Connessioni che es-cludono


Connessioni che es-cludono 

   Il  web  è  entrato  trionfalmente  nel  nostro  mondo promettendo di creare un habitat ideale.[…] L’avvento del web ha reso improvvisamente realistiche le nostre speranze di  notorietà  ma,  avendola  posta  ingannevolmente  alla nostra portata, l’ha resa quasi obbligatoria –benché con una chance di acquisirla pari a quella di vincere il jackpot di una lotteria […].

Gli esseri umani del ventunesimo secolo sono di due  mondi  [offline  e  online].  Il  mondo  online,  che  siamo indotti,  sollecitati  e  allettati  a  costruire  con  i  nostri  modi  e mezzi,  avvalendoci  degli  strumenti,  stratagemmi  ed espedienti  forniti  dalla  tecnologia  informatica,  è  spesso enfaticamente  presentato  come  se  ci  appartenesse […]. Online,  a  differenza  di  quanto  accade  offline,  sono  io  ad avere il controllo: io sono il padrone, io comando. Forse non ho  la  stoffa  del  direttore  d’orchestra,  ma  decido  io  che musica si suona. Alcuni arguti osservatori hanno paragonato questa sensazione divina a quella che sopraffà un ragazzino lasciato solo in un negozio di dolciumi. Il problema però è: quali  delizie  quel  ragazzino  sceglierà  e  si  godrà?  […] La maggior parte delle ricerche sociologiche in merito mostra che  la  maggioranza  degli  utenti  usa  Internet  attratta  non tanto  dall’opportunità  di  accesso,  quanto  da  quella  di uscita, ampiamente usata più per costruirsi un rifugio che per abbattere muri e aprire finestre; per ritagliarsi una comfort zone  tutta  per  sé,  lontano  dalla  confusione  del  caotico  e disordinato  mondo  della  vita  e  delle  sfide  che  esso  pone all’intelletto e alla tranquillità dello spirito […] Con il semplice espediente di cancellare ciò che non si desidera appaia, o di  bandire  l’accesso  a ospiti  indesiderati,  la  rete  permette uno    puramente  e  semplicemente irrealizzabile e inconcepibile nel mondo offline.[1] 

Le  affermazioni  di  Zygmunt  Bauman  sono  così cristalline  che  quasi  ci  meravigliamo  che  non  siano patrimonio  condiviso.  Conoscendo bene il potere condizionante dei media, non ci domandiamo non tanto come sia possibile che l’euforia per la rete e per ogni strumento tecnologico, piuttosto restiamo increduli  di  fronte  al  persistere  di tale assillante contagio pur avendone scoperto limiti e inganni.

Corale è il lamento sulla indesiderata pressione che cellulare, social, eventi,  iniziative  e  condivisioni  esercitano  sulla già concitata vita quotidiana e tuttavia dai forzati della comunicazione senza soluzione di continuità mai arriva un pur pallido tentativo di ipotizzare uno stop, di imparare a gestire gli strumenti piuttosto che lasciarsi da loro gestire. 

Ciò  che  riesce  facile  è…sparire  all’improvviso,  eclissarsi, ignorare tutto e tutti per qualche ora (al massimo). Definire queste brevissime interruzioni, a cui ricorriamo nel momento in  cui  avvertiamo  di  aver  superato  la  nostra  soglia  di

tolleranza dello stress, splendido isolamento è quanto meno improprio. Se fosse davvero tale, restituirebbe noi a noi stessi, ci restituirebbe la forza dei nostri valori, della nostra creatività, sarebbe insomma un tempo all’insegna di positività piuttosto che  di  negazione  momentanea di abitudini tossiche sulle quali  neppure  un  attimo  abbiamo  deciso  di  riflettere, inconsapevolmente impedendoci di vivere e nobilitare la  nostra  tendenza  attualizzante (Carl Rogers). Se riuscissimo a osservare il nostro comportamento da  estranei,  probabilmente  ne comprenderemmo  in  un  attimo  l’ingannevole  insidia: desideriamo vivere della e nella rete per misurare dal riconoscimento pubblico la nostra efficacia, il valore dell’immagine che con fatica ci stiamo costruendo proprio perché destinata ad uso altrui; l’insopprimibile desiderio di inserimento e visibilità può nascondere, ma di certo non risolve la nostra intima solitudine. Cerchiamo gli altri, sogniamo di essere inclusi nei gruppi a cui partecipiamo sui social; con stati d’animo progressivamente più ansiosi prestiamo attenzione a segnali che contraddicono o potrebbero compromettere il nostro indice di gradimento e per questo siamo indotti a prenderci qualche brevissima pausa, ma non più capaci di ritrovare noi stessi e spaventati dalla percezione di estraneità rispetto a “tutti” gli altri, rientriamo in questo giogo sostanziato di futili apparenze.

La pandemia e i tempi di guerra ci hanno forse modificato? Ci hanno indotto ad andare verso noi stessi per capirci e così comprendere l’altro, oltre i giochi di persuasione e di sfide competitive? Ci hanno aiutato a comprendere quanto irrinunciabile sia un atteggiamento critico personale, fondato su presupposti condivisibili? Siamo diventati capaci di confrontarci con l’altro o ancora il confronto è per noi sinonimo di disaccordo dal quale esce vincitore chi sa imporsi con maggiore autorità e prepotenza?

Prenderne consapevolezza ci offrirà soluzioni.

Cordialissimamente

Giancarla Mandozzi

[1] Zygmunt Bauman, Nati liquidi, Sperling & Kupfer, 2017, pagg. 74-77 

 

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