IL PREGIUDIZIO COME STRUMENTO DI LAVORO. Questioni etiche e metodologiche del counselor-persona

Inviato da Nuccio Salis

pregiudizio

Il counselor deve forzatamente accantonare i propri pregiudizi nel corso della sua attività in vivo, oppure fingere comodamente di non averne ed autoconvincersi di averli superati, o ancora può anche appellarsi all’opzione di disvelarli e farne un vero e proprio strumento tecnico nel bagaglio delle sue strategie operative?

 Potrebbe questa sembrare una posizione atipica, provocatoria e non del tutto in linea con l’operato del counselor e della disciplina che ha abbracciato.

Con l’autorivelazione dei propri pregiudizi, il counselor dichiara a se stesso e al cliente, nella complessa dinamica relazionale che contribuisce a gestire, che l’assenza del pregiudizio e la presunta obbiettività dello sguardo del professionista sono soltanto semplificazioni illusorie. La realtà prevede piuttosto che ogni counselor  agisca il più possibile secondo una modalità che auspica l’assunzione di consapevolezza in merito alla presenza di schemi preconcettuali formatisi durante la propria esperienza, nonché la conoscenza procedurale di tali meccanismi e il tentativo in training di promuoverne un ideale superamento. Tuttavia, tale condizione non può che rimanere all’interno di una cornice piuttosto approssimata che delinea la destrutturazione completa del pregiudizio, quasi a bonificare l’intera personalità dell’operatore. Il processo è però assai più complicato rispetto a come può essere descritto, e in linea esperienziale accadrà con tutta probabilità che anche la mente più allenata ricomincerà a ri-strutturare schemi rappresentativi e di attribuzione di valore verso gli elementi della realtà osservati. Pare che questo percorso di ricostituzione di costrutti di significazione risponda a un bisogno umano intrinseco di orientamento e stabilità nella comprensione di ciò che accade al di dentro e al di fuori di sé.

Nemmeno il counselor potrà dunque sfuggire a questa naturale propensione che concerne la ricerca e il reperimento di coordinate abbastanza sicure e sufficientemente prevedibili finalizzate ad individuare percorsi, ascrivere il senso delle proprie scelte e dei propri obiettivi, generare opinioni salde e robuste mediante le quali interpretare e spiegare a noi stessi la validità della nostra esperienza in divenire.

La posizione di neutralità è una mistificazione che sottrae umanità al counselor, e che lo proietta in modo del tutto irreale dentro una falsa identità percepita come scevra dall’errore e non suscettibile di fallibilità. In pratica, se il cliente non ha sempre ragione, nemmeno il counselor ce l’ha.

Fin dagli inizi del suo percorso formativo, il counselor dovrà incontrare anche quel mondo esperienziale interno forse fino a quel momento ignorato ma inconsapevolmente ricercato, soprattutto per nel tentativo di comprenderlo e ristabilire un ordine di senso secondo la propria volontà e gli indirizzi di un nuovo agire o modalità di essere.

Infatti il problema non consiste nella naturale e inevitabile presenza e comparsa dei pregiudizi, quanto nella prospettiva illusoria di non averne o di averli dissolti, o peggio ancora nell’ignorare del tutto la loro funzione e la forza con la quale suggestionano le nostre scelte e determinano la qualità interpersonale dei nostri incontri ed esperienze sociali.

L’approssimazione concettuale che sottostima la permanenza di strutture di pregiudizio nella figura del social worker, è dovuta ad una impostazione teorico-operativa secondo la quale lo specialista può svolgere rigorosamente il proprio ruolo soltanto se affrancato da preconcetti, poiché questi sono in grado di contaminare la relazione counselor/cliente declinandola secondo i parametri scelti preventivamente dal professionista e non dalla persona portatrice della richiesta di aiuto. Se tale principio compare piuttosto funzionale da una parte, le sue estreme conseguenze bloccano invece al counselor (e come ricaduta nell’interesse del cliente) la possibilità di aprire un continuo dialogo interno con i suoi schemi precostituiti, dal momento che, realisticamente, l’approccio più saggio e corretto potrebbe proprio consistere nel prendere atto dell’impossibilità di una condizione totalmente vergine ed asettica dal pregiudizio, e ciò coinciderebbe con l’impegno, da parte del professionista, di ammettere che al massimo egli si potrà impegnare in una relazione di aiuto dentro la quale applicare il più possibile uno sguardo sospeso, disincantato e pronto ad accogliere l’inedito e l’ignoto, con la consapevolezza che anche il vissuto sperimentato all’interno del setting sarà poi misurato sulla base delle proprie convinzioni e credenze, in una combinazione complessa fra valori personali e paradigmi scientifici di riferimento. Forse può essere questo l’atteggiamento più realistico e più vicino a un modo di operare costruttivo e capace di fare perfino del pregiudizio una possibile risorsa da investire nel percorso di crescita e trasformazione, piuttosto che immaginare in modo del tutto illusorio di non possedere più strutture considerate sempre disfunzionali e improprie.

Tali conclusioni, forse, sono da associare molto probabilmente alla logica del dogmatismo binario, secondo la quale una cosa o è bianca oppure è nera, e quindi ciascun oggetto di studio è già condotto dentro un piano di radicale oppositività con il suo contrario che sembra contrastarlo. Una prospettiva antinomica che per molto tempo (e in molti casi ancora oggi) ha dominato il paradigma scientifico, sottraendo spazi di confronto, di dialettica e di aperta ricerca, a detrimento della capacità di comprendere più a fondo, perché in violazione di quei precetti e requisiti fondamentali che caratterizzano un approccio orientato alla conoscenza ed alla sua corretta divulgazione.

Pregiudizio è anche pertanto collocare l’idea di neutralità da parte del counselor, dentro un più ampio concetto di non coinvolgimento empatico, sempre secondo la limitata logica antinomica degli opposti. Tuttavia la neutralità, così ammortizzata da una consapevolezza circa l’impossibilità e la non funzionalità di un pieno raggiungimento della stessa, si rivela come una necessaria risorsa da spendere dentro la relazione counselor/cliente, perché da una parte certifica l’impegno da parte del professionista di dirigere e conservare il più possibile uno sguardo e un atteggiamento accogliente, e dall’altra assicura la compresenza congiunta di una irrinunciabile propensione empatica che definisce lo spessore qualitativo della relazione di counseling.

Pertanto sembra a questo punto una scelta corretta, sostenuta anche da una parte della comunità degli operatori di aiuto, palesare qualora fosse necessario i propri pregiudizi, specie in quei casi in cui il counselor si trovi di fronte a categorie di persone verso le quali si orienta proprio tramite i suoi pregiudizi, costruiti dalle sue personali dinamiche esperienziali.

Una delle personalità più note nell’ambito del counseling e della psicoterapia alla famiglia, che risponde al nome di Salvador Minuchin (1921 – 2017), sosteneva l’importanza di affermare a se stessi con quali categorie di persone si sarebbe evitato di lavorare, connotandosi con sincerità e trasparenza anzitutto agli occhi di se stessi, dal momento che egli, per esempio, riconosceva e affermava di non poter prestare il suo servizio verso chi avesse praticato la tortura verso i suoi simili.

In corrispondenza speculare all’esplorazione dei pregiudizi altrui, sarebbe utile anche chiedere, secondo quanto indicato da altri approcci e modalità, come il cliente possa sentirsi e stare nella relazione dal momento che l’helper che eroga la risposta di aiuto appartiene ad una categoria diversa da quella dal cliente (es: counselor occidentale e cliente africano immigrato, counselor maschio e cliente donna con storia di abusi, counselor anziano e cliente molto giovane prodigo ad atti di ribellione contro le vecchie generazioni). Indagare l’elemento della ‘relazione’ da parte del cliente è pertanto una necessaria abilità da parte del portatore di aiuto, che testa ed osserva le reazioni e la sensibilità della persona accolta nel suo spazio di ascolto.

Anche tale quesito, in conclusione, risponde a quel bisogno di indagine e ridefinizione approfondita rivolte a un sempre maggior completamento e inquadramento dello statuto etico del counselor e di ogni professionista del lavoro sociale, affinchè ciascuna azione pianificata possa corrispondere a criteri di efficacia nell’ambito di un’azione dell’aiuto realmente tesa ad agevolare e favorire la crescita o il recupero delle abilità di autonomia di ciascun individuo portatore della domanda di aiuto.

 

Nuccio Salis

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