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tornare alla “normalità”?

Inviato da Giancarla Mandozzi

 tornare alla “normalità”?

          

Per molti è l’impegno  prioritario da assolvere nel più breve tempo possibile per sé e per l’economia, per il mondo intero, per le nuove generazioni, per il futuro; è la voce prevalente sulle tante che si affastellano in rete e che chiedono l’attenzione di noi ancora increduli e come in apnea se pure fortunatissimi a non essere stati colpiti né i nostri cari dall’immane evento.

Fortemente diffusa/indotta è la speranza che si possa tornare alla normalità, al mondo come era prima, a quei ritmi di vita, che si possa ri-guadgnare il tempo perduto e autorevoli carismatici personaggi si arrischiano persino a fare previsioni, come Bill Gates per il quale il ritorno alla normalità è ancora lontano e per riprendere le vecchie abitudini e tornare a un mondo pre COVID-19 ci vorranno ancora uno o due anni. Che poi aggiunga: “Questo virus va a interferire in un numero talmente grande di settori causando così tanti danni economici e disturbi di tipo mentale che a fatica riusciamo a immaginarne la portata” (intervista al quotidiano francese Le Figaro, aprile 20), parole che lasciano intravedere una vastità di problemi addirittura inimmaginabili , viene sottaciuto come fosse un dettaglio trascurabile.

Da counselor non ci è dato meravigliarcene; abbiamo ben presente quanto potente sia quella specie di automatismo con cui la nostra attenzione seleziona da ciò che udiamo (e viviamo) solo ciò che appaga un nostro bisogno e oggi il nostro più grande bisogno è trovare un elemento di stabilità, è necessità impellente di intravedere uno scenario rassicurante, dopo mesi di incertezze e impotenza che temiamo si protragga ancora a lungo.

Pur giustificabile e comprensibile questa intima e forte necessità, non ha il potere di spazzare via i problemi che l’evento ha così platealmente agitato e sono problemi di diversa natura, toccano la nostra emozionalità; la paura che proviamo azzera o quasi la nostra pur allenata capacità di concentrazione, di restare calmi e razionali, allerta un riflusso verso noi stessi in una sorta di egocentrismo che ci intorpidisce e dal quale a tratti ci distoglie l’amara consapevolezza di esserci esclusi da tutto e tutti e di aver lasciato anche gli affetti fuori dalla nostra vita. Percezione per molti del tutto nuova che apre una condizione che mai avremmo pensato ci appartenesse e che mette in crisi la convinzione che ingenuamente nutrivamo di essere aperti alla solidarietà e inclini ad aiutare l’altro. Ci scopriamo così presi da noi stessi, da essere incapaci di rispettare le nostre responsabilità di adulti, di educatori, di professionisti. Ci guardiamo intorno e non vediamo, non agiamo, non pensiamo perché l’immagine gigantesca che campeggia nella nostra mente è la fine del nostro mondo, quello che fino a poco tempo fa neppure ci sembrava perfetto, ma ora assume le caratteristiche quasi di un Eden. Può sembrare esagerazione, è invece soltanto una sintesi degli scambi molto frequenti in questi mesi con persone in aiuto, di sfohio e più spesso lamenti in colloqui telefonici, sms, email chilometriche.

Come sarà possibile tornare alla normalità per chi, come queste persone, ha conosciuto aspetti di sé che non immaginava, ha nutrito paure che l’hanno indotta ad irrigidirsi in un atteggiamento disperatamente individualistico (nonostante gli inviti pubblicitari a sentirsi tutti distanti e uniti) vissuto con pesante senso di colpa?

Che cosa è diventata la normalità per queste persone?

Che cosa è normalità per ciascuno di noi?

Se siamo educatori, non potremo certo ignorare che il fondamento della nostra relazione educativa è proprio quello di negare che esista la normalità perché ognuno di noi è comunque speciale, e dunque? Con normalità forse Intendiamo alludere alla fine dell’emergenza, al ritorno del mare calmo dopo una furiosa mareggiata? Il mare può tornare calmo, ma gli effetti devastanti della mareggiata restano e occorre provvedere con solerzia, migliorando e aggiustando perché in seguito i danni non si ripetano o siano meno rovinosi.

Concediamoci un’incursione in una trascorsa (e attuale) logicità:

Non di manco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla.

(Nicolò Machiavelli, Il Principe, Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum, Cap. 25).

Se la normalità non esiste semplicemente perché ognuno di noi la interpreta, di diritto, come crede opportuno, parlare di ritorno alla normalità che cosa potrà voler significare?

E se l’evento di oggi fosse quell’opportunità sferzante in grado di indurci ad  accettare il cambiamento?

Se fosse oggi il momento di disporci a quei cambiamenti che da tempo propongono ecologisti, studiosi che da decenni propongono un futuro all’insegna di una gestione sostenibile delle risorse, come le  foreste, che paventano una temibile variazione del clima, che  insistono sulla stretta relazione tra la salute del pianeta terra e l'uomo, la sua coscienza ecologica, i suoi comportamenti compresi quelli morali e politici? Tornare alla normalità allora sarebbe proposta di  continuare un percorso già noto di cui conosciamo voragini di fragilità, senza intervenire a modificarle.

Non v’ha dubbio che infinite situazione di grande criticità vadano risolte, a cominciare da quelle economiche, di privati cittadini in difficoltà e di aziende,  culturali (la scuola, l’anno scolastico 20-21, l’anno accademico 20-21…), sociali (la distanza relazionale interpersonale, innaturale alle nostre latitudini), la necessaria educazione digitale (perché non ci ritroviamo tutti schiavi della rete, anziché capaci di gestirne la sorprendente efficacia), e da quanto e come verranno risolte con strategie, strumenti e provvedimenti nuovi il nostro presente non potrà che essere diverso dal passato, da quella che abbiamo definito normalità. Sarà una normalità altra, diversa e auguriamoci  a misura di una vita umana un po’ più equilibrata.

È un dato inequivocabile che viviamo in una realtà complessa e questo implica, spiega, accetta il disordine; da decenni abbiamo lambito la consapevolezza dell’assenza di basi certe nella struttura del reale, non più data dall’ordine, ma dal disordine: Il problema della complessità è quello dei fenomeni non riducibili agli schemi semplici dell’osservatore. Si deve, dunque, supporre che la complessità si manifesterà all’osservatore, in primo luogo, sotto forma d’oscurità, d’incertezza, di ambiguità, ovvero di paradosso o di contraddizione” (Edgar Morin, 1974).

Potremo ancora definirle, quella antea e la nuova, “normalità”?

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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