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L’HOMO ELIGENS NELLA SOCIETÀ FLUIDA. Disagio o opportunità?

Inviato da Nuccio Salis

comunicare impossibile

Si parte da un’affermazione del noto sociologo contemporaneo Bauman, il quale ci fa capire come non sia possibile non scegliere. L’asserzione sembra ricalcare per analogia il noto primo assioma della scuola di Palo Alto e del team di Watzlawick, il quale concludeva che è impossibile non comunicare. Per entrambe le condizioni, dato il numeroso flusso di stimoli e di reazioni a cui siamo costantemente e incessabilmente esposti, inviare seppur involontariamente messaggi e optare per l’una o per l’altra soluzione, diventa lo status ineluttabile di chi si muove dentro il complesso traffico di relazioni e contatti promosso dall’attuale società complessa.

 

La nostra vità è fondamentalmente la risultante di una serie di scelte, il susseguirsi di una sequenza caratterizzata dall’aver posto in essere una catena di decisioni (più o meno razionali o ponderate, obbligate, all’apparenza fortuite o previste, azzardate, creative o connaturate da una combinazione mista di tali elementi). Questo processo, dovuto per l’appunto a una ininterrotta connessione di domande, ipotesi e opzioni percorribili, prosegue sia che i nostri interrogativi ed i nostri obiettivi siano congiunti a richieste esternamente prescritte, sia quando sono legati invece a procedure e finalità autonomamente selezionate e saggiate dalla nostra volontà che ci autodetermina.

Al di là del complesso e intricato coacervo di fattori che possono aver fatto maturare il processo e gli esiti delle scelte, sta di fatto la necessità di considerare l’entità umana come quella creatura attiva che costruisce se stessa in funzione dell’atto di scelta, e quindi del suo continuo impegno dentro un percorso che può prevedere la pianificazione strutturata volta al raggiungimento di mete identificate come lecite ed essenziali. Questo significa individuare una direzione percorribile verso qualcosa stimato come utile e realizzabile, quindi confacente a un ordine di bisogni e ad un piano di valori e obiettivi che ciascuno determina per se stesso.

Peraltro, sempre ispirandoci ai ragionamenti proposti e avanzati dal Bauman, egli propone un ulteriore interessante piano di riflessione: quando cioè sostiene che non esistono scelte, azioni e decisioni che non contengano anche le loro alternative. Questo significa che il piano di azioni che ciascuno strategicamente configura in funzione del suo personale tragitto, contiene al tempo stesso la potenzialità aperta a ventaglio di altri scenari possibili e vie transitabili che abitano il piano del probabile, del non ancora noto o del non ancora sperimentato. Questa configurazione “multiversale” rappresenta una ghiotta occasione di sviluppare più ipotesi relative all’applicazione di un pensiero e di un comportamento creativo. Sono anche riflessioni che riportano le teorie della costruzione olografica dei mondi paralleli. Solo dal momento in cui scegliamo concretamente di agire, ecco che realtà dapprima solo potenziale diviene co-creata dal nostro approccio diretto a tesserne la materia e la comparsa esperibile. Risultiamo cioè i co-generatori di un piano di realtà che però ha una cornice limitata esclusivamente al nostro orizzonte richiamato per poterne fruire a servizio del nostro personale percorso. In pratica, rimane sostanzialmente un quadro evanescente e non oggettivabile.

Per questo bisogna tenere conto che la nostra piattaforma di realtà non è l’unica, ma si dirama in un molteplice e infinito caleidoscopio di “mondi possibili”. Questi potenziali palcoscenici possono essere abitabili ed attivati da chi si addentra all’interno di quelle cornici. Di conseguenza, gli effetti delle nostre azioni non possono più essere limitatamente studiati in prospettiva delle singole connessioni azione-reazione spiegate dalla fisica classica, ma la visione necessaria a ridimensionare questo piano di conoscenze dovrà cambiare, e l’operatore contemporaneo è chiamato sempre più nel riuscire a far coabitare dentro questo nuovo paradigma i nuovi orizzonti di valutazione. Non più, dunque, processi di analisi della “realtà” legati a schemi obsoleti e unilaterali, ma una considerevole apertura alla considerazione di un’ottica molteplice nell’osservazione dei fenomeni, dove l’azione dischiude la molteplicità dell’espressione vitale e la colloca dentro un incalcolabile carosello di percorsi e di allestimenti possibili. Opzionalità, strategie e traiettorie del problem-solving diventano così costruzioni di piani di esistenza non dapprima contemplati. Questo non ci rende più limitati dentro un percorso considerato il solo possibile, e non ci rende nemmeno più coartati da un vincolo che ci lega a seguire obbligatoriamente quello che abbiamo imparato a fare meglio. Questa nuova condizione potrebbe essere sfruttata a vantaggio di un’esistenza creativa, e quindi renderci maggiormente aperti al carattere cangiante degli eventi della vita. Questo significa anche accettare ed accogliere il potenziale innovativo di quell’assetto sociale contemporaneo che spesso invece è travisato secondo un’accezione negativa, specie quando restituisce un senso di instabilità rispetto alle forme culturali delle cose di cui siamo stati abituati a fare esperienza e quindi a decodificare con più disinvoltura. Tendiamo a rifiutare la transitorietà insita attualmente nel carattere degli eventi, rifugiandoci nelle strutture conservative e nei costrutti tradizionalisti.

Dentro questa nuova riflessione, invece, è insita la proposta circa il reperimento di una cornice dentro cui si sperimenta questa tensione antinomica che vede convivere da una parte il concetto di opportunità contro il concetto di rischio/pericolo, ed anche il concetto di ribellione avverso a quello di conformismo. Forse la comprensione/integrazione di tali propositi sta nel collocare su un piano dialettico e globale ciò che di norma vien invece posto su un orizzonte di opposizione dualistica. Si potrebbe auspicare a questo punto una implementata  rivalutazione dell’agire umano su un piano di lettura e di intervento a carattere olistico, quindi non più monco e incompleto a causa delle diatribe faziose e inconcludenti fra le diverse correnti e orientamenti filosofiche e scientifiche. È giunto, e non da oggi, il momento di spalancare questa nuova visione ponendo fine alle dottrine antistoriche che sanno leggere l’umano attribuendogli connotati blindati dall’egemonia cartesiana nel pensiero occidentale.

L’integrazione, la sintesi e il superamento delle antinomie ci aiuterà a sviluppare ed applicare approcci più maturi e più utili al servizio della comprensione e del miglioramento dei comportamenti umani. Si potrà vivificare quella sospensione dello sguardo che tanto ha riempito pagine di studi filosofici ma poco ha ricavato dentro una cornice culturale a dominante marca illuminista e retrograda.

Dovrebbe invece essere implementato lo sforzo di superare i modelli monolitici e stantii di un passato (che non passa mai) rivelatosi scientificamente inadeguato a spiegare la complessità del reame sociale e di tutti i suoi fenomeni ivi annessi. I paradigmi interpretativi, per quanto spesso in modo insolente e saccente si ammantino di una presunta e infallibile obiettività, altro non sono invece che palesi rivelazioni di punti di vista singoli e parziali di presunti studiosi e ricercatori che scelgono di descrivere e condividere ciò di cui fanno esperienza soltanto se si allineano alle ideologie ed agli stili di vita dello “scienziato”, riparandolo dal dover assumere scomode posizioni magari incomprese o invise ai circuiti accademici del suo entourage. In questo modo, viene protetto il singolo dal rischio del cambiamento e preservato il suo modo di concepire, rappresentare e intendere le dinamiche della vita umana, rendendole agevoli ai processi ed alle strutture delle sue consolidate cornici di locus of control.

L’atteggiamento di un ricercatore avanzato e odierno dovrà affrancarsi da questa posizione di falsa ricerca, a strenua difesa dello status quo, e prepararsi piuttosto ad accogliere e finanche a sollecitare un nuovo modo per promuovere, sviluppare e guidare i nuovi percorsi della conoscenza. Dentro questo nuovo modo di ragionare e sentire, che prelude a una inedita relazione epistemologica con i dati del sapere costruito attivamente, l’instabilità e la precarietà acquistano una significazione semantica che mai dapprima poteva essere anche solo minimamente concepita, avulse come erano dai condizionamenti generali e dalla dittatura della maggioranza.

La fruizione rinnovata di tali espressioni fuoriesce infatti dalle ripetitive connotazioni dei contesti legati al lavoro produttivo, per cui esulano da sfumature concettuali che richiamano l’accettazione passiva delle condizioni schiavili dei nuovi lavoratori nell’era della globalizzazione; poiché non si tratta di percepire in tali termini soltanto il prono ripiegamento obbligato ai poteri che sovrastano le condizioni umane decidendo chi ha il diritto di vivere agevolmente e chi invece deve sopravvivere a stento. Il punto non è dichiararsi sottomessi e rassegnati all’èlite dei poteri forti che dominano schiacciando e mortificando quotidianamente la dignità dell’individuo.

Difatti, se il contesto dentro cui avviene questo confronto, permane sullo sfondo di una visione antistorica con arrogante impronta positivista, questi due termini non potranno che essere associati al lavoro come fonte di sostentamento, come spazio di produzione di beni di consumo, come riproduzione e perpetuazione dei rapporti iniqui fra parti sociali; ovvero come unico termine di paragone dentro cui leggere il solo possibile copione condiviso indistintamente da tutti gli attori sociali.

Potrebbe però non essere affatto questo l’unico modello di riferimento per poter cogliere nuove possibili sfumature semantiche nei termini in oggetto.

Certo che la percezione di questi vocaboli riverbera sempre qualcosa di sinistro e non accettabile. E ciò è dovuto al fatto che la massa riceve a ripetizione i medesimi input e pertanto viene spostata in uno stato di profonda letargia dove può essere accettata soltanto la versione ufficiale e dominante del ristretto vocabolario sociale. Si tratta di un condizionamento su base ipnotica, reso ancora più valido da secoli di addestramento alla più bieca indolenza mentale e spirituale della massa.

È sufficiente, come prova del nove, pensare al terrore che è in grado di evocare anche la parola “crisi”. Tuttavia, sono esattamente questi smottamenti storici e sociali a favorire nuove fasi per riscrivere i propri processi esistenziali e ricercarne finalmente un riscatto ed una migliore condizione autonoma ed emancipata. Non è facile far passare questo concetto dentro una società patologica dove i padroni di un tempo inventarono col contributo corrotto della psichiatria la malattia della drapetomania: ovvero la tendenza dello schiavo a rompere le catene che aveva alle caviglie per poter anelare ad una condizione di maggiore libertà. E sì, desiderare e ricercare la libertà dentro un mondo il cui mercato (ovvero il cemento principale della sua tenuta) è fondato sulla disparità fra benestante e sottomesso, deve senz’altro essere riposto dentro una spiegazione clinica e patologica.

Comprendo come sia complicato rovesciare lo sguardo, e come le vecchie concezioni tendano spontaneamente a permanere nella zona di comfort legata alla fissità, alla ripetizione, alla ritualità, all’abitudine, alla sicurezza, poiché sono questi gli elementi che offrono la realizzazione del sogno più diffuso e mercificato: la conquista del posto di lavoro fisso.

Pertanto non bisognerebbe mai generalizzare supponendo che questo debba essere il traguardo di ciascuno, dal momento che proprio il lavoro fisso potrebbe costituire lo psicodramma per eccellenza, proprio nei riguardi di chi sarebbe capaci di rivoluzionare se stesso e le coordinate del proprio percorso biografico, dunque di chi è capace di proporre e riproporre di volta in volta se stesso e la propria storia dentro scenari nuovi, orizzonti inediti di chi si pone dentro una prospettiva di crescita, di miglioramento, di fuoriuscita dai circuiti obsoleti (o divenuti tali) che circuiscono il senso dell’esistere da parte di chi contempla la costruzione di nuovi percorsi ed opzioni, mettendo in gioco i caratteri di un sé sperimentale e desideroso di espandere il senso di esserci.

Il discorso di Bauman si riferisce, a questo esatto proposito, al fatto che l’uomo che sceglie lo fa sempre in condizioni di incertezza. E questa incertezza, mi chiedo, può essere proprio il punto di svolta per l’uomo nuovo che rinasce dalle sue stesse ceneri? Magari integrando anche meglio i residui di un passato perché smettano di condizionarlo e tormentarlo, rigettandolo dentro trame in cui si replicano i medesimi errori epocali.

Perché mai, mi domando ancora, dovremmo avere coordinate già stabilite come certe e prescritte da terzi al di fuori di noi? E se queste non dovessero esattamente appartenere alla nostra natura spirituale e quindi al nostro ordine interiore di bisogni? Se non rispecchiassero il senso della nostra missione e del nostro itinerario esistenziale? Abbiamo o no il diritto di non riconoscerci nei pacchetti preconfezionati delle offerte di stili di vita e atteggiamenti magari contrari alle nostre legittime aspirazioni ed alla nostra generale impostazione etica?

Se molte delle decisioni imposte da terzi sono già precostituite e date da chi ha scelto per noi, impropriamente, come dobbiamo vivere, allora questi soggetti o non ci conoscono oppure hanno tutto l’interesse di manipolarci, di sminuirci, di non farci trovare la via di uscita. Il fatto è che il risvegliato, ovvero colui che riscopre e che quindi sa di avere un Sé (o meglio di essere un Sé), è conscio sulla questione che le scelte compiute (e che possono includere anche l’abbracciare un’attività che lo possa sostentare materialmente) sono mezzi per aggirare gli ostacoli e non per continuare a restare dentro la giostra dei divertimenti, non per gongolarsi sui privilegi conquistati magari anche a discapito di altri, anche se questo poco o nulla importa nella società che accetta la competizione del cane mangia cane.

La società ha però anche prodotto meccanismi che hanno finito per colludere ed implodere dentro questo piano di incertezza, per favorire chi rischia di impantanarsi dentro l’agio, di incollarsi dentro la comodità e la ripetizione, di stabilizzarsi in un sonno analgesico e patinato dove tutto risulta fondamentalmente controllabile, prevedibile  e gestibile sempre allo stesso modo. È esattamente questa la società che ha attivato certe configurazioni proiettate a ledere fino a far perdere questi attaccamenti a carattere ambivalente: da una parte forniscono sicurezza e d’altra parte mortificano la progettualità creativa e la spinta ad agire in modalità divergente, resiliente e sperimentale. IL disegno sociale nel suo nuovo assetto tende perciò a destrutturare in tempi rapidi tutte le certezze acquisite, le quali essendo mondane le rivela a un certo punto per ciò che sono, ovvero mere illusioni. L’accelerazione di questo processo sarà peraltro sempre più rapida, proprio per favorire questa fuoriuscita e questa chiusura con l’esperienza mondana, verso chi ha conquistato un sé. Non a caso l’auspicio di un ritorno al mondo come era prima (nella stucchevole immagine romantica della verginità candida del passato), o nella costruzione di un mondo migliore futuro, altro non sono che piani dello stesso palazzo dove abitano gli inganni, e si perpetrano queste demenziali fantasie ingenue nella mente di tutti gli illusi e gli stolti che ancora credono che il mondo possa volgere a un cambiamento.

Queste pellicole interiori che narrano di un mondo paternalistico, conservatore, familistico e retrogrado è infatti auspicato da piccole menti e piccole personalità assai povere di tensione creativa e denotate dalla penuria o dall’assenza totale di pensiero ri-generatore radicale e di capacità di problem-solving, di resilienza proattiva e di adattamento elastico, intelligente e costruttivo che sa rispondere propriamente alle sollecitazioni ambientali nel loro complesso.

Sta di fatto avvenendo una netta e giusta separazione all’interno di quella che sembra all’apparenza perfino essere la medesima specie.

Da una parte i nostalgici ed i restauratori di un ordine costituito che ha mostrato le sue fallacie giungendo ad un punto morto, e dall’altra il coraggio dei creativi motivati da un nuovo agire proiettato ad aiutare l’attuale stato di cose a morire. Da una parte coloro che ricordano le attrici de “La morte ti fa bella”, costrette a restaurare di continuo il proprio aspetto, agonizzando fino al punto di scoprire che non potevano più morire sul piano materiale. Il loro sogno si era tramutato in un incubo. È così che fa la maggior parte dei costituenti l’informe massa odierna: avalla le illusioni proposte dal sistema del controllo sociale e ne sottoscrive l’inganno implicito, per lagnarsene poi successivamente dopo aver subito gli effetti del trucco che non aveva voluto vedere per ragioni di interesse privatistico e utilitaristico. E così lo speculatore finanziario che nutre l’intima velleità di ingrassarsi come il suo padrone, si renderà conto che questi non gli permetterà di far parte della sua compagine, e che ben presto gli pignorerà le proprietà, ricollocandolo nella stalla del bestiame umanoide, affinchè l’eletto di una qualche loggia di potere se ne serva come meglio crede di poterne disporre.

Tutti questi giochi sono approvati dalle scelte del soggetto contemporaneo, avido di potere e ubriacato dall’orgasmo del possesso e del consumo. Troppo comodo poi, attendarsi in una pubblica piazza a recriminare i propri diritti, quando fino a poco tempo prima si era pronti ed impegnati a ledere quelli altrui, o quanto meno ad esserne del tutto massimamente e cinicamente indifferenti.

Lo sconquasso politico ed economico-finanziario contemporaneo ha giusto appunto questa funzione, e solo la specie adattiva, come vuole la legge scoperta da Darwin, sopravviverà e potrà perpetuarsi. Ordunque, questa instabilità è invero la condizione necessaria e preliminare affinchè si generino occasioni, ipotesi e percorsi creativi dapprima non immaginabili.

Fatto proprio questo concetto, l’individuo si sottrae al controllo totale di poteri terzi. Egli è il suo potere. La sua volontà e la sua coscienza coincidono con se stesso. Egli accede al diritto di essere se stesso. Decade il modello trasmissivo unilaterale per far spazio anche dentro una didattica ripensata, ad una progettualità che promuove esperienze educative aventi  a che fare con una crescita globale ed olistica dell’individuo, dentro un orizzonte di apprendimento significativo.

La domanda è se la scuola, le istituzioni preposte alla formazione, sapranno rispondere favorevolmente a questo cambiamento di cultura, quanto contribuiranno ad espanderlo, quanto riusciranno ad accoglierlo.

Personalmente, partendo dal dato di fatto che la scuola è una istituzione conservativa, in evidente rotta di collisione con una storia che ne sta decretando la bocciatura (chi la fa l’aspetti), non riservo alcuna fiducia al mondo della scuola come luogo di innovazione, sviluppo e rilancio dei requisiti del nuovo soggetto umano. La scuola è agenzia appartenente alla rete del sistema di vigilanza e costruzione sociale, al servizio del noto e del già dato. Essa è notoriamente coordinata al vertice da un’èlite che detiene il potere politico, sociale ed economico di interi Paesi, e pertanto è la meno titolata a svolgere quella funzione critica e di ri-costruzione attiva e partecipe del nuovo stato di cose, nonostante all’apparenza potrà pure sembrare che lo faccia. Anche se in verità, un attento sguardo verso il suo mondo ne rivela l’inconsistenza e la scarsa autorevolezza formativa verso il mondo giovanile in genere. Farà molto probabilmente credere di voler partecipare al cambiamento, ma non potrà risolvere la dissonanza dovuta all’essere esattamente tra i guardiani dello status quo a difesa dei valori tradizionali. Per cui mostrerà una facciata, lavorando al tempo stesso per la conservazione di ciò che esiste già.

Entrerà a far parte (ne fa già parte) di quella cultura del riduzionismo politicamente corretto, secondo cui, quando per esempio viene finalmente svelato il ruolo degli allevamenti intensivi come prima causa devastante nella distruzione inarrestabile dell’ecosistema, si tranquillizza subito la massa degli homini sapiens a non rinunciare alla loro bistecca quotidiana, ma a mangiare “meno” carne, un giorno la mangi tu e il giorno dopo l’amico tuo. Cosa cambia? Niente! Ma è esattamente questo che vuole il babbano medio: un comportamento falsamente responsabile che però non gli impedisca di rivendicare i diritti della sua gola e del suo portafogli.

La scuola è già allineata a questa impostazione atta a non turbare l’ordine costituito, per cui fingerà di stare dalla parte dell’umano e dell’ambiente, darà il via a quelle formali procedure d’ufficio dalle quali scaturiranno pagine e pagine di circolari, decreti, nuove prospettive e direttive che sembrano andare nella direzione di promuovere le istanze di autodeterminazione di ciascun individuo e promuovere il nuovo ordine di bisogni sociali emergenti. Sono tutte operazioni di superficie, grazie alla quali si continuerà ad essere socialmente graditi ed approvati, ricalcando il solco già prescritto da chi veramente decide le sorti della gente del mondo. Tutto questo si attua anche grazie ad una formazione scadente e ad un mancato ricambio della vecchia classe docente. Si tratta di riaffermare il modello tradizionale ammantato di una falsa verginità. D’altra parte, il diavolo per ingannare si veste di luce e non si presenta mai per ciò che è, se non ai suoi più fedelissimi reggenti e collaboratori.

E così la scuola mancherà questo appuntamento, e non tanto perché è inefficace e fallimentare sotto tanti punti di vista, ma perché non è stata concepita affatto per guidare o interpretare un’ipotesi di cambiamento storico e sociale. I suoi strumenti e la sua missione sono affinati per proteggere la stabilità dell’ordine costituito. “Scuola democratica” è uno degli ossimori più suggestivi e demenziali di questa politica del dualismo e dell’inganno sopraffino che la maggior parte si ostina a non vedere. Il sistema formativo tradizionale, cieco e irresponsabilmente assente sulle questioni di maggiore priorità ed urgenza, rivela tutta la sua inadeguatezza, obsolescenza e fallacia, con la complicità in primis, appunto, della scuola. Ciò è naturalmente più che comodo per chi da sempre costruisce a stampino soprattutto le nuove generazioni soltanto come massa acritica (la massa è sempre acritica) da assoggettare alle regole del mercato e del profitto a tutti i costi. Tale condizione fa sottostimare (o ignorare completamente) la propria condizione di soggetto annichilito da un sistema autoreferenziale che protegge i suoi esclusivi interessi utilitaristi di una oligarchia di potere che non vuole affatto che questo status di cose venga disturbato da coscienze risvegliate, e da un gradino sotto anche da qualche mente che si permette di elaborare criticamente i dati della conoscenza.

Ancora una volta, la scuola farà semplicemente ciò che le è obbligatoriamente concesso nell’esercizio della sua funzione di mantenimento dell’assetto culturale e politico mercificato alla logica del capitale.

IL machiavellico e ultimo inganno generale sarà quello di ridisegnare un volto sociale che sembra accogliere e aderire ai principi universali dei diritti di ciascun umano. Sarà una finta rivoluzione che permetterà alle istituzioni di sostare dentro la loro missione e funzione di controllo e manipolazione collettiva. E così questa rete organizzativa di potere ridefinisce il proprio assetto seppur modificando la cornice, quel tanto che basta per restituire una nuova illusione di vita libera. Una vita dove l’assalto violento alle vetrine per accaparrarsi o rubare l’ultimo modello di I-Phone sarà facilitato da nuovi introiti, e dove l’accesso al credito bancario verrà agevolato, dove figure estranee alla famiglia potranno sostituire la genitorialità naturale oramai latitante e gravata dai ritmi e dai tempi del lavoro.

Un benessere che sconcerterà coloro che non potranno accettare chi lo rifiuta. D’altra parte, la messe è tanta ma gli operai sono pochi. È questo un insegnamento evangelico (imbattibile quanto a impopolarità) che rivela ancora una volta l’assurdità di un’esistenza votata per la maggior parte all’accettazione inaudita e incosciente della odierna condizione schiavile: autentico capolavoro dell’ingegneria della manipolazione dell’essere umano.

 

 

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