La scoperta del proprio “Modello Operativo Interno” (così come lo definisce la teoria dell’attaccamento già citata), è di per sé ancora poca cosa rispetto a tutto il percorso da intraprendere alla ricerca del proprio benessere, pur tuttavia questo poco è una consapevolezza indispensabile per poter andare avanti e per cercare coscientemente di modificarlo in modo funzionale per la propria vita. Recentemente ho potuto fare un’esperienza ancor più diretta di quanto il M.O.I. sia condizionante all’interno di ogni tipo di relazione instaurata: durante il seminario residenziale per gli allievi del terzo anno, organizzato dalla scuola di counseling e intitolato “Io, amo”, abbiamo analizzato, utilizzando il Genogramma, l’Analisi Transazionale e varie tecniche mutuate da diversi approcci, l’origine prima del nostro Modello Operativo Interno. Personalmente ho trovato particolarmente significativo un esercizio, la cui presentazione riporto interamente perché il leggerla più volte mi ha sostenuto nel riuscire a sentire, a più livelli dell’esperienza, che cosa mi stesse accadendo “qui ed ora” e quanto certi tipi di interazione, di aspettative, di transazione, abbiano condizionato pesantemente la mia vita di relazione in tutti gli ambiti.
Come tutto ebbe inizio:
Il mio Modello Operativo Interno
Torniamo con il ricordo e con l’immaginazione a quando eravamo bambini e cercavamo attivamente l’attenzione, la sicurezza, la protezione, il calore e l’approvazione delle figure adulte di riferimento. Stiamo naturalmente parlando di genitori reali ma, nel caso non ci fosse materialmente possibile riferire a loro i nostri ricordi, prenderemo in considerazione i genitori immaginati, quelle figure che abbiamo sognato, idealizzato, amato o odiato, delle quali magari abbiamo sentito parlare da altri.
E anche se li abbiamo materialmente conosciuti, frequentati, se ancora esistono in vita, entrambi o anche uno solo di loro, la distanza nel tempo degli eventi ai quali faremo riferimento è tale, che una quota di immaginazione e di idealizzazione rivestirà comunque il nostro ricordo di loro con noi bambini.
Ricordiamo e immaginiamo: quale è stata la loro relazione? Cosa si dicevano, come si comportavano tra loro, o meglio, quale è il nostro ricordo indelebile della loro relazione, reale o contaminato dalla nostra fantasia?
Cerchiamo di sintetizzare il rapporto tra i nostri genitori in uno scambio di battute tra loro, ricreando anche la reciproca postura che metaforicamente lo rappresenti e lo rafforzi oltre le parole.
Ripensiamo o immaginiamo quindi la nostra personale relazione con ciascuno di loro. Ripensiamo al nostro comportamento di attaccamento, al modo e alle strategie comportamentali che mettevamo in atto, nei confronti delle figure che abbiamo simboleggiato, per garantirci la soddisfazione dei nostri bisogni di sicurezza e amore. Ripensiamo alle richieste che facevamo a loro e alle risposte che ricevevamo; ripensiamo alle richieste che ci arrivavano da loro e ai nostri tentativi di rispondere.
Come ci sentivamo in queste relazioni? Ci sentivamo amati, accettati, speciali, oppure mai all’altezza, goffi, sotto pressione, sempre messi alla prova? Avevamo fiducia nel fatto che ci sarebbe stata da parte loro una risposta amorevole e rassicurante alle nostre richieste di aiuto, alle nostre difficoltà, oppure sentivamo in maniera molto chiara o confusa che sarebbe stato meglio fare tutto da soli?
Avevamo paura di deluderli o sentivamo di poterci esporre perché l’accettazione di noi era incrollabile, a dispetto degli eventi?
Li sentivamo presenti anche se e quando non c’erano? E se davvero non c’erano, quale messaggio ci ha lasciato la loro assenza? Quale relazione tra noi e i nostri genitori immaginati? Sintetizziamo in una battuta i pensieri che abbiamo fatto sulla relazione nostra personale con ciascuno dei nostri genitori e, anche questa volta completiamola con la postura simbolica più rappresentativa. Dopo aver sintetizzato in una serie di battute le interazioni sopra descritte, averle sentite e incarnate, prendiamoci un attimo di tempo per riflettere e formulare il nostro Modello Operativo Interno, cioè il modello simbolico, sintetico e complementare, che contiene una rappresentazione di noi stessi e dei nostri genitori in relazione reciproca. Un modello potrebbe essere, per esempio: “Per quanto io mi sforzi, non sarò mai abbastanza” o ancora “Mio padre ha abbandonato la mamma, e io sarò il suo sostituto”, “Sono buona, vado bene e posso sbagliare perché comunque sarò compresa e amata”, “Avrei dovuto essere un maschio per renderli felici e orgogliosi”, “Posso chiedere, avrò comunque attenzione, anche se la risposta sarà no”, “Sono degno di fiducia, non ho tutte le colpe del mondo, posso coccolarmi e essere rilassata”, “Non mi posso fidare degli adulti, non so mai quali saranno le loro reazioni …” e così via.
Scriviamolo sul nostro taccuino. Questo primo, parziale M.O.I. rappresenta il titolo provvisorio dal quale ha origine la nostra storia di vita relazionale. Tutto ha avuto origine da qui.
Ed è proprio vero, tutto ha avuto origine da qui... Il Modello Operativo Interno infatti è una rappresentazione mentale interna della relazione, un’immagine interiore che il bambino si forma nelle prime fasi della sua vita e che comprende un modello mentale del sé e un modello del sé con l’altro. Questa rappresentazione ha la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi da parte dell’individuo, consentendogli di fare previsioni e crearsi aspettative sugli eventi della propria vita relazionale, e lo fa filtrando ogni informazione in entrata, elaborando le informazioni in uscita e innescando processi di percezione selettiva, in modo totalmente inconsapevole per l’individuo che non lo sappia riconoscere. Le rappresentazioni interne intervengono sui processi di elaborazione delle informazioni e influenzano la costruzione delle nuove esperienze, ovvero spingono l’individuo a ricercare attivamente, seppur inconsciamente, persone, situazioni e relazioni che corrispondano alle sue aspettative affettive, cioè che confermino, e quindi rinforzino, le sue credenze iniziali, quelle che si sono andate sviluppando durante le relazioni primarie. Questo avviene per un bisogno di coerenza dell’individuo, che seleziona solo le informazioni congruenti con le proprie aspettative, aspettative solitamente molto difficili da modificare!
La Tabella che segue è una esemplificazione che può aiutare a meglio chiarire questo concetto, delineando la relazione tra i diversi stili di attaccamento e i Modelli Operativi Interni che si sviluppano in conseguenza dell'attaccamento, distinguendo le aspettative dell'individuo rispetto all'esito delle relazioni, rispetto al Sé e l'Altro, e rispetto alle strategie che metterà in atto in risposta alle proprie credenze.
Modello Operativo Interno | |||
Modello diAttaccamento | Esito della relazione | Il Sé e l'altro | Strategie |
Insicuro/evitante | Si attende un rifiuto, l'altro é svalutato | Sé: variabile Altro: inaccessibile |
Allontanamento e distacco |
Sicuro | Certo e positivo | Sé: positivo Altro: tendenzialmente positivo |
Alternanza fra vicinanza e allontanamento |
Insicuro/ ambivalente | Incerto | Sé: sarò accettato se saprò farmi amare Altro: imprevedibile |
Vicinanza serrata o manipolazione |
Disorientato/disorganizzato | L'incontro é minaccioso | Sé: asse forte/debole Altro: asse spaventato/spaventante |
Fuga, attacco, congelamento |
E in tutto questo la famiglia potrebbe essere il luogo dove l’individuo impara, sin da piccolo, a trovare amore e comprensione e supporto, anche quando tutto il resto fallisce, dove possiamo essere ristorati e sostenuti e ricaricati per affrontare più efficacemente il mondo esterno. E’ necessario che, per ogni singola persona, si creino le condizioni affinché, come afferma C. Rogers, si possa liberare quella tendenza attualizzante che guida il bambino prima e l’adulto poi verso la piena autorealizzazione, il che implica che la famiglia e la comunità umana in cui siamo chiamati a vivere, sappiano essere realmente accoglienti e solidali, capaci di assumere come prioritario il compito di promuovere e sostenere lo sviluppo umano. In altre parole è indispensabile che ad ogni persona sia offerto ciò di cui ha bisogno e cioè un intervento che sia mirato alle sue proprie caratteristiche personali che sono sempre diverse da quelle di chiunque altro.
In famiglia si dovrebbe poter mostrare tanto il proprio dolore quanto la propria gioia, l’amore quanto la disapprovazione nei confronti di qualche avvenimento, non si dovrebbe aver paura di correre rischi perché tutti nella famiglia dovrebbero poter capire che alcuni errori sono legati al fatto di voler fare delle scelte a titolo personale e che queste scelte sono soltanto segno di crescita.
A seguito di tutte queste riflessioni ho pensato, e così vorrei concludere questo capitolo, a come vorrei che fosse la mia famiglia e a come mi piacerebbe essere all’interno di quella famiglia che già c’è e che verrà, anche se a volte è ancora molto complicato, anche se a volte continuo a ripetere con il mio compagno gli stessi errori di una vita, gli stessi che i miei hanno fatto con me, perché lo guardo utilizzando il mio metro e i miei parametri di riferimento, perché vorrei che avesse il mio stesso punto di vista quando in realtà lui ha il suo perché è una persona unica e meravigliosamente altra da me! Vorrei allora terminare questa piccola parte con una presa di consapevolezza e un’assunzione di responsabilità che Carl Rogers ha espresso così bene anche per me: “...sono arrivato a rendermi conto che l’alterità della singola persona, il diritto cioè che ciascuno ha di interpretare come crede la propria esperienza e di trovare in essa i propri valori, è una delle potenzialità più preziose della vita. Ogni persona è un’isola in se stessa, e lo è in senso molto reale, e può gettare dei ponti verso le altre isole solamente se vuole ed è in grado di essere se stessa. Così trovo che quando posso accettare un altro, quando posso cioè accettare i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti, le sue opinioni come parte reale e vitale di lui, l’aiuto a diventare una persona e ciò mi sembra abbia un grande valore” (Rogers, 1970).
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