EMERGENZA EDUCATIVA: Gli adulti in stallo e la malapolitica

Inviato da Nuccio Salis

 

In un’epoca in cui sembra si fatichi sempre più ad assumere decisioni impegnative, cioè basate sullo sforzo e sul sacrificio, e quindi a preferire percorsi di economia cognitiva, parole come “etica”, “responsabilità”, solo per fare un esempio, risultano oramai come bandite ed accatastate come fossero del vecchio ciarpame di cui sbarazzarsi. Molto spesso, prendere decisioni che implichino costi personali, oltre che benefici, fa apparire tale strategia come una modalità perdente, in quanto in contrasto con l’imperativo attuale di massimizzare i profitti (materiali e non materiali) per se stessi o per il soggetto per cui si deve rendere conto. Il rischio, in una società pragmatista, fondata sull’ideologia dell’utile, è che si realizzi il motto machiavellico “il fine giustifica i mezzi”.

 

 In un contesto dove il raggiungimento dell’obiettivo prescinde dal metodo con cui si arriva a realizzarlo, l’onestà e la correttezza non solo vengono vilipese come norme portanti di nobili principi, ma diventano addirittura intralcio ed ostacolo allo scopo preposto. Tagliare il traguardo è il dettame perentorio che garantisce la sola salvezza e sopravvivenza. Nella fossa dei caimani non c’è spazio per la pietà ed i sentimentalismi, e chi se ne fa cogliere è certamente perduto, e da predatore può facilmente diventare predato.

In tutti i campi che interessa la relazione umana, soprattutto se circoscritta alla costruzione del gruppo con finalità produttive, si assiste ad un crescendo di cinismo, corruzione, uso screditato della maldicenza; pur di mettere fuori gioco il rivale, dissetare la propria avidità arrivistica e la propria ineffabile voglia di possedere un ruolo di supremazia. E proprio mentre si diffondono sempre più le conoscenze scientifiche sull’uso della comunicazione efficace, stampando libri, organizzando convegni, corsi, eventi di formazione e aggiornamento presso varie agenzie educative o diversi settori dell’industria e dei servizi, si erge a pieno compimento il motto hobbesiano dell’homo homini lupus. Ciò esattamente in linea con un altro curioso paradosso della comunicazione dei nostri giorni: più aumentano gli strumenti della comunicazione, meno si diventa capaci di comunicare! Succede quando i contenuti prevalgono sui processi, e ciò negli studi sulla comunicazione equivale a dire che la quantità informazionale prevale sulla qualità, cioè che la mole dei dati diventa invasiva, disgregante, difforme; una pioggia di input privi di coerenza testuale, destinati a menti  opportunamente addestrate ad assorbire in modo acritico e convergente. In questa circostanza, il rapporto con l’informazione va a vantaggio di chi se ne serve per suggestionare ed orientare la massa sempre all’interno di una cornice al di fuori della quale, tutto è percepito più che inusuale, addirittura anomalo, inconcepibile, deviante, e quindi rigettato per mancanza di strumenti elaborativi e concettuali più evoluti e sofisticati. Quindi, Il contenuto che ha maggiore pregnanza impressiva, scalza tutti gli altri, e prevale, impedendo così il ragionamento estensivo, favorendo la perdita del concetto di insieme, di complessità, relazione e interdipendenza fra i fenomeni. Ne consegue una lettura sociale depauperata e frammentata, in merito alla comprensione di ciò che ci circonda, ovvero, in estrema sintesi, cieca, incoerente, superficiale ed inesatta. La conseguenza di questa risultante è più che scontata: chi non comprende delega a un altro, cede la propria sovranità a un leader (religioso, politico ecc.), ad un esperto, a un cattedratico titolato investito di poteri taumaturgici. Così facendo, si sente tranquillo, qualcuno pensa e decide al posto suo della sua vita, e fa per lui anche il lavoro sporco. Questa compiacenza è premiata dalla collettività: nessuno lo irride o lo licenzia per aver sviluppato un pensiero proprio, o  per aver trovato una possibile connessione fra contenuti presentati per categorie scotomizzate.

Il sistema è concepito per favorire decisamente gli stupidi. Il pensiero che si declina oltre il “frame”, costruito dai mistificatori di professione, genera in automatico la repulsione da parte della resistenza conformista dei più, senza vi sia più il bisogno di eserciti o servizi segreti che “suicidino” il disturbatore.

In questo scenario allegorico, ciò a cui si assiste, giorno dopo giorno, specie da osservatori privilegiati come la scuola, è l’appiattimento sempre più marcato, da parte dei comportamenti dei giovani, verso le attitudini degenerate degli adulti.  Questi ultimi, molto spesso, specie se ne hanno la funzione, richiedono ai giovani onestà, rettitudine, senso del dovere, consegnando loro, di fatto, una società legata a doppia catena sulla logica del dominio, dove l’ideologia darwinista è applicata pedissequamente, per accettare che il pesce grosso mangi quello più piccolo, dimenticando che al genere umano è stato dato il dono della trascendenza, e che può trarre buon profitto dai suoi slanci pulsionali, sublimandoli nelle passioni e nelle forme espressive più raffinate.

È noto, in altre parole, come un sano rapporto educativo sia basato sulla coerenza del modello educante, che se non è perfetto è certamente perfettibile, quanto meno conscio dei suoi limiti e possibili errori. Il contesto che stiamo vivendo offre per la maggiore spazi diseducanti, oltre che diseducativi, proprio a causa di una evidente discrasia fra le richieste formative indirizzate ai ragazzi e il fenotipo dell’adulto medio contemporaneo.

 Visto il tipo di società che stiamo lasciando in eredità ai giovani, riempire loro di precetti infarciti di “buonsensismo”, è come impartirli di non fumare mentre ci si spipazza un cilindro di tabacco messicano, proprio di fronte a loro. Eppure questo tipo di comportamento è assai ricorrente, e l’ingenuità con la quale lo insceniamo è un palese sintomo di noncuranza del nostro più complesso atteggiamento, e di come molto spesso riusciamo a dimenticare o ignorare le più elementari regole della comunicazione. I ragazzi, infatti, poco ascoltano quello che diciamo, molto invece assorbono dai nostri comportamenti in vivo. È nota una teoria nella comunicazione interpersonale, secondo la quale se la nostra dichiarazione verbale è discrepante rispetto alla manifestazione non verbale con cui la accompagniamo, l’attenzione dell’interlocutore verterà su ciò che è verificabile nell’immediatezza, e non nelle parole. Non è un caso se abbiamo bisogno di fatti, se avvertiamo la necessità di reperire una testimonianza concreta , e se chiediamo prove tangibili, attraverso cui misurare il livello di fiducia da attribuire ad una persona.

La canzone con cui ci si lamenta dei giovani, della loro esistenza molto spesso dissoluta, alla quale non sanno danno valore, è un disco che tutti ci siamo sdoppiati e consegnati a vicenda. Bisognerebbe invece rendersi conto che lo sbando giovanile è la caricatura grottesca degli adulti, non molto più maturi dei ragazzi.

Quindi di chi sono le responsabilità della loro infelice condizione? Chi ha creato un contesto culturale che premia la mediocrità e il conformismo? Chi espone loro, continuamente, a un mondo confuso e che faticano a codificare, fatto di linguaggi assurdi e logiche incomprensibili?

Chi li lascia soli senza che riescano a dare un nome a quello che sentono? Chi lascia le loro insicurezze senza risposta, il loro disagio senza parola, la loro rabbia senza un contenitore? E chi, soprattutto, ha espropriato loro di un possibile scenario futuro in cui fosse possibile realizzare se stessi ed i propri desideri?

Quando si dice che abbiamo rubato loro i sogni e le speranze del domani, non si tratta di stucchevole retorica, è la stramaledetta verità, quella che di solito non piace a chi preferisce rimanere dentro una gabbia di vetro, ripiegando sul pappagallesco “verranno tempi migliori”, con cui si liquidano in genere i passanti che rallentano la corsa al supermercato.

Il guaio è che chi non sente di avere un avvenire, o comunque di non essere in grado di costruirsene uno, rischia di affondare in uno sterile nichilismo dentro cui, non avendo niente da perdere, ed ogni azione diventa lecita, in quanto non rappresenta più un investimento per il futuro, quanto piuttosto una fugace soddisfazione egoica dell’infinito momento presente. Gli stessi concetti di vita e di morte si ribaltano. Senza una linea temporale che dia un senso, che non sia meramente da associare ai giorni che passano, la vita non può avere un senso, di conseguenza nemmeno la sua interfaccia: la morte; per cui l’una vale l’altra, e ciò eccita in modo parossistico il gusto del rischio, della sfida, che fuoriesce dal concetto di “sicurezza”, che esattamente come “responsabilità” ed “etica”, toglierebbe il gusto al divertimento.

Quando in una società si deve far fronte a sopravvivere, che molto spesso per la nostra struttura complessa può significare ottenere la poltrona calda, ecco che l’indice di corruttibilità e di corruzione subisce un’impennata, ed ogni settore ne viene contaminato, a beneficio del mercato e della distrazione di massa. Così se nello sport chi arriva secondo è comunque un perdente, allora bisogna doparsi, per prendere il posto del capo-reparto è necessario defenestrarlo col mobbing,  per fare prima degli altri e ricevere il favore che ci aspetta ci si compra la laurea o la patente, e via discorrendo.

Di nuovo, il fine giustifica i mezzi: se il divertimento è il fine, legare un compagno di classe a un guinzaglio per cani e trascinarlo carponi intorno all’edificio, legittima lo scopo. “Lo abbiamo fatto per divertimento”, esattamente come fanno gli adulti che passano il tempo al botteghino incenerendosi lo stipendio a caccia del biglietto fortunato.

Loro sono noi, e noi siamo loro! Ciò che è dentro e fuori e ciò che è fuori è dentro. Si potrebbe citare questo come un concetto di pedagogia quantistica. Le nostre dipendenze sono le loro vulnerabilità, la nostra paura  è la loro angoscia. Questi siamo noi, adulti di oggi, guide cieche di ciechi, che cadiamo nella fossa insieme ai nostri giovani. Indifferenti verso chi ce lo fa notare, pieni di disprezzo verso chi sottolinea i nostri aspetti critici, cercando di sollecitarci al cambiamento, e non certo per muovere accuse infondate o gratuite. Ma non siamo ancora abbastanza forti da poterci permettere di convivere con la verità.

Per non parlare poi, delle sceneggiate edificanti offerte quotidianamente dalle tortuose trame di Palazzo, dove i mestieranti all’arte del raggiro sono i politici, noti e meno noti, coi loro impliciti messaggi quali: “cari giovani, non fate i compiti che vi assegnano, copiateli, siate assenti, date la colpa a un altro, alleatevi col più forte, usatelo fino a quando vi serve, siate forti coi deboli e deboli coi forti. Il senso dell’illecito è qualcosa di arbitrario, tanto i furbi la fanno sempre franca”

L’incuranza per la scuola, mostrata coi fatti dalla classe dirigente di ogni parrocchia, che senso civico potrà mai far maturare nelle nuove generazioni? .

Non basta più dire che non sono tutti così. Questo discorso non è più accettabile. Se mentre sguazzi nello sterco qualcuno ti informa che ci sono anche tracce di argilla, solo un beota ottimista pensa di costruirsi un salvagente di pongo.

E mentre l’orchestra del Titanic che affonda, suona la marcetta in attesa dei giorni migliori, c’è chi con le proprie piccole o grandi opere, cerca di salvare il salvabile, nel tentativo di offrire risposte abbastanza efficaci, promuovendo occasioni di riflessione e di scambio partecipativo, valore residuo altrettanto alieno di cui si sente molto la mancanza.

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