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Counseling, il cambiamento come progressivo avvicinamento al sé

Inviato da Giancarla Mandozzi

Counseling,  il cambiamento

come progressivo avvicinamento al sé

 

Nel counseling, la persona che chiede aiuto è cliente, una definizione che rivela una precisa caratteristica di questo intervento, non una terapia, bensì un sostegno rivolto a persone sane che vivono un momento di difficoltà e che dunque prevede tra cliente e operatore un dialogo paritetico, empatico e di reciproca collaborazione, alleanza operativa nel perseguire di comune accordo comportamenti, tecniche e modalità efficaci alla risoluzione del problema vissuto dalla persona in aiuto. La profonda fiducia nelle potenzialità interiori di ogni persona, nella tendenza attualizzante che conduce ognuno verso il proprio Bene-Essere, secondo una radice teorica chiaramente umanistica che gli ha conferito Carl Rogers conferisce ad ogni percorso di counseling un clima di serena pro-positività.

 

La soluzione del problema portato dalla persona in aiuto, non può prescindere dalla sua personale volontà ad impegnarsi attivamente per accettare e gestire il cambiamento necessario a risolverlo ed è appunto questo cardine irrinunciabile che fa del counseling un intervento assolutamente estraneo al dare consigli, a trovare soluzioni che la persona in aiuto semplicemente si limiterebbe ad applicare, mentre è in primis orientato a facilitare il processo di crescita della persona. Non sono previsti consigli né scelte imposte dall’esterno (dal counselor, o da altri): la persona in aiuto è sostenuta perché giunga a comprendersi meglio e se, per questo, è necessario che accetti un cambiamento, compito del counselor sarà quello di essere il punto di riferimento, lo specchio su cui poter contare, fino al momento in cui la persona si sentirà e sarà libera di scegliere in autonomia. Pochi elementi sono fondamentali per costruire condivisione di intenti con la persona in aiuto: spazio protetto (l’operatore è vincolato al segreto professionale e ad un codice deontologico), accettazione incondizionata (da non confondere con approvazione incondizionata), ascolto attivo e profondo per sostenere la persona in aiuto ad assumersi la responsabilità di scelte e/o accettare e gestire il cambiamento per superare il problema.

Il counselor costituirà per la persona in aiuto un generatore affettivo (Luciano Berti, 2011), definizione di evidente spessore che allude alla capacità del counselor di creare, agevolare, sostenere, nella persona in aiuto che ha di fronte, la motivazione interiore ad agire per risolvere la sua situazione problematica, nel totale rispetto delle sue concrete esigenze, dei suoi più profondi bisogni.

L’appellativo generatore rende esplicite capacità e competenze nel counselor tali da realizzare e sciogliere progressivamente relazioni comunicative difficili e consentire alla persona in aiuto di centrarsi su di sé e a poco a poco ritrovar-si. Si pensi alla persona in aiuto che, specialmente al primo incontro, non riesce ad aprirsi al colloquio e in atteggiamento inconsapevolmente evitante, proprio per sfuggire ad una penosa narrazione, vagando da un argomento all’altro senza quasi capacità di fermarsi, parla e racconta senza sosta di sé preferibilmente divagando su chi, ai suoi occhi, può essere considerato/a causa del suo malessere.

Ciò che può addirittura sorprendere in questa definizione, per la complessità di significati che contiene, è l’aggettivo affettivo inteso nel suo più autentico significato etimologico che, come aggettivazione dal verbo latino afficio, allude a tutti gli aspetti della vita psichica di un individuo che istintivamente reagiscono alle sollecitazioni del mondo esterno in relazione ai due poli del piacere e del dolore, [1] al fare, al commuovere, emozionare, agire, indurre, motivare, stimolare la persona in aiuto perché individui e accetti una forte motivazione interiore tesa a risolvere la situazione problematica.

L’aggettivo affettivo rappresenta in sintesi l’obiettivo poliedrico, multiforme, di grande rilievo verso cui convergono le abilità e modalità di porsi da parte del counselor nei confronti della persona in difficoltà.  Compito alto del counselor è quello di aiutare la persona ad aiutarsi, a comprendere quali strategie e modalità possiede per tornare ad una condizione di Bene-Essere.

Per l’intero percorso di counseling, sarà  massima l’attenzione del counselor perché la persona in aiuto non viva una condizione di dipendenza nei confronti di chi la sta aiutando a crescere e ad ogni incontro, non solo la persona in aiuto avvertirà il proprio cambiamento, bensì anche il counselor che uscirà modificato da ogni esperienza professionale che realizza e per la quale si avvarrà di un supervisore.

            Appare agevole delineare alcune peculiarità del counseling e il ruolo del counselor, ma nella realtà tanti sono i dubbi e le diffidenze. le sottili imprecisioni che circolano sui presupposti teorici e sulle modalità del counseling persino tra chi poi decide di chiedere aiuto al counselor.

            Sono situazioni a cui, come counselor, sappiamo di essere chiamati a dare risposta autentica e chiara, sono dubbi, talvolta pre-giudizi, difficili da contrastare e che, dobbiamo ammettere, con tutta la nostra buona volontà non riusciamo sempre a sciogliere.

            La più diffusa obiezione, rispettosamente formulata a mo’ di domanda/dubbio riguarda la capacità di ascolto del counselor: Il counselor è accogliente e mi ascolta? Se, dunque mi ascolta come una persona amica, non potrei essere  ascoltato/a, nel momento di difficoltà, in famiglia, sul lavoro e nelle relazioni affettive o per superare eventi stressanti, dalla la mia più cara amica, da una persona che mi è familiare, o dal partner? Tanti sono gli amici e persino parenti che possono aiutarmi, perché mi vogliono un gran bene e sono sinceri con  me.

In altre parole: che bisogno ho del counselor?

La logicità dell’obiezione è solo apparente: spesso chi ci è più vicino non ha tempo o non conosce strumenti idonei per ascoltarci e il suo aiuto, pur dato con sincerità e nutrito da suggestive intuizioni, può non essere sufficiente per trovare la soluzione, la via d’uscita dal problema, magari proprio perché emotivamente coinvolto.

L’ascolto fin dall’antichità è stato definito un’arte, non è operazione facile e necessariamente è correlato, per poter essere tale, alla sospensione di giudizio, all’accoglienza incondizionata dell’altro, ad un atteggiamento di empatia che consente a chi ascolta di percepire il problema della persona in aiuto mantenendo chiara percezione della propria diversità rispetto a lei, evitando ogni forma di coinvolgimento emotivo. Potremmo affermare che il counselor è lo specialista dell’ascolto e che ha raggiunto tale competenza dopo un preciso percorso teorico ed esperienziale.

Ascoltare è un’arte e per diventarne capaci bisogna esercitarsi a cogliere non solo  le semplici parole, bensì anche il mondo emotivo dell’altro, il suo punto di vista. Carl Rogers, fondatore della relazione d’aiuto centrata sulla persona, ha scritto:
La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione. La nostra prima reazione di fronte all’affermazione di un altro è una valutazione o un giudizio, anziché uno sforzo di comprensione. Quando qualcuno esprime un sentimento o un atteggiamento o un’opinione spesso saltiamo alle ‘nostre’ conclusioni. [2]

Compito del counselor è quello di creare le condizioni, appunto attraverso l’ascolto, per aiutare il cliente a trovare la sua soluzione o a prendere la decisione più efficace e costruttiva, la sua strada.

 

Le doti naturali, l’essere disponibile e accogliente, le modalità individuali esplicitate nella relazione interpersonale certamente sono parte importante nella professione di counselor e tuttavia mai possono essere efficaci se disgiunte dalle suddette competenze.

Sempre Carl Rogers amava ripetere che il counseling non è soltanto una professione è piuttosto un modo di essere.

Il counselor vivendo la situazione della persona in disagio e tuttavia vedendolo dall’esterno (questo è appunto l’atteggiamento empatico) può aiutare la persona a far chiarezza, a centrarsi su di sé, a liberare le proprie potenzialità, per avvicinarsi alla propria condizione di Bene-Essere.

Il counselor può aiutare a dissipare la nebbia, a riordinare i pezzi sparsi del puzzle per trovare la risposta ai propri dubbi, o la soluzione efficace, facendo leva sulle capacità e le risorse che la persona in aiuto così scopre o ritrova; compito del counselor è di aiutare la persona a scoprire che  la risposta alla domanda ‘cosa posso fare?’ è dentro di sé.

Chiedere aiuto al counselor non è, come talvolta si pensa che sia, un segno di debolezza, rispetto a chi si ostina a credere nella difficoltà di poter riuscire a trovare una soluzione da solo. Chiedere aiuto è decisione coraggiosa, è iniziare a prendersi cura di sé, è dimostrare per primi a se stessi che si è ancora in grado di mettersi in gioco e accettare il cambiamento verso il meglio, ovvero verso il proprio sé, è prendere consapevolezza del proprio stato presente.

L’aiuto del counselor sarà determinante per eliminare i pensieri negativi, i sensi di colpa e le tossine che minano la propria autostima e il proprio Bene-Essere.

Il counselor non suggerirà quale deve essere scelta, aiuterà la persona in aiuto a vagliare le soluzioni possibili ed i loro effetti a breve e lungo termine, a contattare (portare dallo sfondo in figura, secondo la definizione gestaltica) i suoi reali bisogni e i suoi desideri per conoscere se stessa, e costruire relazioni consapevoli.

Tra le modalità comportamentali efficaci a gestire il necessario cambiamento per ciascuno di noi, soprattutto nel momento in cui ci sentiamo in difficoltà, il counselor ci condurrà a vivere il Qui e Ora assumendoci la responsabilità delle nostre azioni e, d’altro canto, accettando che risposte inadeguate rispetto ai nostri obiettivi vanno considerati feedback, risposte alle nostre azioni, alle nostre convinzioni e strategie, non sono sconfitte (di questa dinamica e ottimistica prospettiva è maestra la Programmazione Neuro Linguistica).

              Dalla comunicazione onesta e consapevole con noi stessi possiamo sperare di costruire relazioni consapevoli e dunque efficaci con gli altri. Molto spesso crediamo di avere "tutto sotto controllo" di conoscere chi siamo e cosa pensiamo, di riconoscere perfettamente tutte le nostre emozioni e di saper ''gestire'' la nostra vita...invece siamo trascinati da correnti che ci portano verso direzioni che altri hanno deciso per noi senza neanche accorgercene, anzi legittimiamo questi percorsi come se fossero frutto di una nostra scelta consapevole.

Siamo esseri complessi e multidimensionali, siamo costituiti da un corpo, una mente, emozioni e spiritualità tra loro interdipendenti e siamo inseriti in un contesto sociale multiforme. Le parti di noi che non conosciamo, che non accettiamo o che nascondiamo dietro maschere, devono essere indagate perché possiamo giungere veramente ciascuno alla consapevolezza di sé.

Non occorre svelare a tutti le nostre debolezze o le nostre parti più intime o vulnerabili, le maschere ci proteggono e ci aiutano nella vita, non potremmo pensare di restare incolumi se non le utilizzassimo, consapevolmente o in maniera automatica. Sono il frutto della nostra esperienza e della nostra cultura; si tratta di riconoscerne l'esistenza e sarà questa consapevolezza a permetterci di costruire una relazione reale e leale con noi stessi e con l’altro. Diversamente, corriamo il rischio di... recitare per tutta la vita senza toccare mai la nostra autentica complessa identità e quella di ogni nostro interlocutore.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

 


[1] http://www.treccani.it/vocabolario/affettivo/

[2]Carl Rogers, in Harvard business review, 1952

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