Scegliere la responsabilità. Attribuzione causale e locus of control

Inviato da Nuccio Salis

responsabileDall’esperienza di noi professionisti dell’aiuto, in merito al confronto e alla presa in carico di persone portatrici di bisogni speciali o richieste di sostegno, emerge con distinta chiarezza che le persone non progrediscono se non hanno maturato una profonda convinzione circa i propri obiettivi e le risorse che intendono mobilitare per poterli raggiungere e soddisfare. Il counselor non è un taumaturgo consolatore degli afflitti, ed egli non avrebbe nessun potere di influenza sul prossimo se non gli fosse concesso dalla medesima controparte. Un delicato nodo focale su cui fare leva è il principio di alleanza, che prevede un’attiva e consapevole partecipazione da parte dell’individuo che si rivolge a noi per una consulenza o per cominciare un percorso di crescita o prepararsi ad una svincolante direzione di cambiamento. Costruire la relazione, ammantarla di fiducia, accoglienza, garanzia di riservatezza e senso di protezione, è l’elemento che consentirà al facilitatore che sostiene l’evoluzione del soggetto, di generare un clima collaborativo, poiché la relazione è avvertita come sicura, protettiva e incondizionatamente accettante.

 

Nel rapporto di aiuto basato sull’ascolto e l’elicitazione di bisogni, quindi, è bandita ogni forma surrettizia di confronto, poiché tutto deve tendere all’espansione delle motivazioni e delle potenzialità dell’individuo, in termini di autonomia, libertà personale e decisionale. Affinchè si ottemperi in modo concordato verso questa direzione, è decisivo per l’appunto il contributo determinato e convinto della persona che usufruisce del nostro costruttivo ed attivante appoggio.

Ciascuno ha, naturalmente, il proprio livello di propensione motivazionale e quindi di tensione all’azione. Capita sovente, infatti, di ritrovarci di fronte persone con maggiori resistenze e rigidità di ordine sia cognitivo che emozionale; ovvero soggetti che si arroccano su posizioni ostiche e difensive, scegliendo una protezione di se passiva e paralizzante, dal momento che scorgono sentore di un possibile cammino di novità e cambiamento necessari.

Il fatto è che le persone vorrebbero cambiare lo stato delle cose senza che cambi nulla in loro. Vorrebbero una realtà asservita e gravitante in modo ellittico intorno ai loro desideri narcisistici ed egocentrici, superficiali e non in grado di rendere conto della solenne interdipendenza fra persona ed ambiente. Reintegrare la persona in un’ottica interdinamica fra l’Io e l’ambiente, è il fattore a cui fare precipuamente riferimento, dal momento che tale consapevolezza proietta l’individuo a riconoscere la sua ascendenza e la sua ricettività, quindi a pianificare le sue azioni secondo una direzione che sviluppi in se stesso la capacità di rendere conto delle sue azioni, per maturare un maggior controllo, una ritrovata assertività e dunque estendere le possibilità di riscatto personale e rivincita, in merito agli eventi della vita.

Implementare la complicità del referente con cui ci confrontiamo, è questa la strada da percorrere per sottrarsi al non trascurabile gioco invischiante che la Vittima cerca di mettere in atto nei confronti di un estemporaneo samaritano, in tal caso il counselor, che investito della figura del Salvatore opera miracoli a basso costo affezionale e con poco ed accettabile dispendio cognitivo.

Il professionista dell’aiuto è preparato a questo invito alle danze, e rispecchierà i dati di realtà, in congruenza alla sua autenticità interiore o, per dirla in termini transazionali, invierà al suo Ego Adulto la carica espressiva e la conseguente transazione con cui incrociare e dunque far decadere i vari tentativi inconsapevoli di pescaggio ad un inconcludente e stereotipo gioco di ruolo.

Il counselor sa che non opera miracoli, e se così fosse, al posto di uno studio riceverebbe in una grotta alle cui pareti vi sarebbe incastonata la sua statuina piangente. Il counselor , infatti, ha il compito di valorizzare e sollecitare le capacità latenti dell’interlocutore, e sa che se alla sua azione non si unisce la volontà dell’altro, il percorso dell’aiuto può essere oltremodo vanificato.

C’è un passo, nel Vangelo di Matteo, in cui viene descritto il discreto avvicinamento verso il Maestro Gesù da parte di una donna emorroissa che, fra la folla che aveva riconosciuto e stava acclamando Gesù, ne approfittò per toccare un lembo della tunica del Cristo. infatti, a un certo punto Gesù si volta e chiede: “Chi mi ha toccato il mantello?”, si volta e vede una donna accovacciata, sofferente, verso cui Egli si china e le domanda: “Sei stata tu, non è vero? Tu credi che io possa guarirti? Allora va, la tua fede ti ha guarita” [Mt 9,20-22].

Dunque, il counselor sa bene di non essere entrato nel suo ufficio appiccicato alle pareti del palazzo. Egli lavorerà sulla relazione per modellare ciascun interlocutore ad indirizzarsi verso un proprio progetto esistenziale, di cui si potrà entrarne in pieno e meritorio possesso soltanto dal momento che si riconosce di avere delle responsabilità. Parola calda ed altisonante, che facilmente evoca lo spettro di un impegno vissuto con fatica, dentro un ribaltamento di valori e credenze che si preferirebbe congelare.

Non tutte le persone attribuiscono anche a loro stesse la paternità di determinati eventi che le circondano. Scoprirsi e riconoscersi parti attive ed interdipendenti ci richiama alla possibilità di esperire se stessi superando l’ottundimento della propria coscienza, e questo può essere destabilizzante, soprattutto se si è abituati a ricercare il proprio nutrimento affettivo attraverso la compiacenza e il conformismo. Quello di cui bisogna tener conto, dunque, è la griglia di interpretazione di ciascun soggetto, che fa riferimento alle modalità attraverso cui ciascuno di noi ascrive l’origine causale degli avvenimenti. Tale attribuzione può essere infatti o esterna o interna, secondo il modello del Locus of Control proposto dallo psicologo americano Julian Rotter, negli anni Cinquanta.

Tramite questa matrice, che incrocia le due tendenze “esternalizzazione” ed “internalizzazione” alle personali imputazioni ed ipotesi causali sull’origine degli eventi, possiamo essere in grado di disporre di uno schema interpretativo sulle principale tendenze preferenziali dell’individuo, che comunicano al tempo stesso la modalità dei suoi costrutti e delle sue variabili personologiche.

La teoria di fondo è che le persone, per ogni evento, positivo o negativo che sia ritenuto, attribuiscono una causazione a monte che, a seconda che venga associata a se stessi piuttosto che a fattori esterni, inciderà sul piano delle ideazioni interpretative della realtà, modulando un atteggiamento piuttosto che un altro, con visibili riscontri comportamentali.

Le persone con locus interno tenderebbero dunque a spiegare l’indice dei propri successi o insuccessi a fattori primariamente derivati dal proprio atto di volontà e dalle proprie competenze trasversali. Mentre, le persone con locus esterno, concepiscono gli accadimenti della propria vita come conseguenze di fattori esterni non fra l’altro direttamente controllabili, legati cioè alla casualità, al destino, a un elemento fortuito o accidentale.

Naturalmente è possibile avere un incrocio variabile in merito alla polarità Positivo/Negativo; nel senso che è possibile riconoscere una causa interna a un evento positivo ed una esterna sullo stessa polarità di evento, e così via ottenendo tutte le altre combinazioni, che fanno riaffiorare la variegata moltitudine degli atteggiamenti umani.

Certo, la tendenza a legare alle cause esterne sia gli eventi positivi che negativi, può produrre le seguenti difficoltà rispettive, in primo luogo a non riconoscersi eventuali atteggiamenti influenti che hanno invece investito una parte significativa in merito ad un successo ottenuto e ad un traguardo raggiunto; e nel secondo caso a non caricarsi di responsabilità per evitare di sentirsi coinvolti in un modo ingestibile per l’immagine di se, poiché ci si sente impreparati dal momento che vengono violate le nostre sicurezze e le aspettative sulle conseguenze.

Pertanto, un atteggiamento di apertura, corroborato da pensiero divergente, creativo, dall’immaginarsi sotto altre possibili sfaccettature in termini di atteggiamenti da esporre, può rappresentare un principio di training efficace da effettuare nella convinzione che cambiare fa bene; che possiamo scegliere consapevolmente di abbattere le nostre resistenze e le nostre riserve mentali, sciogliendo e superando il tabù della felicità che attanaglia ed intrappola una gran moltitudine di anime, in questo mondo.

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