Osservatorio counseling: 1. la dimensione affettiva della donna nel quotidiano


Osservatorio counseling: 1. la dimensione affettiva della donna nel quotidiano

          

         Prima di entrare in medias res, nella concretezza di casi nei quali la  persona che chiede aiuto è una donna, precisiamo brevemente quali fondamenti teorici sostengano che l’analisi di casi reali preveda e giustifichi di individuare e conoscere le dinamiche sociali, gli stili relazionali, le difficoltà più diffuse dell’oggi.

 

Il counseling, che recentemente su questa pagina ho definito osservatorio privilegiato, è, nell’ambito che gli compète, l’opportunità più praticabile, efficace e di breve durata per strategie di intervento risolutive di diverse problematiche di carattere esistenziale. L’ambito elettivo del counseling e insieme il limite entro il quale si colloca, è il mondo relazionale: relazioni intra e interpersonali di persone sane,  in cui il counseling, nei diversi approcci, opera  per attivare risorse interiori che ciascuna persona possiede (talvolta a sua stessa insaputa) e per migliorare lo stato emozionale complessivo, la qualità della vita, il Bene-Essere di ciascuno e per prendersi cura delle persone che vivono un momento di problematicità di vita, le aiuta ad individuare in che modo e quanto la propria difficoltà sia legata, spesso indotta dal contesto in cui viviamo.

Come per ogni ambito specialistico, nulla nel counseling è dato o da darsi per scontato, nessun risultato è automaticamente certo, né ciò che è utile ad una persona sarà da considerarsi trasferibile ad altra; un insieme raffinato di competenze, conoscenze, abilità, sensibilità, doti empatiche ecc, ecc del counselor sono il tramite essenziale su cui poggia l’eventuale efficacia di un colloquio o di un intero percorso di crescita della persona in aiuto.

In tutto questo complesso lavorio (del counselor come della persona in aiuto) emerge che, con frequenza maggiore di quanto si pensi, i casi individuali sono come programmati dalle dinamiche della società nel suo complesso e, a prescindere dalle situazioni concrete in cui come counselor ci troveremo ad operare, è fondamentale che riflettiamo su alcune importanti e ineludibili questioni:

si può individuare quanto un fenomeno sociale sia causa di un problema individuale, attraverso la narra-azione che i protagonisti compiono di sé?

si può legittimare la memoria di ognuno, come fonte per una conoscenza obiettiva della realtà?

quanto la ricerca dell’autostima e dell’autoefficacia, dà forma e de-forma la narr-azione di sé?

È con questi presupposti/limiti/prerogative che coerentemente il counselor lavora in primis su se stesso, poi osserva, riformula perché valori e interpretazioni espresse dalla persona in aiuto siano vagliate e consapevolizzate; per questo, il suo ascolto si fa in certo senso scientifico, attuato cioè con la modalità della scomposizione e ri-composizione in sintonia e in empatia con la persona in aiuto e in ogni momento, come elemento cardine, fil rouge di ogni colloquio è l’imparzialità del counselor (nel counseling individuale, di coppia, familiare, di gruppo), partecipe, e tuttavia non coinvolto, sempre presente a se stesso come individualità altra dall’interlocutore e in condizione mentale/emotiva di accettazione in assenza di giudizio, attento al LNV  la cui lettura è parte integrante della sua formazione e del continuo allenamento, rafforzato e sostenuto dalla supervisione.

Questo insieme che ho provato a delineare, complesso, arduo e ogni giorno ridefinibile, è il presupposto essenziale che nutre e dà rilievo ad ogni singola esperienza che come counselor incontriamo. Da questo presupposto teorico-metodologico ogni singolo caso concreto viene valorizzato e assurge a elemento esemplare più generale, legittimando, se ancora ce ne fosse necessità, l’affermazione da cui si era partiti e cioè che il counseling è osservatorio privilegiato delle dinamiche della nostra attuale società.  

È così che, riflettendo su recenti nove casi di donne che mi hanno chiesto un colloquio per essere aiutate a superare un momento di difficoltà, di confusione, di incapacità a prendere decisioni (esattamente queste sono state le loro richieste di aiuto), pur nella eterogeneità delle situazioni contestuali, dell’età chiaramente plurigenerazionale (da ventitré a cinquantotto anni), del livello di istruzione, di ruolo sociale, lavoro, copione di vita, temperamento, progetto di vita, sogni, esperienze pregresse,  il nodo problematico per ognuna delle protagoniste si aggruma e si concentra su una confusa e pungente insoddisfazione rispetto alla relazione con il partner. Che sia il fidanzato, il compagno della vita, un nuovo compagno, da poco tempo o da anni, la donna ha deciso di chiedere aiuto perché si sente non compresa, esclusa da lui in momenti importanti, in definitiva “sola” e insistentemente si chiede se quella relazione è davvero autentica, se davvero merita che sia coltivata e se, invece, sia meglio interromperla o lasciarla andare per riappropriarsi della propria vita che ora non sta vivendo a pieno in nessun momento della giornata, né in famiglia, né al lavoro e neppure nei pochi momenti di svago con gli amici. Sono donne che fino a qualche tempo fa si sono sentite “realizzate”, soddisfatte delle scelte compiute e dei piccoli ma importanti traguardi, del lavoro conquistato e che tuttora amano, delle relazioni interpersonali e sociali che sanno gestire, ma da qualche tempo persino al lavoro il loro modo di porsi è influenzato da emozioni e sentimenti di negatività. L’insoddisfazione della relazione con il partner insomma sta rischiando di compromettere tutto quel mondo di energia positiva che la donna amava e che era in grado di comunicare intorno a sé; l'insoddisfazione oggi mortifica persino le proprie motivazioni, le relazioni, quella voglia di migliorarsi, di apprendere, di conoscere ogni giorno che l’aveva sempre fatta sentire leggera e propositiva, aperta al cambiamento e al futuro. Ora le sembra che tutti quegli elementi gioiosi e gli stessi risultati ottenuti siano impoveriti e forse compromessi, da un’altra lei, svigorita e perplessa. Per questo chiede aiuto: per capirsi e capire come mai lui viva tranquillo, continui a minimizzare ogni giorno di più, continui a ripetere che quelli che lei lamenta non sono problemi perché, per lui, tutto va bene.

Appare evidente che la situazione non è interpretabile in base al grado di emancipazione della donna, né del raggiungimento o meno delle pari opportunità. Una situazione come quella che sopra ho delineato non si comprende alla luce di convinzioni generalizzate e stereotipi: né quelli che dipingono la donna nei ruoli di responsabilità come manager con le sembianze del capo-leader-uomo compresi atteggiamenti autoreferenziali quando non addirittura arroganti, né quelli che dipingono gli uomini perennemente immaturi, a dispetto di qualunque età anagrafica, maschilisti e mai disposti a farsi carico di responsabilità che esulino dai loro interessi. Ci sono certamente donne e uomini così e non sono neppure rari, ma le difficoltà emotivo-affettive dei casi suiindicati sfuggono a questi parametri. Siamo di fronte ad un problema estremamente più complesso, non attribuibile a incompatibilità caratteriali, a errate scelte o a volontà di sopraffazione dell’uno sull’altra; il problema in oggetto è sottile e penetrante come lama, un problema che, in assenza di eventi eclatanti,  mortifica e pesa sul clima relazionale della coppia con ritmi e intensità alterne, sempre più rare e brevi pause di rasserenamento, tentativi ingenui di ignorarlo immaginando che possa da solo risolversi e sparire. Il focus problematico è reso più importante proprio per il fatto che non si registrano episodi e fatti concreti su cui intervenire: il problema non è direttamente causato dai partners, è piuttosto l’effetto di sotterranee, sottilissime e potenti cause contestuali, dinamiche relazionali dettate dalla nostra società che ha sostituito all’essere l’apparire, alla realtà il virtuale, alla profondità l’immagine, alla condivisione la liquidità relazionale, una società che si nutre di paradossi e ossimori: non lascia spazio all’ascolto nell’euforico titanico sforzo di essere ascoltati.

Sono questi condizionamenti,  inconsapevolmente assorbiti, le vere cause per cui nella relazione di coppia accade ad un certo punto, per fortuite e diverse combinazioni di eventi, di avvertire quella sensazione di vuoto che inceppa un meccanismo che pure sembrava funzionare così bene. A lei (o a lui)che oggi sente la lontananza affettiva del partner, in passato, all’inizio della loro vita insieme, in qualche momento, è mai accaduto di avvertire come importante il crescere insieme, conoscersi e ri-conoscersi? Nessuna meraviglia se il problema oggi viene portato in figura solo da lei mentre il partner non se ne cura affatto; a riprova di questo, non mancano casi speculari, sia pure meno frequenti, in cui è lui che chiede aiuto, perché vive un’analoga situazione di isolamento nella coppia.

Non siamo di fronte ad una fase di quello che viene definito il ciclo della coppia né il punto è stabilire chi ha ragione e chi ha torto tra i due (non di rado è questo che ciascun partner chiede al counselor: che si schieri dalla sua parte, ma il counselor ha il ruolo di mantenersi sempre imparziale); nella coppia ciò che va curato e valorizzato è il noi, non io e non tu, bensì noi ed è questo che manca ripetitivamente nella coppia, oggi; è talmente esiguo e impacciato quel sottilissimo campo del noi (che vive sostanzialmente di reciproco ascolto) che nel momento in cui, durante il percorso di counseling la coppia si trova davanti al counselor, lui con naturalezza ammette che problemi non ne esistono tra loro: l’unico problema che guasta la relazioni è l’ingiustificata ansia di lei agli occhi di lui (analoga l’accusa di lei quando è lui che, in difficoltà, ha chiesto aiuto).

Al counselor in un percorso abbastanza breve (che tuttavia in qualche occasione si è protratto per sei mesi con colloqui ogni due settimane e ha richiesto incontri di monitoraggio mensili per altri quattro mesi) è affidato il compito dunque di aiutare i partners a prendere consapevolezza della qualità della relazione che li lega, della presenza o meno insomma di quello spicchio del noi tra l’io e il tu che è essenziale e dal quale dipende anche la reciproca autentica intesa nel linguaggio verbale  e nel linguaggio non verbale. Il counselor offrirà loro l’opportunità di provare come emozione e cognizione agiscano efficacemente quando operano in equilibrio; come non sia sufficiente protestare il proprio amore quando non si è in grado di conoscere l’altro o non si è fatto abbastanza per ri-conoscerlo; così ciascuno nella coppia  apprenderà la soddisfazione di vivere un processo complesso e continuo in cui le proprie convinzioni mediate dalla propria emotività saranno strumento reciproco di conoscenza  e comprensione, di crescita per entrambi.

Come sarebbe possibile aiutare queste coppie in difficoltà e, direi, ogni  persona in aiuto a gestire/risolvere la propria difficoltà se come counselor non abbiamo allenato la nostra conoscenza e le modalità di intervento su fenomeni culturali e sociali, sottesi, impliciti sotterranei e, proprio per questo, più fortemente condizionanti?

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

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