Credere per provare: ripensare una "politica" dell'emisfero destro

Inviato da Nuccio Salis

emisferi cervelloDentro ciascuno di noi abita la verità. La difficoltà del cercarla, quindi, sembra essere limitata quanto meno allo spazio circoscritto di se. Ciò non toglie certo il piacere del viaggio di andare a cercarla, anzi, può renderlo oltremodo avvincente. La questione del rapporto con essa, dunque, pare assumere non tanto un dilemma sulla ricerca del luogo, quanto un problema legato a come riconoscerla, a come discernerla rispetto a eventuali simulacri o difettose imitazioni. Nonché, successivamente a tutto questo, a quale significato ascriverle ed a come relazionarsi usufruendo di una struttura simbolica di linguaggio che può essere condivisa, apprezzata, sostenuta e, dunque, infine, compresa ed interiorizzata. Certo, sarebbe con tutta probabilità pretestuoso chiedere alla verità di tramutare il suo linguaggio per adattarlo al nostro; poiché ciò ci priverebbe del senso medesimo con cui è identificato il nostro cammino rispetto ad essa. Dunque spetta a noi avvicinarci ad essa, cercare di interpretarla, entrare dentro la sua visione delle cose, perché se anche abita in noi, fa parte di noi, esistono innumerevoli ragioni per affermare che l’abbiamo ignorata, vituperata, perduta. Quindi, come un amante che ha lasciato o tradito il proprio partner, ci compete dunque fare il primo passo. Se non facessimo questo prima di tutto dentro di noi, allora a mio insignificante avviso sarebbe presuntuoso soltanto pensare di poterlo fare con la verità degli altri.

Ma che linguaggio parla la verità? Che cosa ha da dirci? Perché è importante ritrovarla? Non lo so. Ma pur di non finire l’articolo prenderò spunto da un episodio narrato nei Vangeli, che mi ha sempre colpito. Si tratta dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, viaggio fortemente voluto (apparentemente) dal noto discepolo che tradì il Cristo; si tratta di Giuda, il più istruito fra i seguaci del Maestro Gesù. Il discepolo Giuda, guidato dall’intento di aiutare Gesù a diffondere il messaggio universale dell’amore e l’annuncio della verità redentrice, pensò che il suo divino Maestro dovesse incontrare e conoscere uomini colti, istruiti e di larghe vedute. Costoro avrebbero accolto il messaggio evangelico e soprattutto riconosciuto in Gesù il Messia; questo era l’auspicio a cui tendeva Giuda, dal profondo delle proprie convinzioni. Ora, vi era in Gerusalemme uno scriba, un uomo delle istituzioni, colto, benestante, fedele servitore dell’Impero, sedeva a Palazzo protetto dalle milizie romane. Si chiamava Zera, e conosceva Giuda, in quanto quest’ultimo proveniva da famiglia altolocata, essendo il figlio di un notaio. L’incontro fra Zera e Gesù non avvenne certo nel silenzio e nell’intimo di una stanza segreta. Infatti, mentre Gesù entrava in Gerusalemme, attraversando il tempio si accorse che questo era diventato un luogo di mercimonio, e sconquassò ogni cosa inveendo contro chi stava commettendo il sacrilegio di trasformare un luogo di culto in uno spazio adibito al mercato. Il clamore prodotto fece lievitare la folla e fu in quella occasione che Gesù incontrò Zera. Quest’ultimo si dichiarò contrariato da quella aggressione infierita con tanto vigore e veemenza da Gesù, e non comprendendone il motivo ne ignorò il significato. Linguaggi e valori differenti non permisero la comprensione. Zera volse alle spalle a Gesù e rientrò a Palazzo.

A quel punto si verifica un episodio che trovo decisamente illuminante circa il rapporto con la verità. Giuda esprime il suo disappunto verso Gesù, dicendogli che così facendo aveva perso la possibilità di essere accolto e compreso da un uomo di mente aperta. Così Gesù si volta verso Giuda, facendo capire, a mio umile giudizio, chi aveva condotto chi, e per quale motivo ora si trovassero lì, entrambi, a fissarsi negli occhi, perché Gesù gli ribatte: “Giuda, non è la mente che devi aprire, ma il tuo cuore”.

Ed io, non so perché, ma ho evocato in senso figurale il nostro rapporto con la verità. Essa cammina a fianco a noi, tutti i giorni, noi con indifferenza la emarginiamo, non ce ne prendiamo affatto cura, sottostimiamo (è dire poco) il suo potere rigenerante e rifondativo. Non paghi della nostra ingenerosa non curanza, cerchiamo di coglierla ed interpretarla cogli occhi della ragione, della mente aperta e brillante, che sa ben ragionare, ben dedurre, calcolare e pianificare in modo impeccabile. Ed è per questa ragione, appunto, che non la comprendiamo. Eppure, spesso, influenzati ancora da una cultura scolastica mentalista, da una supremazia tecnocratica del “lume” rispetto alla dimensione del profondo, spingiamo chi ha bisogno di aiuto verso un percorso in cui deve soprattutto progettare, valutare, verificare, far tacere certe spinte interiori, considerate magari troppo dissolute o sconvenienti. È possibile che lo facciamo, e forse non ce ne rendiamo conto.

Allora come comportarsi, come promuovere un agire efficace che solleciti l’altro al contatto con se, con la propria dimensione del profondo? Citerò ancora il Vangelo. Simon Pietro era uscito per pesca, con altri discepoli, e tornavano a mani vuote presso le spiagge di Tiberiade, quando apparve loro Gesù, che gli disse di gettare la reti dalla parte destra della barca, di modo da fare una pesca fruttuosa. E così accadde.

Forse, a mio inservibile parere, è proprio questo che occorrerebbe fare: fondare una “politica” dell’emisfero destro, per fare pesca grossa, per riempire le reti. Abbandonandosi al richiamo creativo e de-costruttivo di se, insomma smetterla di provare per credere, e cominciare a credere per provare.

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