Il teatro e la relazione d'aiuto (parte prima)


maschere teatroIl teatro, grazie alla tecnica dell'attore, quest'arte in cui un organismo vivo lotta per motivi superiori, presenta una occasione di quel che potremmo definire integrazione, il rifiuto delle maschere, il palesamento della vera essenza: una totalità' di reazioni fisico-mentali. Questa possibilità deve essere utilizzata in maniera disciplinata, con una piena consapevolezza delle responsabilità' che essa implica.

Jerzy Grotowski

 

Il presente articolo nasce dal mio forte interesse per il counseling ad indirizzo gestaltico e il laboratorio teatrale inteso come intervento di sostegno nelle situazioni di disagio. In tal senso il teatro è un teatro di ricerca e sperimentazione dove trovano poco spazio l’imitazione, la maschera intesa come fuga o l’artificio, e dove invece prevalgono la creatività e il lavoro personale finalizzato alla spontanea espressione di sé. Sulla base di questa premessa, il teatro può diventare un luogo di racconto ed ascolto ed il laboratorio teatrale diventa un viaggio attraverso le possibilità espressive della persona nella sua globalità, superando la frattura tra mente, pensiero ed emozione. Quindi "il teatro" come metodo d’esplorazione che attraverso il training dell’attore[1] produce in chi lo esercita, ci si augura, il “piacere” della sua pratica, ma soprattutto un momento di crescita personale[2].

 

In questo modo il setting del laboratorio teatrale si propone come spazio-tempo separato dalla quotidianità' dove si crea una sospensione della vita quotidiana a favore dell'esplorazione e della costruzione di modalità diverse non solo di pensare, percepire, muoversi, ma anche di interagire; infatti le normali regole che orientano le interazioni sociali e comunicative vengono messe in discussione, o comunque sono ridefinite non solo a livello di schemi di relazionali ma anche a livelli di linguaggio, movimento ed emozione.

 

Il processo drammatico del laboratorio teatrale così assume un valore superiore rispetto a quello che è il prodotto, la rappresentazione sul palco ad un pubblico. Già questo assunto rivoluziona quello che solitamente nel quotidiano è la posizione rispetto alle aspettative esterne che imporrebbero di dimostrare che il lavoro svolto ha avuto un qualche senso[3]. Infatti le prove spesso sono già rappresentazione e il pubblico non è solo la platea, ma è anche il compagno di lavoro e l’attore stesso, spettatore di quello che sta avvenendo in lui. Un caso in cui potrebbe essere indispensabile allestire uno spettacolo finale è quando, trasversalmente al lavoro svolto, il conduttore ritiene parte degli obiettivi anche un vero e proprio atto di comunicazione da parte dei partecipanti al laboratorio verso la comunità o qualsiasi altro destinatario significativo.


In questa maniera la performance suggella il lavoro svolto ed ha la natura, peraltro molto efficace, del rito di passaggio.


Ecco una testimonianza scritta da Anna Solaro, attrice, educatrice, formatrice, operatore di teatro sociale da molti anni, che meglio di tante parole riportate esprime il senso di quello che ho cercato di descrivere sopra:

A me capita spesso di viaggiare in autobus, anche perché faccio parte di quella specie protetta in via d’estinzione di quelli "senza patente"; viaggiando su questo mezzo di tutti, quando mi capita di trovar posto, mi piace osservare e ascoltare quello che vien fuori da queste micro-comunità viaggianti.

Un giorno, privilegiata dall’esser seduta nei posti in fondo alla vettura, ho assistito a questo piccolo spaccato di storia di ordinaria umanità. Ad una fermata salgono due ragazzi con un cane, due di quei ragazzi che vengono solitamente definiti come punkkabestia.

L’interazione con questo mondo etichettato, viene immediatamente verbalizzata da una signora che manifesta disappunto, fastidio, espulsione per quei due propriamente non omologati. L’autobus viaggia con fermento… La signora scende. Ne sale un’altra, forse un po’ più anziana, e si siede vicino ai due ragazzi. Cominciano a parlare, la signora accarezza il cane, li saluta e scende.

L’autobus viaggia.

Che stranezze… Ma quali sono le stranezze? Quelle stigmatizzate e magari rese visibili in capigliature rasta e in cani umanizzati, o forse sono le nostre così varie interazioni con il mondo? Questo il mio dubbio: cosa vuol dire essere strani?

Questo dubbio è stato riportato al gruppo in uno dei "Giovedì Teatrali" ed il gruppo ha immediatamente inscenato.. e risposto …

"Io, per esempio, parlo da solo sull’autobus …"

Cosi’ siamo risaliti tutti sull’autobus e l’autobus è salito sul palco viaggiando nei parchi pubblici, sostando nei luoghi di lavoro e fermandosi per strada …

Si è data vita così ad una riflessione teatrale su storie di ordinaria stranità in cui ognuno di noi è coinvolto."



[1] Il training dell’attore, attraverso esercizi ripetuti, allenamento, disciplina e addestramento, consente infatti l’esplorazione del sé, la consapevolezza della propria creatività e del proprio io rappresentabile - Mirco Bonomi, Anna Solaro- Il teatro di cura- ed Chimienti 2008

[2] l’obiettivo primario non sarà la recitazione fine a se stessa, ma “un fare logico e sensato”, in cui vi è spazio anche per la libertā di sbagliare, per compresendere in modo profondo che non esiste un modo “giusto” in senso assoluto.

[3] Edoardo Giusti- Luisa Passalacqua – Guarire con le arti drammatiche – Sovera Editore 2008

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