La sindrome da istituzionalizzazione


bastoneIntroduzione.

 

La sindrome da istituzionalizzazione è una condizione psicopatologica che è possibile riscontrare sia in soggetti sottoposti ad una lunga permanenza in istituzioni chiuse (come case di cura, ospedali psichiatrici, prigioni, orfanotrofi) sia anche in soggetti la cui struttura di vita sia improntata al rispetto di rigide e restrittive regole comportamentali (come ad esempio appartenenti ad ordini religiosi, sette, comunità isolanti, gruppi familiari problematici). E' denominata in Letteratura come "nevrosi istituzionale" ed è generalmente caratterizzata da chiusura in se stessi, indifferenza verso il mondo esterno, apatia, regressione a comportamenti infantili, atteggiamenti stereotipati, rallentamento ideico; è inoltre possibile che il soggetto elabori convinzioni deliranti di tipo consolatorio: i cosiddetti "deliri istituzionali" (ideazioni di cui il soggetto è radicalmente convinto ma che non presentano riscontri nella realtà oggettivabile).

E' utile sottolineare che questa sindrome si può manifestare sia in soggetti che al momento dell'istituzionalizzazione siano affetti da altre patologie (di tipo organico e/o di tipo psichico) che in soggetti le cui condizioni di salute siano oggettivamente definibili ottimali. Elemento comune alle situazioni che possono predisporre l'insorgere di questa patologia è la limitazione delle libertà individuali. Noi due Autrici di questo elaborato , (V. B. e G. R. G.), operando entrambe in due Strutture per la terza età da molti anni, con la qualifica di O.S.A. (Operatrici Socio Assistenziali); la prima in una Struttura in Rapallo dal

2002, con esperienze lavorative presso altre Strutture di assistenza fuori regione, la seconda presso una diversa Struttura in Rapallo e dal 1999 ad oggi ininterrottamente in una Struttura in Sestri Levante. La quantità di Pazienti e di Colleghi transitati e/o presenti nelle strutture in oggetto è pertanto numericamente notevole anche se una analisi in senso "scientifico" è limitata a Pazienti sui quali la nostra attenzione si è posata proprio in relazione al corso di Counseling seguito.

La sindrome da istituzionalizzazione osservata negli ambienti di lavoro delle autrici; esperienze ed osservazioni di carattere personale, considerazioni formulate con l'ausilio delle nozioni apprese nel frequentare il primo anno di Scuola di Counseling.

Dal confronto delle rispettive esperienze e, supportate dagli studi compiuti in questo primo anno, abbiamo potuto darci una metodologia di osservazione condivisa da entrambe e basate su parametri osservabili pressoché comuni. Affinché il termine "esperienze" abbia una valenza quanto più possibile "scientifica", è da premettere che quanto segue è basato su:

1. Una analisi di comportamenti osservati sia su Ospiti transitati presso le rispettive strutture, sia su Ospiti attualmente presenti.

2. Una analisi di comportamenti osservati nei rapporti di Colleganza sia con colleghi transitati per brevi periodi, sia con Colleghi con i quali si è avuto un lungo rapporto.

3. Una auto-analisi (oggettiva?) del nostro stesso comportamento in ambito lavorativo.

Analisi relativa alla posizione del problema 1)

Quanto riferito in questa sezione fa parte della situazione presente e passata riteniamo deontologicamente corretto il riserbo totale sia sulla/sulle Strutture, sia relativamente agli Ospiti coinvolti (presenti o deceduti nel frattempo) per i quali impiegheremo le iniziali (fittizie) del nome quando saranno necessari confronti incrociati.

La prima osservazione è data dalla constatazione che tutti gli ospiti presenti nei nostri ambiti di lavoro, trascorso un lasso di tempo dal ricovero, stimato, in genere da 0 a 30 giorni, sono soggetti che manifestano i sintomi tipici della sindrome da istituzionalizzazione con livelli di sofferenza che si manifestano molto variabili da persona a persona ma che appaiono seguire un decorso pressoché comune. Il soggetto che subisce un processo di istituzionalizzazione va incontro ad un progressivo depauperamento di stimoli sensoriali, emozionali e motori che, col tempo, produce un abbassamento del livello di autonomia personale e, contemporaneamente, induce un maggiore rapporto di dipendenza dal personale e, in senso traslato, dalla istituzione stessa. Un caso apparentemente fuori dai parametri tipici dell'Istituzionalizato (perché di decisa reazione contro l'Istituzione) fu rappresentato da un paziente giunto da pochi giorni in struttura con manifestazioni sistematiche di aggressività (lucida e razionale) nei confronti delle sole Operatrici donne e concretizzatesi anche in un violento pugno (sferrato in modo imprevedibile) a carico di una delle due scriventi. Un pronto intervento medico a base di Talofen somministrato per via intramuscolare ha risolto il "problema", anche perché la terapia non è più stata modificata. Mancano pertanto in questo caso, dati interessanti su un caso significativo: la "risposta" di un paziente che rifiuta la struttura istituzionalizzante.

Ovviamente la rassegnazione (termine meno tecnico di "istituzionalizzazione") è stata notata più pronta e probabilmente accompagnata da minore sofferenza interiore in Pazienti "soli" (privi di riferimenti familiari) che nella fase in cui sono autosufficienti vivono la struttura con un certo adattamento fino ad offrirsi in compiti ausiliari demandati al personale. Sono i pazienti in cui il rapporto (cordiale fino alla familiarità) è limitato normalmente a una o due sole operatrici, mentre spesso appare indifferente se non ostile il rapporto con altre operatrici. Questa caratteristica comune

riscontrata sia in passato che al presente da entrambe le scriventi, e in strutture diverse ci ha posto un naturale quesito:

l'Istituzionalizzazione è una sindrome i cui danni sono limitabili con un rapporto più sistematico con il paziente?

Non è certo questo il momento delle conclusioni, ma è un dato facilmente constatabile che la formazione del personale operatore socio assistenziale si limita, al presente, a fornire poche nozioni pratiche relative alla sola cura e igiene del degente e nulla offre in merito alla capacità di rapportarsi con un altro essere umano in situazione di oggettiva sofferenza.

- Un primo caso osservato relativo al presente: il Paziente R. L.

Paziente con (solo e/o apparentemente) qualche problema di comunicazione (non sempre comprensibili le sue richieste), inserito nella struttura X, in un periodo di continuo ricambio di personale. Il soggetto ha subito un processo di istituzionalizzazione estremamente rapido andando incontro, in pochi giorni, ad un abbassamento del livello di autonomia personale, totale indifferenza verso tutto ciò che circondava la sua persona ed un totale rapporto di dipendenza dal personale.

- Un secondo caso osservato relativo all'immediato passato: la paziente M. A. B.

Paziente di ottimo livello culturale, in gioventù ed in età matura, libera professionista molto apprezzata, Ospite della Struttura X a seguito di interdizione dovuta a sindrome bipolare della personalità conclamata ed a seguito di un T.S.O. da un episodio di aggressione verso dei passanti. Non è chiaro, in assenza di congiunti o parenti come sia avvenuto il procedimento di interdizione e la nomina del Tutore (persona esterna della quale non intendiamo fornire altri dati). Economicamente agiata, al punto che il Tutore provvedeva al pagamento della retta direttamente dai fondi finanziari di M. A. B.. Il primo dato saliente emerge dalle sistematiche visite del "fidanzato" (il fidanzamento, ostacolato dalle rispettive famiglie perdurava da decenni): un sistematico stato di agitazione. Apparentemente collaborativa, aperta, solo con la Scrivente (e non con altre operatrici) sempre pronta al dialogo, affezionata ai gatti della struttura fino a considerarli "propri", sempre felice di seguire la Scrivente quando provvedeva ai gatti durante il turno notturno. In pratica un turno notturno effettuato, paradossalmente, in parallelo dall'operatrice e dalla paziente. In due situazioni la Scrivente ha provveduto ad accompagnare M. A. B. in visita presso una Struttura pubblica. La paziente in entrambe le situazioni ha manifestato un evidente piacere nell'osservare da un'auto il mondo esterno, lasciandosi andare a racconti sulla sua vita professionale

espressi con lucidità ma non privi di aspetti enfatici (quasi un cantilenare le storie riferite). Per contro, una manifesta fobia nei confronti del "contatto" con il mondo esterno. Altrettanto impressionante la manifestazione di paura nel riferirsi al Tutore (chiamato costantemente con il solo nome). Si è trattato, ad avviso della Scrivente, di un caso in cui l'apporto dell'operatrice fu anche di "counselor" (inconsapevolmente e senza ovviamente la metodologia adeguata) perché fu la situazione stessa a determinare questa evoluzione di rapporto.

- Un terzo caso osservato: la paziente C. D.

La paziente C. D., ospite della struttura Y, non autosufficiente, non ha parenti in vita, è assistita legalmente da un Tutore. E' una paziente molto esigente, nel senso che vuole sentirsi "servita e riverita" in tutto l'arco della giornata. Molte volte evidenzia un atteggiamento di scarsa considerazione e di disprezzo nei confronti degli operatori. La Scrivente, già acquisiti i rudimenti di base del corso di Counseling, ha voluto intraprendere una sperimentazione sistematica proponendosi un approccio opposto a quello mantenuto probabilmente in precedenza. In primo luogo la Scrivente ha assecondato la Paziente nelle sue esigenze, sempre con un sorriso (indotto) ed evitando qualunque manifestazione che rivelasse disappunto o sufficienza, cercando anche di anticipare sempre i suoi movimenti e le sue lamentele, dando probabilmente l'impressione di sapere prevedere i suoi desideri. Il dato oggettivo che ne è emerso è che la signora C. D. adesso è più serena e persino il suo viso non appare più rugoso come prima. La comunicazione tra la Scrivente e C. D. si è spinto fino a qualche confidenza (reciproca) sul piano personale, e soprattutto adesso appare avere compreso la funzione degli Operatori che tratta con rispetto e considerazione. Probabilmente questa sperimentazione può essersi ripercossa negativamente sui tempi sottratti agli altri ospiti della struttura, tuttavia la Scrivente ritiene che il dato oggettivo emerso meritasse le possibili ripercussioni negative sul "sistema".

- Un quarto caso osservato: la Paziente L. P.

La paziente L. P., non autosufficiente, ospite nella struttura Y da circa 5 anni senza soluzione di continuità, è una persona molto umile la cui retta è pagata dal Comune. Nonostante tutti i suoi deficit fisici, in quanto allettata, non vede l'ora che qualcuno del personale entri nella sua stanza per accudirla. Ha problemi di comunicazione, si esprime solo con gli occhi, e qualche volta con movimenti della mano. Il suo sguardo è malinconico, lacerante, ma pieno di speranza quando qualcuno è da lei anche per pochi minuti. La signora L. P. è oggetto di numerose "violenze"

fisiche, in quanto la sua sofferenza è causata in parte da numerose piaghe da decubito a stadio elevato, e vengono curate e medicate con incompetenza e superficialità e con nessuna sensibilità al dolore che prova la Paziente. E' portatrice di sondino naso-gastrico per alimentazione e tante volte, il personale non provvede a rimuovere la sacca terminata per posizionare quella nuova. L'insensibilità nei confronti di questa anziana indifesa è significativa di un "sistema" carente e inadeguato in quanto non appare né credibile né giustificato che un essere umano possa essere talmente ignorato al punto di limitarsi a provvedere al minimo per assicurarne la sopravvivenza. La Scrivente ha riscontrato comunque che L. P. ha piena coscienza del suo stato quando si provvede a considerarla come "persona cosciente", quando la cura della sua persona avviene con movimenti lenti e delicati, soprattutto quando un semplice sorriso accompagna le mansioni predisposte. La risposta può arrivare solo con gli occhi e con la stretta di una mano. Il caso descritto rientra nel tema? Probabilmente la risposta esaustiva o incompleta al quesito può essere riscontrata nell'ammettere che è il "sistema" (dal Direttore Sanitario all'ultimo degli O.S.A.) ad avere subito un processo di istituzionalizzazione.

- Un quinto caso osservato: il paziente B. E.

Ex alcoolista, tra i 70 e gli 80 anni, di robusta costituzione, senza parenti, perde ogni avere a causa dell'alcool ed è ospite della struttura X con retta pagata dal Comune che ne ha acquisito i beni immobili. Anche in questo caso vi è un adeguamento non traumatico alla Struttura nella quale ha un rapporto aperto e di dialogo con pressoché tutti gli operatori. Assume alcuni incarichi fissi (a vantaggio di tutta la comunità) svolti con senso del dovere ma anche con una certa consapevolezza di "appartenere al sistema" e di svolgervi un ruolo attivo.

L'insorgenza rapida di un disturbo alla deglutizione e la diagnosi di un tumore non operabile per via della particolare allocazione, pone il paziente di fronte alla scelta (sembra consapevole) o di prolungare con una soluzione protesica l'ostruzione o di pervenire a morte (con notevole sofferenza). La reazione all'informazione fornita dal medico (ad un paziente manifestamente in grado di intendere e di volere) è stata di negazione della realtà.

Un colloquio avuto da una delle due Autrici con B. E. sembrava in un primo tempo avere sortito l'effetto di una scelta a favore della soluzione protesica, ma all'incontro successivo B. E. si è richiuso nella totale negazione della realtà. Solo il supporto farmacologico d'uso nei casi terminali ha accompagnato B. E. al decesso.

- Un sesto caso osservato: la paziente M. B.

La Paziente M. B. è attualmente ospite della struttura Y, vi è inserita da circa 15 anni e, pertanto, era già istituzionalizzata da tempo al momento dell'assunzione della scrivente nella struttura. Il rapporto è sempre stato molto conflittuale soprattutto a causa del timore provato dalla scrivente nei confronti della Paziente. Ella è ancora relativamente giovane (età inferiore ai 70 anni), sola al mondo, con un vissuto estremamente disagiato, segnato dal costante intervento dell'Assistenza Sociale. Questa paziente soffre di allucinazioni visive ed uditive, parla costantemente col fidanzato deceduto da tempo e ne esegue prontamente ciò che questi le "suggerisce", è verbalmente aggressiva e spesso mette in atto azioni di disturbo nei confronti di altri ospiti e degli operatori (come ad esempio staccare le prese di corrente dei materassi antidecubito o aprire gli sportelli delle lavatrici in funzione, rubare il cibo di altri degenti e/o il cibo nella cucina della struttura). Nei confronti della scrivente assume spesso atteggiamenti minacciosi ed aggressivi, probabilmente intuendo il disagio e il timore che in essa determina. In occasione di visite mediche fuori struttura questa persona modifica drasticamente il suo atteggiamento nei confronti della scrivente, mostrandosi timorosa ed accondiscendente, dipendente in tutto, compresa la scelta delle scarpe da indossare in occasione di questa "uscita". Quest'ultimo particolare ha indotto nel corso dell'ultimo mese la Scrivente (già in possesso delle nozioni di base del corso di Counseling) a tentare di applicare nel rapporto con questa paziente una metodica più accettante e di maggior comprensione. A solo titolo d'esempio: la Paziente spesso nel giardino della struttura raccoglieva e mangiava arance già guaste perché raccolte per terra, o passava lunghi momenti di farneticazioni personali o pativa per una dieta alquanto drastica imposta per motivi di salute. Il rapporto "più accettante" posto in pratica è solo consistito nel raccogliere dall'albero qualche arancia fresca, ad ascoltare in qualche raro momento di pausa le sue farneticazioni (derivanti comunque da un vissuto reale) e rispondere a qualche domanda contenuta nel soliloquio nonché nell'assegnarle "qualche grammo in più" di pane rispetto quello prescritto. Il dato oggettivo emerso è il seguente: sono diminuiti gli episodi di disturbo nei confronti degli altri pazienti ed anche le "previsioni" di un prossimo decesso della Scrivente sono improvvisamente cessate. E' da notare che la Scrivente avrebbe dovuto passare a miglior vita quasi quotidianamente negli ultimi anni, secondo l'augurio costante della paziente oggetto di osservazione.

Analisi relativa alla posizione del problema 2)

Il metodo di osservazione applicato dalle Autrici in merito ai rapporti di colleganza esistenti attualmente e, con analisi retroattiva, ai rapporti intrattenuti in passato, ha permesso di evidenziare una seria elementi in comune:

1) Il livello di conflittualità tra colleghi è molto elevato.

2) Gli episodi di maltrattamento che vanno dalla semplice maleducazione alla azione lesiva e deliberata nei confronti degli ospiti sono, purtroppo, frequenti.

3) Esiste una tendenza generalizzata alla considerazione dell'ospite come "oggetto" e non "soggetto". Spesso alcuni lividi riscontrati sui pazienti sono oggetto di reciproche accuse di "incompetenza" nel trattare il Paziente.

4) Appare pertanto un problema correttamente posto, analizzare se esiste un fenomeno di "istituzionalizzazione" che colpisce anche gli operatori, i quali a loro volta si adattano alle metodologie applicate nei vari ambiti di lavoro, inibendo le iniziative personali e uniformando i ritmi di lavoro, in genere a scapito delle oggettive esigenze assistenziali dei pazienti.

Il ricambio di personale nel nostro ambito lavorativo avviene in tempi generalmente brevi, sia perché il tipo di lavoro svolto risulta faticoso e ingrato, sia per la tipologia di contratto di assunzione attualmente più utilizzata, ossia quella del contratto a tempo determinato. Noi Autrici, rientrando nella assunzione con contratto a tempo indeterminato, abbiamo avuto modo di operare con molti colleghi nel corso degli anni. I conflitti tra colleghi insorgono spesso, probabilmente a causa della notevole mole di lavoro che in molti casi demotiva profondamente, in quanto sovente occorre svolgere mansioni delicate in tempi ristretti e/o inadeguati in relazione al rapporto personale/pazienti, ma probabilmente anche da una scarsa capacità organizzativa del "sistema" e dalla assenza di una seria formazione dell'operatore che è soggetto ad un C.N.L. tra i più umilianti .

I casi dei Pazienti R. L. (considerato quasi come caso da Manuale) e L. P. forniscono un dato oggettivo: esiste da parte degli Operatori da un lato la tendenza a favorire la riduzione dei tempi nella depersonalizzazione di alcuni Pazienti, e dall'altro di essere essi stessi degli Istituzionalizzati (unitamente alla Dirigenza e al personale di Livello Superiore della struttura). Evidenti motivi di opportunità impediscono il citare in forma documentata decine di casi analoghi a quelli dei due Pazienti citati.

E' stato riscontrato anche negli Operatori (ma anche nel personale di Livello Superiore) la tendenza opposta (paradossale?) a ricercare e ad enfatizzare un rapporto di affettività con alcuni particolari pazienti.

Nei valori medi osservati e riferentisi al rilevante numero di colleghi con cui si sono avuti rapporti, un dato risulta sufficientemente appurato: anche l'Operatrice/Operatore al primo impiego (spesso con caratteristiche umane positive) decorso un intervallo di tempo che va da una settimana a qualche mese, diventa indifferente alle persone che ne dipendono sia per i bisogni materiali che per quelli spirituali.

E' questa una fenomenologia che rientra nella "sindrome da istituzionalizzazione?". Al momento il quesito non può trovare da parte nostra una risposta basata su elementi "scientifici".

Analisi relativa alla posizione del problema 3)

L'analisi relativa alla posizione del problema 2) è terminata con un rimando ad un ulteriore problema in cui le Autrici non ritengono di possedere, allo stato attuale, elementi per fornire una risposta motivata. Pur tuttavia esistono per entrambe elementi per una autoanalisi che, alla luce dei rudimenti acquisiti nel corso in Counseling abbiamo cercato di effettuare.

In questa sezione si lascia pertanto la descrizione "impersonale" e si passa alla descrizione in "prima persona".

Io, Giovanna, ho conseguito il diploma di Maturità Scientifica nel 1992 e, dopo varie esperienze lavorative precarie, ho iniziato a lavorare con regolare contratto di lavoro nel 1999 presso una struttura di Rapallo con la qualifica di O.S.A.. L'iniziale entusiasmo per una situazione lavorativa stabile ed appagante ha subito un brusco momento di riflessione quando mi è divenuta chiara la "politica aziendale": sistematico e massiccio utilizzo di psicofarmaci e numerose contenzioni forzate. Il "sistema" richiedeva al Paziente una sofferenza silenziosa ed una immagine esteriore di ordine ed efficienza; ciò che succedeva fuori dagli orari di visita e, soprattutto le discriminazioni a carico dei pazienti accreditati rispetto a quelli paganti, sono stati motivo di dubbi nella mia coscienza. L'elemento per una decisione, ritenendomi incapace a contrastare da sola il "sistema", è stato l'assistere alla scena del mio datore di lavoro che prende a calci una anziana paziente a lui molesta.

Fu questo il principale dei motivi di dimissioni volontarie e trasferimento presso la nuova struttura, dove, per tre anni ininterrotti, ho svolto le mie mansioni esclusivamente nel turno notturno da sola con un numero di Pazienti variabili da un minimo di 13 ad un massimo di 30. Nella nuova

struttura ho riscontrato un più umano trattamento del Paziente (rarissimi i casi di contenzione forzata a letto). La responsabilità di valutare (previo preavviso telefonico alla Direzione sanitaria) quando una situazione, da me valutata d'emergenza richiedeva il pronto intervento è stato un fattore motivante (e personalmente gratificante). Il "sistema" in questo nuovo ambiente aveva caratteristiche molto diverse da quello in cui ero precedentemente inserita: se nel primo la salvaguardia dell'apparenza era Legge, nel secondo regnava la disorganizzazione. La gestione del lavoro era demandata quasi completamente alle operatrici in turno e, pertanto, le differenze di trattamento dei Pazienti tra un turno e l'altro erano palesi. Con gli anni, una più oculata gestione della Struttura e, soprattutto, un quasi totale ricambio del personale, ha di fatto migliorato l'aspetto operativo.

Da quattro anni sono inserita nel turno diurno ed ho comunque dovuto spesso fare i conti con la mia coscienza, e con vergogna ammetto di avere taciuto su tanti abusi che ho visto perpetrare, inclusa la presa d'atto di lividi, lesioni, persone disidratate e sporche specialmente alla presa di servizio al mattino, dopo un sommario scambio di consegne nell'avvicendamento al turno notturno. Perché ho taciuto? La risposta più onesta che riesco a formulare è: "perché non ho il coraggio di subire l'ostracismo del gruppo di colleghe nel quale sono inserita". Sono anche io istituzionalizzata? In quanto tempo è avvenuto in me il processo di istituzionalizzazione? Non riesco a trarre conclusioni oggettive che demando all'analisi del Lettore. Anche la vigliaccheria di tacere e non opporsi così al "sistema" rientra nei fattori ingeneranti l' istituzionalizzazione?

Io Valentina ho maturato la mia esperienza lavorativa in cinque diverse strutture, l'ultima delle quali, in cui attualmente presto servizio, si trova in Rapallo. In questi ambienti ritengo di avere sviluppato particolari peculiarità caratteriali quali la pazienza e il senso di comprensione per il mio prossimo. Nel mio primo anno di lavoro ho prestato servizio presso un centro di assistenza e sono entrata in contatto con svariati tipi di sofferenza. Non è stato semplice, davanti a me si sono presentati visi solcati dal dolore, dalla vecchiaia, arti amputati, persone contenzionate in ogni angolo della struttura, anziani allettati, costretti a vivere le loro giornate in "compagnia" di polsiere e di cavigliere, carrozzine, sollevatori, odori fisiologici, profumi di disinfettanti, protesi dimenticate, pannoloni, guanti sterili (e non), biancheria siglata; ho potuto vedere con i miei occhi un mondo tutto nuovo per la mia persona.

Ho vissuto da subito il mio lavoro come se fosse stata una "missione", complicata dalla mia inesperienza. Ho provato da subito un senso di contentezza nel poter manifestare un po' di calore e di protezione verso chi mi era affidato. Mi sono resa conto che spesso i giovani non si accorgono che le persone anziane hanno bisogno di sorridere come noi, basta pochissimo per cercare di

accontentare le loro esigenze, bisogna comunicare e manifestare loro sicurezza, dolcezza, umiltà, infondere loro coraggio, spronarli nel proseguire il loro percorso di vita. Tutte queste parole corrispondono al mio modo di lavorare. Ho potuto osservare che non tutti i miei colleghi sono ligi al dovere, nelle loro vite, a parere mio, oramai istituzionalizzate. Nel mio percorso lavorativo mi è stato imposto di cambiare numerose strutture, molto spesso per "inadeguatezza" della mia Persona: venivo ingiustamente colpevolizzata di trasmettere troppo la mia sensibilità e di a vere un approccio lavorativo troppo dolce nei confronti degli ospiti. Credo e scrivo che le persone disumane fossero proprio loro. Ho cercato e cerco di avere un rapporto di confidenzialità con le persone che mi sono affidate, non è raro che mi rivolga a loro chiamandoli "nonni". Gli operatori che lavorano con persone anziane, autosufficienti e non, non possono esimersi dal dovere di rispettare l'autonomia e la libertà del malato. Bisogna tutelare la persona anziana in quanto fragile. Gli abusi nei loro confronti sono ascrivibili a violazioni dei codici deontologici e disciplinari, oltre che costituire, ovviamente, reati veri e propri. Nelle case di riposo vi è un'alta incidenza di episodi di maltrattamenti, sia di natura fisica che psicologica, ove ho lavorato ho assistito in determinate situazioni ad azioni lesive del tutto gratuite e scaturite dai più futili ed insignificanti pretesti. Le intimidazioni, le aggressioni verbali e non, le azioni "punitive" quali strattoni o spinte o addirittura cadute "accidentali" sono all'ordine del giorno. Ammetto di avere taciuto perché cosciente dei rischi insiti nel ribellarsi: problemi coi colleghi o perdere il mio posto di lavoro. Ammetto di avere io stessa preso atto di somministrazioni di farmaci tranquillanti in dosi superiori a quelle prescritte dal medico durante i turni notturni e di avere taciuto. Ammetto che per stanchezza, nervosismo, per poca voglia di lavorare tutta la notte, ho spesso ignorato alcune richieste notturne, per un'ora sola di sonno, perché lo fanno tutti gli altri miei colleghi ed è quasi una abitudine. Quando mi è capitato mi sono sentita in colpa. Ho assistito a scene raccapriccianti ed immorali, ho visto persone costrette a patire la fame se mancava il tempo di alimentarle, a rimanere sporche se non bastava il tempo per lavarle, l'elenco potrebbe essere ben più lungo, ma mi fermo perché la rabbia mi assale. Vorrei che il mio ambito lavorativo cambiasse metodologia e modo di porsi davanti all'utente. Vorrei cambiare anche io e soprattutto migliorarmi per aiutare gli altri a vivere con più dignità e rispetto, o forse è tardi per questo intento? O forse è un problema mal posto in partenza?

Considerazioni tra Teoria e Fenomenologia osservata.

Il medico francese Philippe Pinél (Parigi 1745-1826) affermò che il regolare e l'organizzare la vita dei malati di mente all' interno di strutture che fossero in grado di curare e non più solo di "contenere" ed "alienare", fosse da considerarsi la metodologia terapeutica più produttiva.

Lo psichiatra francese Jacques Lacan (Parigi 1901-1981) combatté con accanimento, a tratti fortemente polemico, il sistema istituzionalizzante utilizzato dalla società per la cura del Paziente psichiatrico.

In Italia lo psichiatra Franco Basaglia (Venezia 1924-1980), maggiore esponente del movimento antipsichiatrico, contribuì al rinnovamento della psichiatria e tentò una trasformazione radicale dell' assistenza manicomiale, che portò nel 1978 alla promulgazione della Legge 180, la quale determinò la chiusura degli Ospedali Psichiatrici sostituendoli con centri di igiene mentale, e la creazione di reparti di psichiatria all' interno delle strutture ospedaliere presenti nel territorio. L'applicazione di questa legge è stata accompagnata da molte difficoltà e da molteplici polemiche, legate sostanzialmente al reinserimento familiare e sociale di Pazienti con alle spalle periodi di alienazione a volte molto lunghi. Il lavoro di Basaglia ha ricoperto una rilevanza fondamentale nel moderno trattamento della patologia psichiatrica. Rifiutando l'idea stessa di trattamento coattivo imposto dalle autorità competenti in modo indiscriminato, Basaglia ritenne che alla base del disturbo mentale andassero a ricoprire importanza eziologica i condizionamenti e le contraddizioni sociali, e che, pertanto, la guarigione o, quanto meno, il decorso migliorativo del quadro clinico, presupponesse il superamento dell' alienazione. Basaglia denunciò inoltre il carattere repressivo, ideologico e la concezione costrittiva e non terapeutica delle istituzioni psichiatriche, che rispondevano maggiormente ai bisogni di sicurezza e di perfezione sociale che non alle oggettive necessità del paziente psichiatrico. Ebbe così forte impulso il reinserimento del paziente nella vita sociale la quale, in senso etico, dovrebbe appartenere a tutti in eguale misura.

L'internamento sino a pochi decenni fa è stato considerato il principale strumento di identificazione sociale del folle, e lo psichiatra il professionista che di elezione valutava la pericolosità del malato nei confronti della comunità. I processi sociali, di fatto, organizzati pertanto per il riconoscimento, l'accettazione ed il trattamento della malattia messo in opera da parte di uno o più individui ricoprenti ruoli specifici può rendere "sociale" la definizione di malattia mentale e produrre quindi il ruolo di paziente.

Tutto ciò per alcune riflessioni e interrogativi sorti durante la stesura di questo contributo, limitato allo scopo dichiarato di limitarsi a descrivere la fenomenologia osservata e non ad

interpretarla inferendo conclusioni. La struttura per la terza età è una inevitabile allocazione di un essere umano allorché non è più possibile una sua permanenza nell'ambito sociale e/o familiare. E' un luogo dove alle problematiche di natura strettamente fisiche si sovrappongono fattori che già di per sé predispongono l'avvento della sindrome da istituzionalizzazione in un soggetto. Sotto il profilo del problema sociale, l'anziano ha sostituito il malato psichiatrico.

La struttura per la terza età, è pertanto una realtà più complessa di altre realtà istituzionalizzanti come la reclusione in carcere, le situazioni che portano all'accoglienza di un minore in un Istituto, le scelte di vita legate al modello socio-culturale in cui il soggetto è inserito (ad esempio l'intraprendere una carriera nelle Forze dell'Ordine o dell'Esercito, ma anche l'adesione ad ordini monastici e sacerdotali o l'appartenenza a gruppi religiosi integralisti). Sono tutti aspetti da ricondursi all'eziologia sociale della sindrome da istituzionalizzazione. Occorre ancora tenere presente inoltre che l'anziano istituzionalizzato ancora autonomo, non è solo privato della libertà, ma è anche sottoposto ad una continua sorveglianza, attiva e/o passiva, che preclude ed inibisce l'autonomia personale. Persino il possedere oggetti personali può essergli impedito. L'essere umano ha necessità di gestire un proprio spazio; la prossemica (disciplina che studia l'organizzazione dello spazio come sistema di comunicazione) evidenzia molto chiaramente che i confini, i contorni, le zone che ogni essere umano "disegna" attorno a se stesso, hanno significati profondi e radicati. La violazione pressoché costante di questi "confini invisibili" inevitabili in una struttura per la terza età, induce l'insorgere della sindrome da istituzionalizzazione. Le Pazienti descritte negli esempi 2 e 6, nonostante una completa autonomia motoria, subivano (e subisce la Paziente vivente) costanti limitazioni nei movimenti; anche per fare una breve passeggiata nel giardino della struttura occorre la presenza di un'operatrice. Il ritrovarsi in un ambiente esterno era (ed è) causa di forte ansietà. La Paziente M. A. B. possedeva come unico oggetto personale una borsetta logora che utilizzava per nascondere i suoi tesori: tovaglioli di carta e fagottini di cibo di cui si privava per portare qualcosa anche agli animali presenti nel giardino. Quando le operatrici in turno si accorgevano di questi piccoli sotterfugi non esitavano a svuotarle la borsa nella pattumiera, la Scrivente ricorda ancora la disperazione della Paziente M. A. B. quando, prendendo servizio per il turno notturno, non aveva nulla da portare ai gatti, i suoi unici amici.

Conclusioni.

Più che di conclusioni nella accezione comune del termine, si tratta di riflessioni su alcuni problemi, a nostro avviso, aperti.

Quale il ruolo di operativa utilità di un Counselor in una struttura per la terza età? E' un'ovvia riflessione nella quale, allo stato attuale, le Autrici non hanno elementi per fornire risposte. E' certo che in alcune situazioni particolari osservate (in particolare quelle dei Pazienti A. M. B., C. D. e M. B.) un approccio a carattere empatico ha fornito effetti oggettivamente riscontrabili.

Ringraziamenti.

Le Autrici ringraziano il Dr. Gianfranco Frezza per avere supportato come Relatore l'argomento di indagine. Un particolare e sentito ringraziamento va al Dr. Maurizio Giunchedi per la sua disponibilità alla lettura critica del manoscritto e per avere fornito preziosi suggerimenti. Restano ovviamente le Autrici le uniche responsabili per quanto della presente indagine fosse soggetta a critiche e/o osservazioni negative, particolarmente per i contenuti basati su indagini compiute indipendentemente l'una dall'altra nelle rispettive strutture lavorative.

E' ancora gradito ringraziare Rita Barbolini e Salvatore Ganci per l'incoraggiamento ed il supporto ricevuti nella fase di redazione del testo.

Al piccolo Alessio Ganci va infine un sentito ringraziamento per le competenze informatiche e di formattazione del testo in vari formati.

Riferimenti bibliografici.

Umberto Galimberti, Psicologia, (Garzanti Editore, Milano, 1999)

Silvano Arietti (Editor), Manuale di psichiatria, volumi 1, 2, 3 (Boringhieri Editore, Torino, 1970). Maurizio Biffoni, "Comunicare: i segreti per esprimere se stessi e capire gli altri", Riza Scienze,

149, 11- 86, ottobre 2000.

José Mannu, "La riabilitazione senza... posti letto" in:

www.istc.cnr.it/erg/contributi/materiali/mannurazionaleconvegno.pdf

Autrici

Valentina Barbolini

Giovanna Rezzoagli Ganci

Studio effettuato nella Scuola di Counseling, classe prima, Rapallo. Anno accademico 2006/2007

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