“IO COLLUDO, TU COLLUDI…”

Inviato da Milena Screm

 

Un cliente che tende a essere passivo e pieno di aspettative e un counselor che tende a prendersi cura, fare per l’altro, assecondare.

Un cliente che tende inconsapevolmente a instaurare relazioni di dipendenza, nelle quali cerca approvazione, e un counselor che tende inconsapevolmente ad agire accoglienza e non giudizio come principi di "positività sempre e comunque".

Un cliente che verbalizza e manifesta che "non ce la fa più ad andare avanti" e un counselor che tende all’onnipotenza (Io ti salverò).

 Un cliente che ha bisogno ma è in conflitto con la sua “debolezza”, quindi non si pone in alleanza e un counselor insicuro che non si rende conto che l’altro non riesce a mettersi  in discussione autenticamente.

 

Questi alcuni esempi, ce ne sono molti altri, di situazioni di relazione di aiuto nelle quali c’è rischio di COLLUSIONE tra cliente e counselor.

 

Collusione.

Nel vocabolario italiano il significato della parola “collusione” è: “intesa segreta, che una parte stabilisce con un’altra parte per ottenere vantaggi”.

 

Collusione psicologica.

Nella relazione cliente-counselor il cliente cerca inconsapevolmente di collocare il professionista nello spazio funzionale alle proprie resistenze. Poiché anche il counselor è una persona e ha, per quanto lavoro abbia fatto sul “saper essere”, anche lui ha delle aree d’inconsapevolezza, può a sua volta colludere senza rendersene conto.

 

In Psicoterapia, parlando di collusione si parla anche di relazioni primarie, quella tra madre e figlio (“relazione contenitore-contenuto”, Bion): da bambini la figura materna  è l’oggetto delle proiezioni dei sentimenti ed emozioni che non sono controllabili; esse diventano il “contenuto” collocato nella madre “contenitore”. Questo avviene affinché, in teoria, la figura materna le restituisca “disintossicate”, tollerabili. Ma ogni mamma è anche un essere umano e in base alla sua capacità di metabolizzare o no le proiezioni del bambino, potrà accadere che:

  1. al bambino potrà ritornare ciò che è suo, ma con una connotazione tollerabile;
  2. al bambino potrà tornare indietro il suo timore ma ancora con la stessa tonalità e intensità originaria se la madre non riesce a elaborare le proiezioni;
  3. i sentimenti di turbamento della madre ritorneranno al bambino con una connotazione di ancora maggior pericolo per lui: la madre gli restituisce qualche cosa di ancor meno controllabile.

 

Da adulti accade qualche cosa di analogo nelle relazioni che hanno un particolare investimento di sentimenti ed emozioni; l’innamoramento per esempio, ma anche un percorso di crescita personale.

 

Nella relazione di counseling il cliente, con le sue tensioni e le sue difficoltà, non è in grado di tollerare quelle parti di sé che non ha potuto elaborare e sicuramente esse hanno anche degli effetti su ciò che la persona porta come problema. Queste parti non sono né consapevoli, né controllabili e possono essere solo spostate dentro un “oggetto” esterno, il counselor. Egli diventa quindi “contenitore”, e nel momento in cui pone in atto la sua capacità di ricevere, contenere e aiutare a portare alla consapevolezza le proiezioni del cliente, può elaborarle e restituirle come parti che gli appartengono.

 

Come già detto, anche il professionista è un essere umano, una persona con aree d’inconsapevolezza. Esiste anche la possibilità, quindi, che il counselor non sia in grado di accettare e di contenere le proiezioni di alcuni clienti che, con la loro intensità o tipologia, possono fargli riemergere problematiche personali non risolte. Tutto questo non è da attribuirsi solo all’inesperienza del counselor; si tratta piuttosto di normali e fisiologici processi di transfert e controtransfert che a) avvengono anche in un percorso di counseling, b)costituiscono un’opportunità di apprendimento e di crescita, sia personale sia formativa.

L’importante è non negare, evitare, minimizzare, giustificare dubbi ed eventuali difficoltà e porsi delle domande:

-      Cosa sento autenticamente?

-      Cosa sta accadendo?

-      Sto evitando qualche cosa?

-      Qual’è la mia parte di responsabilità in tutto questo?

 

Fatto questo, lo spazio protetto nel quale elaborare queste tematiche è quello della supervisione. In quel contesto il counselor potrà depositare la propria emotività nel supervisore (che funge da “contenitore”) e ritornare in contatto con la reazione emozionale provata nella situazione col cliente. Il supervisore, grazie alla maggiore esperienza, competenza, capacità e oggettività, potrà far cogliere al counselor l'origine della sua reazione emozionale, aiutandolo a contattarla, sentirla, elaborarla (Grinberg).

 

Un’altra possibile chiave di comprensione della collusione (che agisce in ogni ambito della vita, famiglia, amicizie, lavoro), è l’Analisi Transazionale di Berne, con le transazioni tra stati dell’Io e i “giochi” comunicativi. Colludono il marito che chiede inconsciamente alla moglie di agire un ruolo materno o la vedova che chiede inconsciamente al figlio maggiore di occupare il posto del padre, per esempio. Ogni collusione è funzionale a un vantaggio inconscio: l’appagamento di bisogni profondi legati ad aspetti non elaborati. E’ quindi una dinamica funzionale al mantenimento dello status quo: nella relazione professionale d’aiuto colludere significa anche evitare il cambiamento autentico delle cose. Porre attenzione, già dal primo colloquio, alle dinamiche collusive è di fondamentale importanza nell’impostare le basi di un percorso di counseling autenticamente evolutivo, durante il quale il portare un nuovo punto di vista sui bisogni e su difficoltà emotive del cliente, promuovendo la possibilità di rivedere, rinnovare e riorganizzare alcuni aspetti, può trasformare il problema collusione in una risorsa e in un’opportunità.

 

Spunti per l’articolo tratti da:

“La collusione”, blog di Francesca Venditti, psicologa

“Introduzione al pensiero di Bion”, L. Grinberg, Raffaello Cortina editore

“La supervisione psicoanalitica, teoria e pratica”, L.Grinberg, Raffaello Cortina editore

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