di immagine, che ci hanno sempre nascosto dentro la corazza di una professione, di una reputazione, di un’identità fittizia e di una mistificazione del Sé. Un esercito di repressi capace di sfogarsi (e male) soltanto dentro le solide e sicure mura domestiche, scenografie di violenze e mortificazioni.
La crisi contemporanea sta offrendo all’uomo ciò di cui egli ha sia più orrore che parimenti bisogno: ovvero una piattaforma temporale per potersi guardare interiormente.
La crisi contemporanea sta insegnando suo malgrado il senso della rinuncia, del recupero di una dimensione di vita responsabile nei consumi, limitata nello spreco. Essa sta facendo emergere tutte le fallacie e le contraddizioni di una società giunta al suo capolinea.
Questa occasione, dunque, non va sprecata, perché può rappresentare una storica presa di coscienza collettiva che farebbe responsabilizzare ciascuno di noi e intere comunità a riprogrammare e ripensare la propria vita secondo un nuovo ordine di valori considerati magari utopistici.
Forse, per la maggior parte, stiamo cadendo; ma io credo che anche tanti, proprio per via di questa caduta, stanno imparando a volare.
2. Quello che mi chiedo, come operatore addetto all’ascolto comprensivo, è la qualità e la strategia di un mio intervento, volto a rifornire di coraggio e di rilancio motivazionale un soggetto magari troppo abituato a non cambiare, insistente nel rimanere dentro il recinto sicuro della propria quotidianità.
Diciamoci la verità, la maggior parte dei nostri utenti-clienti ci chiede “mi cambi la situazione, ma non cambi me”. Con un paradigma siffatto, vi è davvero molto da edificare un bel cantiere. In primo luogo perché “mi cambi la situazione” è il lapalissiano preludio alla delega, alla mancanza di assunzione personale in merito a un impegno di crescita condiviso. In seconda battuta, rappresenta una direzione focale esclusiva sulla situazione, disgiunta dal Sé e dal coinvolgimento personale, con l’aggravante “non cambi me”, per salvare capra e cavoli.
Spesso, la parte più difficoltosa, che se non affrontata, chiarita e risolta può intoppare e mandare all’impasse ogni potenzialmente salutare percorso di crescita, consiste proprio nel ritrovarsi di fronte alla resistenza di un cliente che attiva tutte le sue “migliori” risorse per rifiutare di prendersi il carico che gli spetta.
Esiste, cioè, una struttura di convinzioni negativistiche, che si trovano incluse in un contenitore di credenze personali che si mobilitano alacremente per iper-semplificare la realtà, e sostanzialmente rinunciare a vivere, poiché bloccano la sperimentazione di se e quindi il progresso della propria coscienza riflessiva.
Possiamo chiamare questa struttura un insieme di schemi che va sotto il nome di abitudine. L’abitudine è spesso la forza più paralizzante che l’uomo ha a disposizione. L’alleanza stabilita con essa risale al motivo che è sostanzialmente l’oggetto ispiratore dell’intera riflessione: la ricerca spasmodica di sicurezza.
Le inferenze dei pensieri costruiti mediante abitudini, si comportano come pericolose tossine che possono davvero nasconderci a noi stessi, gettandoci nell’inferno della disistima e nel blocco di tutte le nostre risorse creative. Tali pensieri fanno scattare immediati automatismi che influiscono poi sulla percezione e sull’approccio pratico verso le cose, rinforzandosi così dalla stessa energia che li ha nutriti e foggiati. Essi iniziano tutti con il NON. Ho pensato prevalentemente ai seguenti:
_ Non ce la faccio: Farcela, significa cambiare. Ciò comporta la terribile conseguenza di dover cambiare involucro, proprio come farebbe un paguro in cerca di una nuova “casa”. L’abitudine fa tendere a preferire di pensare di non avere forze o capacità a sufficienza per potersi impegnare in un problem-solving. Un corto e risolutivo “Non ce la faccio” ripara dal rischio di vedersi costretti a rivoluzionare le idee di se.
“Se continuo ad essere l’incapace che credo di essere, questo continuerà a dare senso alla mia esistenza, altrimenti sarò costretto a riprogrammarmi in conseguenza all’eventuale traumatica scoperta di scoprirmi soggetto capace e responsabile”.
_ Non è nel mio carattere: Il carattere è lo stigma che ci foggiano indelebile fuori e dentro di noi; è questa la credenza più diffusa, dimenticando che esso è il risultato di un accavallamento multi-componenziale di esperienze e decisioni personali. Se non è nel tuo carattere, cambialo! Il carattere si può cambiare, magari non da un giorno all’altro come un vestito, ma è possibile impegnarsi a modificare alcune cose giusto per non usare artifici e giustificazioni strumentali che si esauriscono in genere con il classico “Io sono fatto così”. Ma da chi? Chi ti ha fatto così? Ti sei fatto così da solo! Quindi puoi ridecidere, la vita è la tua… figuriamoci il carattere!
_ Non vedo alternative: Il negativismo può spostarsi dal Sé alla situazione. Magari io mi sento capace, ma… non c’è niente da fare. La situazione non si può cambiare.
Le alternative, a volte, non si vedono, appunto, nel senso che bisogna rischiarare la visione delle cose, e renderla più lucida, più aperta, più creativa.
La deleteria abitudine dell’abitudine è quanto di più spesso necessita eliminare, letteralmente, perché molti dei comportamenti seguenti sono diventati inutili o inconcludenti, gli atteggiamenti obsoleti e poco costruttivi, ed emozioni e pensieri si sono intossicati.
Forse, l’unica sana abitudine, è quella di riprovare a rimettersi in gioco, e rinascere, godendosi la propria esperienza spirituale del continuo divenire.
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