Lo sguardo dell'oltre. Apparenza e dimensione corporale

Inviato da Nuccio Salis

comunicazione sguardoConosciamo tutti il primo assioma della comunicazione: “È impossibile non comunicare”. Questa legge, postulata dalla scuola di Palo Alto diretta da Paul Watzlawick, ci insegna che ciascuno di noi, pur in assenza di un preciso atto di volontà, invia messaggi aventi valenza comunicativa. Un sistema di significazione condiviso, legato ad un registro comune di codici di valutazione, invia inferenze verso un determinato “oggetto” da inquadrare all’interno di schemi di valutazione preformati. Se questo, da una sponda ci rende attenti ai segnali che provengono da diverse fonti di emissione, magari per suscitare adeguate reazioni di allarme o condividere ilarità, d’altra parte, se utilizzato in modo esclusivo ed esagerato, rischia di svilire la nostra sensibilità dentro una cornice precostituita che assume senso poggiando soltanto sulle variabili esteriori e dell’apparenza. Ciò potrebbe mortificare un’ipotetica prospettiva di profondità relazionale, autenticamente accogliente ed empatica fra le persone. Ovvero, a dirla tutta, privandoci della possibilità di esplorare il prossimo sondando anche noi stessi. In fondo, incontrare l’altro mostrando sana curiosità ed apertura, significa scegliere di crescere, maturare ed evolvere sotto il profilo umano ed esperienziale.

 

Sono essenzialmente questi, a mio discreto parere, i tratti sani da sviluppare prima di tutto in noi stessi per avere successivamente la coerenza di poterli manifestare proponendo un valido modello esistenziale. Applicare tale principio, non soltanto significa funzionare come professionisti che offrono consulenza e sostegno, ma vuol dire progredire verso uno spessore umano di cui esiste sinceramente il massimo bisogno. Mentre, secondo quello che sembra un atteggiamento sempre più diffuso, gli aspetti esteriori legati all’aspetto estetico, all’abbigliamento, a fattori di rilevanza visiva e sensoriale, influiscono massimamente nell’attribuzione ingenua di improbabili categorie di personalità, con associate prognosi caratteriologiche e profezie varie, circa atteggiamenti ed attitudini di coloro che sono percepiti come quell’ “altro da me che disgusta e ripugna”.

Un valore fondamentale del counselor, dunque, stancherà sentirlo ripetere, è la sua capacità di osservazione il più possibile neutra e di accoglienza incondizionata del fattore diversità. Parole come “diverso”, “eccentrico”, “bizzarro”, “fuori del comune”, “insolito”, nel vocabolario semantico del counselor debbono assumere una connotazione ispirata alla nostra voglia di conoscere, comprendere, incontrare, abitare temporaneamente dentro l’orizzonte di significazione psicologica e valoriale dell’altro da noi. Dovremmo dunque essere più o meno immuni dal fascino dell’apparenza, e dalla tentazione che essa ci offre nell’avere un ordine di concetti e di definizione già pronti a bella posta. Tutto ciò semplifica l’impegno valoriale dell’incontro, ed al tempo stesso impoverisce il nostro repertorio di abilità intra ed interpersonali. Dipende da come si stila la classifica, e credo che il counselor abbia ben poco da scegliere, se desidera darsi al prossimo con la sua autenticità e trasparenza.

A fronte di tutto questo, il nostro sguardo sull’altro, e sulle sue più immediate espressioni di sé, deve essere intriso di una tensione osservativa e disincantata, tuttaltro che malamente interpretata come asettica, perché invece si connota proprio per il suo carattere di indagine finalizzata alla produzione di significato. Quale è la prima zona di espressione visibile che l’altro in modo immediato ci rimanda? È senza dubbio il corpo. Posture, movimenti, collocazione spaziale, regolazione di distanze interpersonali, orientamento, segni caratteristici, ma anche orpelli, vestiti e tutto quanto lo ammanta e lo carica di simboli e significati. Come va osservato il corpo? In tutte queste forme espressive di cui sopra, certamente, che dobbiamo essere in grado di annotare, rilevare nelle modalità manifeste e, soprattutto, cercandone un legame di congruenza sia all’interno degli stessi elementi del repertorio facciale, mimico-gestuale, involontario fisiologico, che infine fra questi elementi ed il restante ordine di fattori verbali e paraverbali in evidenza nell’altro. Il corpo pone dunque un problema di osservazione scientifica, di reperimento di strumenti di valutazione e di costruzione di ipotesi sulla natura problemica riportata dall’interlocutore che esperisce la narrazione. Le dinamiche del corpo richiedono un’attenta e corretta analisi, volta soprattutto a mettere in evidenza in che modo le varie espressioni dello stesso possano essere ricondotte ad un certo significato piuttosto che ad un altro, ricercando insieme alla persona a cui dedichiamo la nostra attenzione, le possibili strategie più idonee per poter intervenire proprio sul corpo, nel tentativo di ridare una direzione a un nuovo corso di idee e concetti.  Le dinamiche del corpo ci richiamano ad elevare la competenza dell’ascolto, poiché rilevarne i suoi aspetti comunicativi salienti può essere utile o risolutivo per la persona con cui ci stiamo confrontando.

Prendiamo, giusto per fare un esempio chiarificatore, la teoria del minicopione dello psicologo a orientamento transazionale Taibi Kahler. Egli sostiene, come ha raccolto dalle sue stesse ricerche ed analisi, che durante l’intero comportamento espressivo delle persone, alcune sequenze, che potrebbero essere per l’appunto isolate in micro-aspetti, sarebbero descrittive circa la natura del modello esistenziale che ciascuna persona si attribuisce, agendolo mediante un ruolo sociale, all’interno cioè di un Copione prescritto. In queste dettagliate ed accurate analisi ne fanno parte anche le parole, quindi i contenuti narrativi, ma il materiale è soprattutto costituito da tutte quelle annotazioni sugli aspetti paraverbali e non verbali cinestetici (o specifici) che rendono conto specialmente del linguaggio espresso oltre le parole, anche se in qualche modo collegato con esse secondo certi termini di relazione, la cui assonanza o meno, infatti, deve essere sottoposta ad accurato vaglio dell’osservatore che gestisce l’intero processo comunicativo fra le parti.

Il counselor può dunque, ed anzi diciamo che dovrebbe, esaminare con affidabili criteri osservativi le dinamiche della comunicazione corporea, rilevarne gli aspetti in cui gli è stato possibile rilevare alcuni importanti cambiamenti, e riportarli con assoluto principio descrittivo all’attenzione del suo cliente. Per esempio, egli potrebbe dire: “Quando mi hai parlato di tua figlia hai smesso di guardarmi ed i tuoi occhi si sono appannati”, ci si può fermare così od aggiungere in prima persona che ci stiamo chiedendo quale significato abbia per il nostro interlocutore tale fenomeno. Dipende anche dalla nostra scuola di orientamento e dal tipo di contratto stabilito col cliente. L’importante è non cascare nella tentazione di stabilire o credere ciecamente a regole stabilite “scientificamente” sulla comunicazione corporale, in quanto vi è da considerare l’endemicità di certe espressioni (es. una donna islamica potrebbe allontanarsi maggiormente da noi ed assumere una postura che indica difensiva, un uomo mediterraneo e di elevato status sociale potrebbe guardarci fisso e in modo incalzante). In ogni caso, consideriamo il margine di relativismo e di individualità in seno a ciascuno di noi, e non ultimo il fatto che certe posture corporali possono essere dovute a disfunzioni motorie, irregolarità scheletriche o dolori; insomma, siamo cauti nella valutazione, e cerchiamo infatti di leggere il tutto all’interno del complessivo quadro dell’espressione comunicativa. Possiamo dunque assegnarci la libertà di immettere un feedback nella relazione, attraverso cioè la restituzione retroattiva di ciò che ho osservato, oppure, nel cercare il riscontro con il cliente, anche per essere meno invasivi, potremo addirittura, concordandoci con chi stiamo sostenendo, chiedere al cliente stesso di effettuare una raffigurazione: ovvero ripassare i contenuti messi in evidenza e prendere consapevolezza degli stessi in termini emozionali, ripetendo, imitando ed anche enfatizzando le espressioni non verbali che si sono ravvisate su certi passaggi emotivamente significativi. In questo caso, l’elemento corporeo diventa anche strumento di possibile esplorazione ed assunzione di consapevolezza dei vissuti e di recupero di stati affettivi accantonati o rinnegati.

È inoltre necessario saper collocare nell’area corretta, le espressioni disfunzionali del corpo e dunque dei suoi correlati psichici, al fine di poter procedere all’aiuto evitando interpretazioni distorte e suscettibili di teorie personali improvvisate e non fondate. Quindi, parole d’ordine è verificare, valutare in quale zona si possono collocare i problemi del corpo. Possiamo individuare le stesse secondo il seguente elenco:

_ Incapacità a rilassare tensione fisica e psichica.

_ Desiderio di reprimere conflitti intrapsichici.

_ Tentativo di inibire pensieri o emozioni considerati rispettivamente inenarrabili e inopportune.

_ Catturare e mantenere attraverso la sofferenza fisica il supporto e l’attenzione del prossimo.

_ Esperire elevati livelli di stress che non si riesce a gestire e tenere sotto controllo.

Dunque è importante, per prospettare un intervento più adeguato, identificare l’area da cui è maggiormente interessato il disagio psicofisico. E dunque parlare al corpo, in quanto esso è portatore di storia, significati, bisogni; esso è corollario di elementi di vita vissuta, possiede linguaggi e stili narranti ed ha bisogno di essere considerato più che il semplice involucro che ricopre la persona.

Esso, come casa temporanea dell’anima, vive con questa e ne trasuda la sua esperienza; osserviamolo, ascoltiamolo, diamogli considerazione, perché anche se non vuole, prende sempre la parola. 

Potrebbero interessarti ...