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Siamo ancora in grado di pensare il futuro?

Inviato da Giancarla Mandozzi

Siamo ancora in grado di pensare il futuro?

 

L’insicurezza del presente lascia predominare il pessimismo. Abituati a tre secoli di pensiero positivo, l’incapacità d’immaginare il domani ci annichilisce, spegne le speranze e la volontà di agire. Da queste considerazioni muove l’invito a rivedere il destino dell’uomo e costruire un nuovo umanesimo. (Carlo Bordoni, marzo 2020)

 

Da quando l’umanità si è votata alla ragione, facendone il suo principale strumento di conoscenza, l’idea di futuro è collegata a quella di progresso; la ragione ha preteso di controllare la realtà, ciascuno di noi ha creduto di poter tenere sotto controllo la vita propria e (perché no?) l’altrui, di prevedere le conseguenze secondo un principio di causalità come se tutto ormai fosse già inventato, acquisito; una fiducia nel razionale che ha portato a concepire una fine della storia.

È così che progressivamente ci siamo abituati a cancellare perfino l’idea di progresso e a temere il futuro come regressione. Per Edgar Morin, è necessario superare i limiti della razionalità umana e pensare globale, cioè tenendo ben presente la complessità dell’essere umano, la sua individualità e anche il suo essere sociale. Se è vero infatti che la complessità non elimina, anzi  incentiva le incertezze, è tuttavia preziosa  per renderci consapevoli di quanto danno porta la presunzione di conoscere la totalità.

La diversità dell’espressione umana è ineluttabile. […] Sull’altare di pratiche comunicative spacciate come globali, un rigido monolinguismo è perseguito. […] Le facili e veloci generalizzazioni appartengono sovente al tipo più pericoloso di fraintendimento, quello mascherato da comprensione.

Oggi, si ha la sensazione di trovarsi immersi in un presente permanente, fluido indeterminato. Da tale presente, quasi per obbligo, lo sguardo è rivolto al futuro, calamitoso o prospero, qui non è importante rilevare, ma sempre come se tale futuro fosse mera estensione del presente. Uno sguardo siffatto è privo della consapevolezza del tempo.

Una consapevolezza del tempo si fonda sopra una conoscenza se non profonda, certo fortemente partecipata, fortemente vuìissuta del passato. È il passato che colloca nel tempo il presente; è in funzion del passat che il presente appare per ciò che è: non un tempo assoluto, ma un momento di un processo umano inesausto. Del passato, oggi si è però ritenuto di decretare la fine, per il limite umano, l’esperienza del passato è, in massima parte, un’esperienza mediata da studio e da applicazione intellettuale. Oggi i  valore di tale esperienza è negato e l’opportunità di farla tende a ridursi, perché meramente esornativa, persino in istituti, come quelli preposti alla formazione e all’istruzione delle giovani generazioni. Tuttavia anche il nostro presente, che pure si ostina a negarlo, diventerà anch'esso, come altri,  presto o tardi un passato diverso, difficilmente comprensibilee arcano anche a questo preente “smart” con la globalità impositiva e l’illusoria chiarezza della sua espressione. (Nunzio La Fauci, in Prometeo, marzo 2020, pag.127)

Il futuro muore ogni volta che si verificano eventi inattesi e oggi con estrema chiarezza ce ne rendiamo improvvisamente conto: il presente che ci attendevamo è svanito e abbiamo scoperto le nostre multiple fragilità nell’anima, negli affetti, nel sociale, nel ruolo, nella condizione economica… Per  quanto il presente così diverso da quanto ciascuno si attendesse, sia innegabilmente esito di scelte o di negligenze pregresse di noi esseri umani, oggi per la prima volta forse questo nesso ci è balenato davanti agli occhi e il risultato è il non essere in grado di  immaginare il futuro. Già da tempo avevamo smarrito questa capacità creativa (estremamente dolorosa nelle nuove generazioni, il cui futuro si arresta al limitare del fine settimana o poco più in là), e infatti ce lo configuravamo come una sorta di replica positiva del presente, ma oggi, agitato e disconnesso il presente, riusciamo solo a dirci che il futuro sarà “diverso”, non ci è dato avere lumi su come e con quali prospettive, se non mutuate da ipotesi fantascientifiche.

È ancora Edgar Morin che può sostenerci in questa difficile strettoia:

-riconoscere che quando il sapere raggiunge livelli elevati allora sorge il dubbio, si incrina la certezza di una conoscenza assoluta, anzi l’unica certezza è data dall’incertezza di ogni sapere: il sapere porta al non-sapere e le conoscenze si evolvono incessantemente, spesso contraddicendo o modificando quanto sembrava già attestato

- riscoprire che il  nucleo della nostra esistenza è l’organizzazione generata da interazioni e relazioni reciproche, così che la crisi e ogni crisi così definita in  rapporto alla stabilità (normalità?) e dunque anche quella che stiamo vivendo prevede una nuova modalità, perché possa essere affrontata: l’accettazione e la presa di coscienza di un mutamento epocale che porterà ad un nuovo equilibrio, quello che noi sapremo ritrovare in noi stessi. (liberamente tratto da Carlo Bordoni, in Prometeo, n.149, pagg. 6-13).

Ancora una volta il prendersi cura della globalità dell’essere umano nella sua realtà cognitiva ed emozionale, agevolando l’avvicinarsi al proprio equilibrio interiore ci suona come elemento fondante, strutturale del counseling, opportunità di sapore pragmatico, relazione di aiuto in ambito della salutogenesi.

Cordialissimamente

Giancarla Mandozzi

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