Il futuro non è più quello di una volta


            

“Il futuro non è più quello di una volta”

 

A Roma, nel 2011, per un incontro alla John Cabot University, Mark Strand (1934-2014) ricordò il senso di quella frase, che compare spesso anche sui muri della Capitale,  con queste parole:

“La frase, il futuro non è più quello di una volta, a Los Angeles l’hanno messa su un cartellone grandissimo, tipo pubblicitari. Quella poesia l’ho scritta ai tempi della guerra in Vietnam.

A che punto è il futuro oggi? Dove e come è sempre stato, e sempre sarà.

Il futuro è un’aspettativa.

 

Ma oggi le aspettative sono ai minimi storici, ce ne sono molte per l’avanzamento della tecnologia, meno per l’anima. Steve Jobs crea più aspettative del Papa, ma più avanza la tecnologia più è importante la necessità di salvarsi spiritualmente. Chi ci salva da Steve Jobs?” (http://criticalmastra.corriere.it/)

           Dunque le nuove tecnologie non cambiano soltanto il presente, cambiano, anzi già hanno cambiato anche il futuro e il parametro con cui ne traiamo affannata consapevolezza è un dato di fatto incontrovertibile: le nuove tecnologie che hanno ampliato a dismisura bisogni ed esigenze, attese di novità, di avere, di potere, di visibilità … hanno drasticamente ridotto un preciso tipo di  aspettative, quelle che sole sono in grado di dare senso e qualità alla nostra vita.

Ne abbiamo tutti percezione e consapevolezza, per quanto epidermica, talvolta ce ne lamentiamo, ma i richiami di questo mondo  mediatico sono così suadenti che non ce ne curiamo più di qualche istante e torniamo ad ingrossare le fila dei forzati stressati frettolosi utenti di …tutto.

Carlo Bordoni, nell’articolo Le nuove tecnologie e l'umanità (Prometeo, giugno 2019), afferma: “Il destino dell'uomo è segnato dalla tecnica. Del resto era già scritto nel DNA fin dalle origini. È riduttivo pensare che la tecnica sia un'acquisizione recente dell'evoluzione, uno strumento successiva adottato per potenziare la forza delle mani umane. Come avevano ben compreso i popoli dell'antichità, la téchne è inerente all'uomo, è parte inscindibile del suo stesso essere. […]L'uomo non sarebbe l'uomo senza la tecnica: è una questione di sopravvivenza, non un'opzione. Dipende dalla debolezza degli esseri umani di fronte alla natura, dalla loro mancanza di difese. Quell'uomo così fragile — «l'animale non ancora stabilmente determinato», come l'ha definito Nietzsche, è destinato a restare tale e a ricercare in una tecnologia sempre più raffinata il suo perfezionamento. Permanentemente insoddisfatto, poiché l'avverte come qualcosa di estraneo alla sua natura, ma sempre più condizionato da uno sviluppo inarrestabile che rischia di sfuggire al suo controllo. La tecnica e la sua applicazione, fin dall'acquisizione della scrittura — potente tecnologia, secondo Walter Ong, in grado di modificare il cervello umano — rappresentano un innegabile beneficio per l'umanità, ma anche la sua maledizione. Il rischio, come ormai cantano tutte le Cassandre dai quattro angoli del mondo, è che l'affidamento progressivo alle tecnologie più avanzate, rompa il difficile equilibrio — instabile, certamente, ma finora resistibile — tra l'umano e l'artificiale, e che in futuro la prevalenza di un Homo Technologicus possa tradursi in una perdita delle caratteristiche più squisitamente umane: la fusione dell'uomo con la macchina?”

Umberto Galimberti prosegue la riflessione formulando un’iquietante ipotesi sul rapporto tra nuove tecnologie e comunicazione in “Se le nuove tecnologie rendono inutile comunicare” (ibidem, pagg. 46-47):

“Il sospetto è che la sempre più massiccia diffusione dei mezzi di comunicazione, potenziati dalle nuove tecnologie, abolisca progressivamente il bisogno di comunicare, perché nonostante l'enorme quantità di voci diffuse dai media, o forse proprio per questo, la nostra società parla nel suo insieme solo con se stessa.

Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque.

In questo senso è possibile dire che la diffusione dei mezzi di comunicazione, che la tecnologia ha reso esponenziale, tende ad abolire la necessità della comunicazione.

Qui non si tratta di enfatizzare o demonizzare le enormi potenzialità presenti e future dei mezzi di comunicazione, ma di capire come l'uomo profondamente si trasforma per effetto di questo potenziamento. Allo scopo è necessario far piazza pulita di tutti quei luoghi comuni, per non dire idee arretrate, che fanno da tacita guida a quasi tutte le riflessioni sui media, e in partico-are a quella persuasione secondo la quale l'uomo può usare le tecniche comunicative come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, senza neppure il sospetto che la natura umana possa modificarsi proprio in base alle modalità con cui si declina tecnicamente nella comunicazione. L'uomo non è qualcosa che prescinde dal modo con cui manipola il mondo, e trascurare questa relazione significa non rendersi conto che a trasformarsi non saranno solo i mezzi di comunicazione, ma, come dice McLuhan, l'uomo stesso. Infatti la radio, la televisione, il computer, il cellulare ci plasmano qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo, perché una trasmissione televisiva edificante e una degradante, per diversi che siano gli scopi a cui ten-dono, hanno in comune, come osserva Anders: <il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto la sua immagine>(2003). Il "mezzo", indi-pendentemente dallo "scopo", ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento. Questa condizione, che vale per la televisione, vale in maniera esponenziale per internet dove il consumo in comune del mezzo non equivale a una reale esperienza comune. Ciò che in internet si scambia, quando non è una somma spropositata di informazioni, è pur sempre una realtà personale che non diventa mai una realtà condivisa. Lo scambio ha un andamento solipsistico dove, come vuole la metafora di Anders, un numero infinito di "eremiti di massa" comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l'uno dall'altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo sui picchi delle alture. E così, sotto la falsa rappresentazione di un computer personale (personal computer), ciò che si produce è sempre di più l'uomo di massa, per generare il quale non occorrono maree oceaniche, ma oceaniche solitudini che, sotto l'apparente difesa del diritto all'individualità, producono, come lavoratori a domicilio, beni di massa e, come fruitori a domicilio, consumano gli stessi beni di massa che altre solitudini hanno prodotto. Tutto ciò non dipende dall'uso che facciamo dei mezzi, ma dal fatto che ne facciamo semplicemente uso, per cui non gli scopi a cui sono preposti i mezzi, ma i mezzi come tali trasformano l'immagine in realtà e la realtà in fantasma. Così i mezzi di comunicazione digitali, indipendentemente dall'uso che ne facciamo, ci portano gli avvenimenti in casa dispensandoci dall'andare verso di loro.

Ciò trasforma il nostro modo di fare esperienza. La rivoluzione ha del copernicano, perché il mondo non è più ciò che sta, ma a stare (seduto) è l'uomo, e il mondo gli gira attorno, capovolgendo i termini con cui, dal giorno in cui è comparso sulla terra, l'uomo ha fatto esperienza. Le conseguenze non sono da poco perché, come avverte Anders, buon rilevatore di queste trasformazioni: se il mondo viene a noi, noi non "siamo-nel-mondo" come vuole la famosa espressione di Heidegger, ma semplici consumatori del mondo. Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma. […] Inutile dire che in questa condizione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si riduce, fino ad annullarsi, lo spazio della libertà e il bisogno di interpretazione. Perché i mezzi di comunicazione, se ci mettono in contatto non con il mondo, ma con la sua rappresentazione, se ci consegnano una presenza senza respiro spazio-temporale perché rattrappita nella simultaneità e nella puntualità dell'istante, se modificano il nostro modo di fare esperienza, avvicinandoci il lontano e allontanandoci il vicino, se ci familiarizzano l'estraneo e ci forniscono i codici virtuali per l'interpretazione del mondo reale, i mezzi di comunicazione ci codificano e producono delle modificazioni nell'uomo indipendentemente dall'uso che se ne fa, qualsiasi sia lo scopo per cui li impieghiamo, e ancora prima che assegniamo ad essi uno scopo. […]

 

           È realtà molto frequente che ci si senta coinvolti, provati, avviliti, come risucchiati nella rete da un intricato sviluppo di messaggi, confronti, info e foto, di amici e nemici.

Quando accade,   grande è la responsabilità del counselor per condurci a riacquistare o finalmente assaporare una maggiore autonomia e uno spicchio di libertà a cui, senza accorgersene, abbiamo progressivamente rinunciato, aiutandoci ad osservare con altra prospettiva ogni tassello di tante inefficaci e vuote relazioni che, concentrate su segmenti e attimi di presente, ci privano del Ben-Essere nel qui e ora, modificano e alterano le nostra identità, mutano e assorbono il nostro futuro. Il counseling è l’accesso privilegiato per comprendere che il futuro è nell’equilibrio tra tecnologia e fattore umano.

           Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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