Se ti ami per come non sei, ti ami? Rimango sempre colpito nel pensare che esista un animale come il camaleonte, capace di assumere lo stesso colore dell’ambiente in cui permane, o il polipo, che si confonde con l’ambiente marino per poter balzare a sorpresa sulla preda ignara di passaggio; e che dire delle le farfalle foglia che diventano maledettamente simili alle foglie, assumendone colore ed aspetto, rendendosi praticamente irriconoscibili perfino ad un occhio esperto. Ma fra tutti spicca Ulisse, che aggrappato al vello di una pecora riesce a scappare dalla grotta del ciclope Polifemo.
Simbiosi, mimesi, dissimulazioni, sono ottime strategie di coping, certo, ma sono anche mirabolanti inganni. Suggestivi, fascinosi, per certi loro aspetti, e per quanto assortiti nella loro tecnica, hanno in comune una sola finalità: il soddisfacimento dei bisogni primari. Ergo, quando l’uomo fa ricorso alla sua personale tecnica di mimetizzazione coll’ambiente, mi chiedo, sta adattando una intelligente strategia di sopravvivenza o, se è vero che è anche un essere trascendentale, tale subdolo adattamento lo mortifica nella profondità del suo essere umano? Mi spiego:
L’incipit del primo libro nella storia del counseling si apre chiedendosi: Cosa è un essere umano? Mette da subito in chiaro la portata dell’impegno che ci si sta assumendo. E se difficile ancora oggi possiamo trovare rispondere con sicure affermazioni a questa domanda, forse possiamo dire cosa egli non è. Non è sicuramente un camaleonte, un polipo o una farfalla foglia; può essere certo l’astuto odisseo che fugge dalla spelonca del suo sequestratore.
Ed a questo punto, però, Ulisse diventa la metafora dell’uomo medio che, aggrappato a una pecora, preferisce la folla che conduce alla porta larga, dove ad attenderlo vi è sempre qualcuno con cui compiacersi vicendevolmente, qualcuno a cui delegare le proprie responsabilità, qualcuno con cui sostituire sciagurate domande e riflessioni su come spendere nobilmente la vita, magari rimpiazzandole con offerte di pasti pantagruelici ed edonistiche distrazioni.
La strategia, tecnicamente, è più evoluta, ma il fine è lo stesso: evitare di incontrare se stesso, il vero ospite inquieto che ci abita: l’Io senza maschera, quella nuda autenticità verso cui si volge continuamente le spalle, supportati da patetiche quanto deboli giustificazioni, tipo “lo fanno tutti”, “lo dicono tutti”. E’ in questa circostanza che aiutare l’altro significa anche profondamente ferirlo, scarnificarlo da una pelle che non è la sua, e che usa a scopo protettivo come interfaccia sociale, ma che puzza di stantio, di carogna, di ipocrisia. E l’ipocrisia un odore ce l’ha, quello delle ossa putrefatte adornate da un bel sepolcro imbiancato.
E la difficoltà più grande è che il nostro interlocutore nel frattempo si è affezionato al suo guardaroba; c’è un po’ di tutto: dall’impermeabile chiodato alla bandana del Che, dalla 24 ore coccodrillata alla bandiera cogli slogan degli ultras. Quindi, tocchiamogli tutto ma non il copione, non quel percorso inesorabile che ti fa ammantare di tutte le sovrastrutture più fittizie, che ti fa credere che quando vedi le sbarre della gabbia di fronte a te, pensi che siano gli altri ad essere imprigionati nel recinto.
Davvero ostico proporre uno sguardo decentrato nell’al di qua, perché libera, e spesso la libertà, proprio perché ce la meritiamo, è ciò di cui non vorremmo nemmeno sentir parlare.
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