Quando sperimentai l’esperienza che la mente crea il “mio” mondo, dentro il quale ancoravo le credenze, gli schemi e le abitudini, compresi il “concetto” di sofferenza.
La sofferenza esiste perché non ci permettiamo di conoscere la parte in ombra che è dentro di noi, perché abbiamo paura della sua esistenza, ci è sconosciuta, la copriamo, la nascondiamo e la neghiamo, con tutte queste azioni, lì in quel momento diamo vita alle cause della sofferenza. È come se nel nascondere le cause non ci permettessimo di far emergere la nostra autenticità, ed è solo quando ci diamo questo permesso che allora possiamo riconoscere che esiste un sentiero da cui uscire dalla sofferenza. Il passaggio per la liberazione dalla sofferenza è un percorso lungo, in alcuni casi tutta la nostra vita o mai possibile, ma riconoscere che esiste la possibilità di trasformare la sofferenza, questo aiuta a vivere.
Sono arrivata a Palazzo Francisci, per una serie di coincidenze fortuite ed ho incontrato persone ricche di esperienza con le quali ho potuto imparare cose nuove e confrontarmi ed ospiti della residenza che mi hanno permesso di risuonare con il loro dolore.
Ho scelto quindi di rimanere in questo posto e di svolgere il tirocinio e sviluppare la tesi, oltre che per la gentile concessione della Dott.ssa Laura Dalla Ragione, Responsabile del Primo Centro Residenziale Pubblico Extraospedaliero per i DCA presente in Italia e sorto a Todi, anche perché ho sentito dentro di me la possibilità che la consapevolezza e le tecniche imparate in Mindfullness Counselling potessero essere strumenti con cui poter aiutare a riconoscere alcuni meccanismi distruttivi della mente ossessiva- compulsiva, che in particolare nella fase dell’adolescenza, risultano devastanti, e si esprimono nei Disturbi del Comportamento Alimentare.
L’adolescente ricerca la possibilità di strutturare la propria identità, ma vive il corpo come un nemico.
Il corpo in gioco dell’adolescente subisce tutti gli attacchi più evidenti, perché il corpo si trasforma continuamente, non ha fasi di arresto, il piacersi di oggi è transitorio e per questo viene idealizzato in immagini prese da fuori..
Nella difficoltà di accettare l’immagine di sé, c’è lo sguardo e le frasi che gli altri gli rimandano.
Ed è proprio il corpo sessuato che viene rifiutato dall’adolescente con DCA che desidera ritornare ad un corpo bambino, o proteggere con il soprappeso il corpo bambino, dove è nascosto il dolore. Quasi a voler rivivere sul corpo quello che la mente gli nega, o quando sembra preferire il dolore fisico a quello emotivo e lì trasferisce la sua sofferenza.
“…al culmine della malattia le pazienti sono puro corpo e non pura mente come si potrebbe pensare: quel loro corpo dilaniato rappresenta un’identità frammentata e incerta, è un involucro vuoto da modificare, lesionare, e odiare per sentirsi vive”. (Dalla Ragione, 2005 p.19). Ma i DCA non sono solo tra gli adolescenti, spesso partono in fase adolescenziale e si alternano con manifestazioni più o meno patologiche per lunghi periodi fino a presentare il loro conto in momenti della vita quando è meno atteso; in menopausa, dopo una separazione, un abbandono del fidanzato, come dire quando quel dolore va in risonanza con quello antico sepolto nelle parti in ombra, allora c’è come un troppo pieno e il corpo parla.
Ho sperimentato il presente studio, con le pazienti ed i pazienti della residenza, nella ricerca di un’unità tra mente-corpo attraverso l’utilizzo della meditazione “vipassana” (visione profonda) o Mindfulness (Consapevolezza) e della condivisione in gruppo di quanto emergeva. Come counselor durante gli interventi ho cercato di promuovere l’autostima e la ricerca di quelle risorse che permettono il ben-essere individuale, permettendo a loro di far emergere il dolore e dandone dignità, aiutandole ad osservare i processi della mente nel creare condizioni disfunzionali, aiutandole a disidentificarsi con la loro ideazione, ed aiutandole ad ancorarsi alle loro risorse interne. L’identità, in una nuova richiesta di senso, può divenire consapevolezza della propria forza di trasformare il dolore e di ascoltare quel bisogno nascosto. La trasformazione di “quel” dolore permette di riprogettare una nuova identità che autorizza ad esistere oltre il disagio, dandosi finalmente la possibilità di vivere.
Lo scopo con cui è stata condotta questa ricerca è quello valutare come il pensiero ossessivo compulsivo all’interno dei disturbi del comportamento alimentare possa essere trasformato, attraverso la consapevolezza della propria presenza mentale.
La presenza mentale è la consapevolezza del respiro che diventa un ancoraggio importante nei momenti di maggiore crisi, quando non si possiede più una mente, ma si viene posseduti dalla mente ossessiva che impone comportamenti disfunzionali e autolesivi.
Il contesto ambientale: Palazzo Francisci USL 2 Todi (Perugia)
La Residenza Palazzo Francisci è la prima struttura pubblica in Italia in regime residenziale e semiresidenziale, interamente dedicata al trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). È nata il 7 maggio del 2003 in richiesta a quanto riportata dalle linee-guide regionali del 2001 in cui si faceva presente, oltre all’insoddisfacente situazione assistenziale in Umbria, l’assenza nella regione di strutture idonee per il trattamento terapeutico e riabilitativo in regime di residenzialità e semi residenzialità, dove poter proseguire il trattamento terapeutico, in ambiente protetto per alcuni mesi senza dover ricorrere a lunghe degenze in reparti psichiatrici.
Palazzo Francisci è una vera e propria villa cinquecentesca al centro di Todi, circondata da un parco di lecci secolari, al cui ingresso è appeso un quadro con una frase “L’anima ha bisogno di un luogo (Plotinio)”. Questa frase racchiude la filosofia della residenza, “luogo come corpo, come spazio condiviso di cura in cui si cerca di ricomporre un Io scisso tra un modello ideale irraggiungibile e una realtà fatta di incertezze e fatiche” (Dalla Ragione 2007).
Dentro la casa le pazienti hanno ognuna la propria camera che personalizzano e vivono, un salone dove riunirsi dopo i pasti, a scambiare due chiacchiere, lavorare a maglia, guardare la televisione, una stanza per le terapie di gruppo, con scaffali su cui troviamo libri,giochi di società, colori e fogli per dipingere,tre bagni comuni, una palestra per le attività con parchè a terra, in cui troviamo tappeti per esercizi e cuscini, una cucina con la sala da pranzo. Le sale sono strutturate come i vecchi palazzi cinquecenteschi, ampi e con soffitti alti e decorati, l’arredo delle stanze comuni è fatto da mobili antichi, le porte sono state ristrutturate e mantenute tali, c’è in questo luogo un gusto e un piacere del contesto che sono raffinati e confortevoli. L’esperienza che le persone ricoverate fanno a Palazzo Francisci è “un’esperienza di cura intensiva accompagnata da un’esperienza di vita accogliente e ricca” (Dalla Ragione 2007).
In questa casa passano un periodo che va dai tre ai cinque mesi con un équipe di circa trenta persone con diverse figure professionali che gestiscono un programma riabilitativo intensivo con un approccio al disturbo di tipo integrato, intensivo e globale. Tutta l’équipe professionale lavora all’interno di un programma terapeutico che ha un unico filo conduttore: il ben-essere delle persone ricoverate, il programma viene verificato settimanalmente da riunioni e giornalmente gli interventi vengono sottoposti a continue verifiche. Il personale comprende: 9 Educatori, 2 Medici psichiatri, 4 psicologi, 1 Medico Igienista agopunturista, 1 Medico endocrinologo e omeopata, 1 Fisioterapista, 2 dietiste, 1 Filosofa che opera come formatrice e counselling filosofico, 1 infermiera caposala, 1 infermiera coordinatrice, 1 responsabile dell’organizzazione, qualità e relazioni esterne, 1 segretaria, personale per le pulizie e addetti alla consegna dei pasti.
L’obiettivo, in questi mesi di residenza, non è la totale guarigione, ma il ripristino di alcuni parametri fisici, imparare a gestire le emozioni, il peso, il cibo e soprattutto fornire strumenti utili ad iniziare un cammino di cura che proseguirà anche dopo la dimissione affiancato da un continuo monitoraggio da parte dei terapeuti per un periodo non inferiore a due anni.
In residenza ci sono persone provenienti da tutta Italia e grazie alla presenza di personale pediatrico specializzato è l’unica struttura in Italia che può ospitare e accogliere pazienti sotto i 14 anni.
Prima di entrare in Residenza le persone che dovranno essere ricoverate, incontrano più volte i terapeuti, assieme ai familiari, per accertare o potenziare la motivazione al trattamento e renderli maggiormente coscienti del cammino che dovranno intraprendere e delle varie difficoltà a cui potrebbero andare incontro.
A tale proposito viene firmato un contratto, le ricoverate si impegnano ad accettare le regole del programma terapeutico e della residenza. Si impegnano a prendersi cura della propria salute, ad evitare comportamenti autolesivi e di compenso, devono tenere in ordine la loro stanza, i loro vestiti, i telefonini vengono ritirati la mattina e consegnati la sera per le telefonate di rito alla famiglia, mentre vengono lasciati liberi nell’uso durante il week-end. Accettano il fatto che in residenza non ci sono specchi né bilance a loro libera disposizione e che i bagni vengono chiusi per 2 ore dopo i pasti, che devono compilare un diario e chiedere aiuto ai terapeuti.
Ogni settimana i pazienti hanno un programma terapeutico a cui aderire fatto di incontri individuali e di gruppo dalla mattina alle 8.30 (orario della colazione), alla sera alle 22.30. (ora del riposo notturno). Le attività sono scandite dai 4 pasti giornalieri a cui viene dato il nome di terapia alimentare e l’inizio dei pasti è scandito da “buona terapia”, perché qui il cibo è medicina e procede con un’alimentazione meccanica, non si devono assaporare i cibi, sentire il gusto, ma semplicemente mangiare, questa è la fase educativa così come non si deve mai parlare del cibo mentre si mangia.
Ci sono inoltre, attività quali: colloqui psicologici e psichiatrici, colloqui nutrizionali, incontri con le dietiste, gruppi terapeutici di psicoeducazione, incontri con i familiari, terapia dello specchio, counselling filosofico, attività di meditazione e rilassamento, attività creative personalizzate, laboratorio di poesia.
La partecipazione alle attività e agli incontri è obbligatoria, solo l’equipè può decidere un eventuale esonero. L’obiettivo è imparare a prendere in considerazione il fatto che vivere, significa integrare tutte le attività della giornata. La cura di sé, parte dal riuscire ad insegnare loro cosa significa prendersi cura di sé, affidandosi alle cure dei terapeuti, esse imparano a riconoscere il pensiero funzionale da quello disfunzionale. Come recita il contratto che sottoscrivono “ Il significato di queste regole è quello di creare per voi una cornice di stabilità in cui lavorare nel modo più tranquillo e sicuro”.
“in questa casa c’è l’amore vero:determinato e specifico.
Perché come dice Karl Jasper, chi ama l’umanità in generale non ama nessuno” Nicoletta
Difficoltà emergenti dal loro comportamento abituale
L’incostanza, lo stato ansioso continuo, l’umore nero, il bisogno di controllo assoluto, il pensiero ossessivo sul cibo, ( legato alle calorie, alle quantità, alla qualità, al gonfiore del corpo, ecc) sono le caratteristiche più evidenti delle difficoltà emergenti dal loro comportamento.
Esistono spesso, narrato nei loro racconti due parti: una che vuole restare nella malattia e continuare a mantenerla perché la trova “vantaggiosa” e l’altra parte che vuole collaborare per la guarigione, ma ancora non ne ha com-preso il vantaggio. Dentro di loro la lotta è evidente e spesso ne causa un umore afflitto, depresso o non collaborativo. Quando le terapie iniziano a “mostrare” la parte malata rendendo evidente “il danno”, spesso nominano la “parte malata” chiamandola con nomi quali: ”la mia padrona”, “il diavolo in corpo”.
“….Vorrei non avere paura di ricaderci, vorrei non essere terrorizzata dall’idea di tradire la mia padrona…” Martina 24 anni A.N.
“…Una parte di me vuole guarire, ma c’è l’altra il diavolo che ho in corpo che vuole morire, non vuole più vivere…” Cecilia 17 anni A.N.
Le difficoltà emergono tutte le volte che si mettono in una relazione profonda con l’altro, quando decidono di aprirsi, e lo stato di profondità della comunicazione dipende dal loro stato volubile e incostante che vivono.
Il gruppo aiuta molto la comunicazione del loro disagio. Lavorare in gruppo, permette di condividere il “dolore” profondo che è in ognuna di loro e che sembra avere sintomi comuni. Quando comunicano con la parte di loro collaborativa, la relazione viaggia su un piano di relazione normale, ma il grado di normalità è mutevole e transitorio, comunque prima o poi la parte malata emerge e comunica manipolando, disattendendo qualsiasi condizione definita prima. La relazione diventa quindi mutevole e fragile. Le pazienti tengono sotto controllo le emozioni, vogliono dominarle e quindi sono dominate da altre emozioni più afflittive e devastanti. Le emozioni interiorizzate sono spesso autolesive, poi improvvisamente lo stato mentale cambia e la comunicazione scende su un piano di profondità autentica.
“…mi sono sentita un contenitore, sì un contenitore, mentre io vorrei essere solo contenuto” Annarita 38anni B.N.
La difficoltà per chi entra in relazione con loro diventa la fatica e il disagio di non sapere mai come avverrà questa relazione.
Ho spesso iniziato gruppi di lavoro in cui alla domanda “come state” non rispondevano, il silenzio regnava pesante e tetro, lì più volte ho sentito che non volevano collaborare, come se io stessi lì per me e non per loro. La meditazione è sempre in questi casi il mezzo che permette al silenzio di cambiare lo stato umorale delle persone coinvolte.
La difficoltà più grande resta la relazione con l’emozione, il percepire che l’emozione sorge e se ne va che è transitoria, in genere vogliono controllarla, dominarla. La meditazione aiuta a spostare il focus di interesse e posizionarlo prima sul corpo e poi sul respiro. Lentamente le persone si centrano, arriva una sorta di pace di “tregua” al conflitto interno. Il rilassamento non è mai presente le prime volte, gli occhi chiusi per molte sono fonte di disagio, tenere il corpo fermo diventa difficile, ma dopo una serie di volte in cui viene sperimentata questa condizione allora, il loro colloquiare assume toni differenti, non più metallico e freddo, ma profondo, caldo come a voler far emergere una sorta di intimità, tra sè e sè.
Il quadro quindi della relazione si è presentato molto variegato di condizioni, il lavoro nel gruppo un continuo spazio di modificazioni in cui accogliere è stata la condizione fondamentale, stare la parte più difficile perché richiedeva un ascolto particolare non giudicante ed infine l’accettazione di poterlo lasciar andare permette la sperimentazione della transitorialità dell’esperienza.
Il comportamento ossessivo: lo stato della mente e la qualità della mente
Conoscere la natura della mente è molto più complicato che studiare i fenomeni esterni e in agguato ci sono sempre i nemici nascosti dell’orgoglio e dell’avversione che fanno deragliare la propria crescita. La mente sperimenta ogni cosa e rimane molto soggettiva. Le persone decidono attraverso le proprie azioni in che modo vedere il mondo, attraverso occhiali rosa o neri. Questo spiega perché ci siano così tante diverse versioni quando dei testimoni descrivono un incidente. Chi è posseduto dal pensiero ossessivo non può fare a meno di vivere quella condizione che è la ricerca del perfezionismo, del controllo, è solo quando entra la percezione del corpo, il “come senti quello che dici? “, “dove lo senti?”, che si aprono le porte alla possibilità di una mente consapevole che riconosca la possibile qualità degli eventi che vengono vissuti. Attraverso il potere dell’intuizione è possibile riconoscere l’ energia della mente e la sua consapevolezza.
Nella vita quotidiana la mente viene meglio riconosciuta attraverso l’identificazione è quando diventa possibile farla riconoscere con quell’esperienza di calore creato nel gruppo, con un mandala o con una poesia, con le qualità dell’amorevolezza, della compassione per la loro sofferenza, per loro stesse e per l’altro da sé che la mente sviluppa quelle qualità innate e lì, ci sarà una crescita importante.
Alla fine diventa chiaro che il fatto che la mente possa essere consapevole è più importante di ciò di cui è consapevole. Si comprende che le figure nello specchio sono meno importanti della sua capacità di rifletterle. Una metafora utilizzata in molti insegnamenti buddisti è quella della mente come uno specchio limpido che riflette la realtà. Questo specchio è impolverato è reso sporco dalle contaminazioni mentali che deformano e distorcono la realtà. Ripulire lo specchio è la capacità di conoscere se stessi. In Termini Rogersiani, per conoscere se stessi è necessario ridurre la discrepanza tra l’esperienza di sé ed il concetto di sé, favorendo un senso di apertura ed auto accettazione che è poi alla base del percorso che va dalla comprensione al cambiamento, all’evoluzione della persona. Il respiro e le sensazioni del corpo sono gli ancoraggi più utilizzati nella pratica della consapevolezza.
Un ottimo modo per mantenere la mente aperta e vigile e rallentare il vortice dei pensieri condizionati, è la pratica della meditazione, la quale ci permette di portare “attenzione consapevole”. La consapevolezza guarisce, perché ci nutre attraverso l’ascolto empatico di noi stessi, liberandoci progressivamente dalla mente critica, reattiva e giudicante, e ci permette di ottenere il miglioramento dell’umore, lo stato di ben-essere, e lo sviluppo della serenità interiore.
La consapevolezza permette di prendersi cura di sé.
L’accoglienza : aspetti fenomenologici
Nel programma della settimana il “gruppo Mindfullness” è tenuto da me dalle 9.30 alle 11.00 di tutti i martedì. Quando entro all’interno di Palazzo Francisci, spesso incontro le ragazze lungo le scale, affacciate ai finestroni o in giardino a chiacchierare o fumare, ci salutiamo. Entro nel salone della residenza, trovo altre pazienti che guardano la televisione, leggono o chiacchierano, qualcuna sta ancora finendo la colazione nella sala da pranzo. Il primo contatto che ho con loro è nell’osservarle, così come sono. Ci sono alcune volte nuove pazienti, timide sedute nei grandi divani che sprofondano, le saluto mi presento, chiacchiero con qualcuna che mi rivolge la parola o che sento ha bisogno di relazionarsi, a tutte auguro una buona giornata e suono la campana del salone che indica l’inizio delle attività, già a loro conoscenza dal programma settimanale. Il loro muoversi è lento e faticoso, come se lo spostarsi sia impedito da qualcosa che le trattiene nel loro posto. L’ingresso nella sala in cui viene condotto il gruppo, avviene alla spicciolata. Quando tutte le persone sono arrivate e la porta è chiusa domando “come va?”, inizialmente rispondevano bene o male, poi piano piano nel prendere confidenza anche con il linguaggio del corpo, qualcuna azzarda ”bene nel corpo, ma la testa è sempre piena di pensieri” , “sono stanca, affaticata”, “sono stanca ed ho freddo”, “sono stanca e agitata”, “bene nel corpo e nella mente…forse durerà poco, ma adesso è così”, “”..ho sempre mal di stomaco e qualsiasi cosa avvenga sento un mattone messo qui di traverso..”. Se ci sono persone nuove spiego loro che questo gruppo utilizzando il modello mindfullness e praticando la meditazione lavora sulla possibilità di riconoscere le emozioni , imparare a stare e se afflittive consapevolizzare per poterle comprendere e solo dopo trasformarle. Nel laboratorio da me tenuto lascio che emerga il loro stato della giornata, del momento e lavoriamo su quello che accade, ma cerco di avere una particolare attenzione all’emozione della rabbia. Questa emozione è il fulcro della possibilità trasformativa è un’energia potente. Spesso non riconosciuta che permette di portare materiale di lavoro nel gruppo. Spesso il tratto anoressico, nella fase di ingresso in resistenza è poco collaborativo, come se tutti i loro sensi fossero ritirati, non provano nessun sentimento e tanto meno si riconoscono la rabbia, infatti i commenti più frequenti sono “di solito io non mi arrabbio mai” con frasi come questa, inizia il lavoro. Ci prendiamo 15 minuti per praticare la meditazione vipassana e poi la domanda “adesso come state?”. Il lavoro di accoglienza l’ho impostato nel far sentire tutte a loro agio, soprattutto nella postura, nel proporre loro una disposizione circolare e dato che sono sedute a terra che possano avere dei supporti dietro la schiena, perché molte di loro hanno corpi fragili e ossuti oppure all’opposto non riescono a stare sedute a terra per la voluminosità del corpo e allora vengono scelte sedute idonee. Osservo molto il modo in cui stanno sedute, perché questo mi fornisce il primo indicatore della loro tranquillità o della loro agitazione. Alcune pazienti, non possono tenere gli occhi chiusi, perché altrimenti gira loro la testa, altre effettuano continui dondolii con le gambe, perché non possono stare ferme, qualcuna non riesce neppure a stare seduta, solo in piedi e restano ai bordi del cerchio appoggiate a qualcosa e meditano o intervengono da quella posizione. L’accoglienza in alcune giornate è stata molto faticosa, perché loro sono lì con il corpo e là con la mente. In genere non si fidano di quello che andiamo a fare, non si fidano delle loro compagne, non si fidano di chi le guida e quindi anche di me. All’inizio abbiamo passato alcuni incontri nel riuscire a “sciogliere il ghiaccio”, nel riuscire ad oliare la relazione. Il gruppo a parte alcune settimane in genere è soggetto a continui ingressi, dovuti al fatto che molte ragazze vengono a fare un modulo, ossia una settimana di “rinforzo” dopo essere uscite dalla residenza, altre entrano per periodi brevi e quindi il gruppo è spesso soggetto a modificazioni e tutte le volte è necessario riuscire a creare il cerchio di accoglienza.
L’accoglienza è sicuramente la base che facilita lo sviluppo dell’alleanza con le pazienti, solo quando si sentono sicure e protette è possibile osservare come si sperimentano. Spesso ciò accade in due direzioni: da un lato provano a manifestare liberamente se stesse, i propri vissuti ed atteggiamenti; dall’altro può accadere che alcune di loro acquisiscano fiducia anche nella propria creatività e attraverso i mandala o le poesie haiku, parlino di dei loro problemi anche esistenziali.
Mi sono resa conto quanto importante sia stato avere dentro di me l’accettazione, ovvero l’accoglienza incondizionata dell’altro, così com’è, senza alcun giudizio di valore sui suoi pensieri, sentimenti o comportamenti, è proprio quando sono riuscita a percepire questa condizione che l’accoglienza ha dato i suoi frutti migliori. Ho provato nei confronti di queste pazienti uno stato di empatia, ovvero la percezione di poter guardare il mondo con i loro occhi, riuscendo a comprenderne i sentimenti e le emozioni fino a vivere in un certo modo la vita dell’altro. E’ questo che credo abbia comportato la sensazione di rispetto, delicatezza e grande attenzione che hanno potuto sperimentare. Questa condizione ha permesso anche a me di esperire una sorta di corrente di rispetto e affetto. Un flusso che parte da me verso di loro e che mi ritorna. Quando questa condizione è presente, avviene una sorta di congruenza, ovvero ciò che una persona è realmente all’interno della relazione, senza alcuna assunzione di ruoli particolari e senza dissimulazione dei sentimenti, delle emozioni e più in generale dei vissuti riferiti alla relazione, ivi compresa la possibilità di comunicarli all’interlocutore. Per fare questo sia essenziale distinguere ciò che si riferisce alla relazione e ciò che invece appartiene alla propria realtà interna. Quando esiste questa condizione mi accorgo che compare, un alto livello auto-consapevolezza. Questa non è una condizione di tutto il gruppo, perché la stessa esperienza è filtrata in modo differente, perché esistono fasi differenti del percorso. Essere lì in Residenza nello stesso periodo è una definizione di spazio temporale comune e non di livello di consapevolezza. L’auto-consapevolezza le porta su un nuovo piano che passa prima dall’accettazione e poi dallo stato di sorpresa delle proprie abilità ed è lì che quando avviene compare anche una luce nuova nei loro occhi.
Fasi esplorative
L’ascolto del corpo e della mente avviene quando le loro ossessioni riescono ad essere placate dal respiro profondo e lento, attraverso la meditazione è possibile per alcune di loro sperimentare un vuoto interiore e da lì partire per effettuare lo stato esplorativo. Tutto questo lavoro risponde al linguaggio fenomenologico dell’esperienza che si sta vivendo sul corpo. Nel permettersi di esplorare le sensazioni del corpo si crea una nuova esperienza con le reazioni e le emozioni vissute lì in quel momento e in questo modo possono emergere i reali disagi. All’interno del gruppo di lavoro le pazienti, dopo aver sperimentato lo stato di fiducia verso se stesse, in primis, riescono ad utilizzare la saggezza del loro corpo per comprendere quello che veramente sentono. Per riuscire a superare il blocco della mente, diventa necessario essere più attenti a sé, trovare sollievo dalle tensioni e finalmente entrare in un tipo speciale di attenzione, diversa dall’attenzione quotidiana, passiva ed aperta, rivolta verso l’interno, centrata nel presente......e poi è chiedersi: “come sto adesso ?”(rif. Psicologia Umanistica di Rogers), le pazienti tendenzialmente rispondono : “bene” o “male”. Poi c’è voluto del tempo per riuscire a non far rispondere subito. rimanere nella sensazione vaga, indefinita, dove non è più possibile rispondere con una sola parola, perché diventa necessario trovare la sensazione sentita (felt-sense), o forse una frase o un’immagine......e tutta questa sensazione cosi ricca e complessa ha a che fare con quello che sta succedendo nella vita ora.
Questa esperienza dell’esplorazione diventa il nucleo del loro sentire, la capacità di “starci” senza fretta, con interesse, senza giudizio, con un atteggiamento amichevole, disposti ad ascoltare, ed a sorprendersi, che permette di accogliere e comprendere davvero quello che si sente e si vuole. Tutto questo a che fare con l’intuizione e la saggezza del proprio corpo. L’aspetto più profondo dell’esplorazione diventa riuscire a stare a proprio agio con “quello che ancora non so”, contemplarlo, ascoltarlo.... “è immergersi nella corrente interna della nostra esperienza interiore, per ritornare con nuove espressioni e parole che adesso sono fresche, nuove, appropriate e vive. Non sono parole e simboli separati dalla nostra esperienza, ma parole e simboli che si stanno creando in questo stesso momento, fresche e nuove a partire dall’esperienza” (Martin Siems).
Quando le pazienti entrano in contatto con il mare di esperienza che sta nel corpo comprendono come una determinata situazione è vissuta in quel preciso momento; riuscire a dare un nome a quella sensazione permette di accorgersi che dentro di loro qualcosa cambia e immediatamente, accade la sensazione del rilassamento, e in molti casi la percezione che si liberi dell’energia. Questo il cambiamento che percepiscono direttamente nel corpo.
Tutto questo processo permette una conoscenza più profonda e una maggiore capacità di affrontare le situazioni difficili e di trovare soluzioni creative.
“Quando sono lì a sentire il mio corpo delle volte vorrei fuggire, se resto avviene qualcosa…….alla fine sono più rilassata” Francesca 16 anni, AN. “Tutto quello che sento mi confonde è troppo …allora ascolto “piano”, così capisco di più” Concetta 27 anni, BED. Quell’ascolto più piano è come un aspettare che la sensazione si definisca, passando da uno stato di sensazione grezza a una sensazione più sottile, e per fare questo ci vuole del tempo e fiducia. “ Io non voglio sentire il mio corpo, se lo sento sto solo male, …io odio il mio corpo “ Laura 19 anni, AN. Per chi il corpo lo ha solo idealizzato non è facile stare lì, perché ne esce solo dolore, il condividere con le altre persone del gruppo, oppure l’uso del mandala o della scrittura attraverso le poesie haiku, abbassa questa tensione e permette un’esplorazione differente, dove cambia il mezzo esplorativo, giungendo a definirsi con modalità differenti con tempi differenti. Chi ha imparato ad ascoltarsi è chi è riuscito a darsi empatia, accettazione, ma questi sono processi lenti e faticosi, spesso modulati da stati emotivi altalenanti e solo più tardi si stabilizzano. Mentre procede il processo di psicoterapia, mentre le terapia alimentare prende piede e il loro corpo si struttura allora si strutturano anche le accettazioni delle parti più profonde di sé.
Creazione della relazione costruttiva e dell’alleanza da lavoro: la fiducia
Il gruppo delle pazienti a Palazzo Francisci è sempre modificato da nuovi ingressi o uscite e la fiducia nel gruppo è un elemento su cui si riesce a lavorare con qualche difficoltà. Quando le persone nuove si inseriscono nel gruppo viene data accoglienza e le si informa della modalità con cui vengono condotti gli incontri. Le persone al primo incontro sembrano fare un po’ fatica, ma già al secondo incontro il confronto continuo con le compagne di viaggio le porta ad entrare facilmente nella sequenza del lavoro. La fiducia nasce spesso a sottogruppi e lo si nota quando si scelgono per lavorare a insieme.
Di sé raccontano:
“Non mi fido di nessuno, neanche di me, così non rimango delusa” Barbara 30 anni
“Se mi fido, chi mi dice che poi è giusto?” Adriano 13 anni A.N.
“Quando mi sono fidato poi, sono stato fregato, quindi adesso è meglio che non mi fidi di nessuno” David 23 anni A.N.
“Una volta mi sono fidata, ma poi non è stato come volevo” Carmen 30 anni B.N.
Parlano della fiducia come di un affidarsi alle proposte di altri, con l’ ansia di perdere il controllo, senza immaginarne le conseguenze. Temono la fiducia, perché hanno il bisogno di dover controllare. La fiducia è la certezza di non essere traditi, è il sentimento opposto alla paura, in quanto libera dalla paura e dalla necessità di difendersi. Ma le pazienti con DCA hanno molta paura, perché preda di una “padrona invisibile”, che dentro di loro le domina ed a cui non sanno dire di no.
Fidarsi, affidarsi e confidarsi hanno lo stesso etimo, provengono dalla stessa radice, quasi a significare che c'è comunicazione confidenziale solo quando si sperimenta una atmosfera di rispetto e di sicurezza.
La fiducia è la condizione preliminare indispensabile per ogni incontro aperto e pienamente umano; per un rapporto di intimità e di confidenza. Un rapporto, cioè, in cui una persona può permettersi di essere se stessa senza indossare maschere, senza recitare parti, senza dovere necessariamente soddisfare le aspettative altrui. Mi è stato di grande aiuto lavorare utilizzando la meditazione, perché permetteva alle pazienti di togliere un po’ di sovrastruttura di pensiero, un po’ di pensiero ossessivo, così da poter accedere alle loro parti “intime”.
Per lavorare sulla fiducia del gruppo, ho utilizzato la modalità di far costruire ad ognuna un mandala che poi veniva unito ai mandala fatti dalle altre persone, facendo condividere la sensazione di :”com’è la sensazione di vedere questo nuovo mandala?”, “Che titolo possiamo dargli?” ed infine “Quale augurio possiamo dare alle persone che insieme hanno costruito questo mandala? Che tu possa essere….” Questi momenti finali sono molto intensi di emozioni e di solito consolidano il gruppo.
Il rapporto con me è stato vissuto in modo differente a seconda delle personalità, ma quando nasceva la fiducia nel gruppo aumentava la fiducia verso di me. La fiducia sia nella relazione con me che nel gruppo, l’ho vissuta come il superamento di uno scoglio che poi portava in mare aperto calmo e tranquillo. Con la relazione costruttiva, esiste una sorta di reciproco riconoscimento che porta uno stato di empatia profonda e qui l’alleanza è elemento fondamentale. Il messaggio non detto è stato “Io e te condividiamo la stessa sensibilità verso la “malattia”, ed insieme siamo più forti.”
Antonella 25 anni, abusata dal fratello all’età di 13 anni e sofferente di Bulimia Nervosa, “Ho capito che posso fidarmi delle mie sensazioni del corpo, perché facendo la meditazione ho sentito delle parti che di solito non sento. Non so perché ma quello che facciamo insieme mi serve tantissimo e sento che posso fare ….grazie per quello che ci insegni è molto prezioso”.
Elisabetta 43 anni, affetta da B.N. da 20 anni. ”Non vedo l’ora che arrivi il momento in cui c’è il gruppo Mindfullness perché quando facciamo meditazione io sento il mio corpo e poi dopo…ecco io posso anche accarezzarlo e mi sento davvero in pace. Parlare dopo che la mente è più tranquilla mi permette di dire davvero le cose che sento dentro…., sì mi fido di questo metodo, e poi mi fido di te”.
Queste relazioni di fiducia mi hanno fatto pensare a qualcosa di più universale, come se credere sia fidarsi, sapere di poter contare su un’altra persona o su un gruppo sia credere nell’altro e quindi una sorta di riconoscimento dell’altro da sé. La fiducia che compare nelle relazioni sono il sentirsi compresi da chi ascolta, il sentimento di indipendenza provato nell’atto di fare delle scelte o di prendere delle decisioni.
Verifica e separazione
La fiducia nel processo che sperimentano, sprigiona a seconda dei casi elementi di creatività. Lo si verifica nella richiesta di scrivere poesie o dipingere mandala e soprattutto nell’accorgersi dell’altro. Dell’altra persona nel gruppo, della compagna di fianco, o della difficoltà che esce da parte di qualcuna che come un accorata richiesta di confronto-aiuto, viene accolta. La propria esperienza viene offerta come elemento di aiuto.La consapevolezza è accorgersi che diventa possibile vivere la propria collera, senza che diventi una catastrofe, che la paura esiste come arriva, poi passa.
“…è come se adesso mi sia chiara la direzione, non so come sarà domani, ma per adesso è così” Francesca 22 anni, AN.
Chi riesce a portare la consapevolezza dentro di sé condivide con il gruppo osservazioni positive, anche il suo organismo funziona in modo più adeguato, compaiono elementi vitali quali : mestruazioni, aumento ponderale, approccio adeguato all’alimentazione, che fanno parte del ciclo della vita.
La consapevolezza porta le pazienti ad osservare il loro stato da una nuova prospettiva, che ha un po’ il sapore della determinazione e della libertà. Lo si osserva nel rapporto con il loro corpo, c’è maggiore accettazione di “cos’è” senza l’ossessione del controllo. La persona è libera di scegliere tra la vita e la morte, sia in senso psicologico che fisiologico, mentre sceglie la vita concorre a consolidare e migliorare se stessa. Questi aspetti, non sono certo dovuti solo al lavoro del Mndfullness Counselling, ma ho potuto osservare che la modalità con cui le pazienti si esprimono sono parte integrante del lavoro fatto insieme. “Io in questo spazio ho trovato la possibilità di rilassarmi e accettarmi..” Elisabetta 30 anni, AN.
Ho consolidato l’idea che le dinamiche che avvengono all’interno del gruppo abbiano una loro saggezza che è specifica di quel gruppo fatto da quelle persone, e che il gruppo usi il tempo che ha a disposizione per raggiungere quegli obiettivi che gli servono. Ho osservato “salti” di consapevolezza che sono stati possibili solo per le condizioni create dai partecipanti, dove io sono stata solo il regista di una storia già scritta. La separazione dalle persone che terminano il loro percorso è sempre teneramente emozionante, le pazienti lasciano lettere o piccoli ricordi, bigliettini o ringraziamenti in simbolici oggetti .
Le persone che lasciano la residenza di palazzo Francisci, sentono di essere state riconosciute nel loro dolore, ne nasce una sorta di tenera intimità e la separazione diventa un elemento di testimonianza dell’aver attraversato la sofferenza e quindi di potersi affacciare al mondo fuori. Non per tutte è così, ma la maggior parte esce da Palazzo Francisci con uno “zainetto“ pieno di fiducia da spendere nel mondo, è come dire il loro capitale accumulato.
Discussione dei risultati e conclusioni
Dati sperimentali
L’indagine è stata condotta su 21 pazienti residenti a Palazzo Francisci da ottobre 2008 a maggio 2009,ai quali è stato proposto un lavoro di meditazione Mindfullness, sostenuto da un lavoro di Couselling in gruppo partendo dal disagio che maggiormente emergeva: la rabbia.
Il gruppo ha lavorato per un periodo medio di 3 mesi, una volta alla settimana per 2 ore.
I dati dei campioni come si può notare sono abbastanza omogenei.
Le patologie sono state definite in base al DSM IV, (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali Masson Milano) e confermati dai questionari somministrati all’ingresso e all’uscita della struttura: il primo è Eatig Disorder Inventory-2 (EDI-2) che offre una misurazione standardizzata della gravità del sintomo, nei DCA; il secondo è Symptom Check List (S.C.L. 90), che valuta i valori psicopatologici nei soggetti esaminati.
La variabile indipendente che si vuole analizzare è che al gruppo di studio, oltre che seguire la terapia residenziale integrata, hanno seguito attività di Mindfullness Couselling, per un periodo di tre mesi.
Lo studio si pone quindi di analizzare se esiste e quale sia l’incidenza dell’intervento di Mindfullness Counselling all’interno dei DCA e se questo permette di favorire un miglioramento della consapevolezza e dello stato di rabbia e ostilità che spesso si rileva in questo tipo di patologia. Si valuta quindi una variabile indipendente su una variabile dipendente. Come si può notare anche se partendo da dati in ingresso più elevati, rispetto al gruppo di controllo i risultati finali sono in decremento. I dati riportati fanno riferimento ad un punteggio medio grezzo.Vale la pena sottolineare che i valori di riferimento sono: <1=normale 1-1,5=lieve 1,5-2=medio >2 =grave
Indice di consapevolezza enterocettiva, è una sottoscala che misura la confusione e l’incertezza nel riconoscere e rispondere agli stati emotivi, nonché nell’identificare le sensazioni viscerali; i valori elevati corrispondono a una maggiore gravità delle problematiche. Nel Gruppo di Studio, al momento del ricovero e della dimissione il punteggio medio grezzo CE, diminuisce maggiormente rispetto al Gruppo di Controllo, indicando un miglioramento delle capacità di riconoscere le proprie sensazioni. All’interno della rappresentazione grafica EDI-2 le scale di riferimento definiscono due tipologie di andamento: uno legato alla rappresentazione di gruppi considerati patologici, con indici medi di rilevanza11-14, i non-pazienti con indice 5-6.
“In ogni caso l’obiettivo del ricovero non è la totale guarigione (non si potrebbe guarire in così pochi mesi), ma dare avvio ad un cammino di cura, che dopo la dimissione continuerà anche a casa con un monitoraggio continuo da parte di terapeuti, per un periodo che non è mai inferiore ai due anni”.( Marucci S, Dalla Ragione L. L’anima ha bisogno di un luogo, Tecniche Nuove).
Conclusioni
I dati sopra riportati offrono lo spunto per una serie di riflessioni e considerazioni:
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Il miglioramento dell’indice CE all’interno del test EDI-2, permette di creare le condizioni necessarie per creare maggiore consapevolezza interiore e valutare la possibilità di diventare più attenti ai processi del corpo e della mente, acquisendo una terminologia più appropriata per definire il proprio stato. L’uso della meditazione rende maggiormente sensibili agli stati del corpo. Attraverso il lavoro fatto nei gruppi è possibile per molte riconoscere che il luogo dove sorge il disagio non è il disagio, lo stomaco o le altri parti del corpo acquisiscono la possibilità di essere integrate nella visione complessiva, evitando esclusioni di non appartenenza. La consapevolezza migliora lo stato di osservatore non giudicante di quanto avviene nel corpo.
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Per quanto riguarda il miglioramento dell’indice RO del test di autovalutazione SCL-90, permette alle pazienti di trasformare quell’energia vitale che è la rabbia per recuperare le forze e il calore necessario per curare la malattia. L’ostilità tende a isolarle e la riduzione di questa emozione non può che aumentare il contatto con l’altro da sé e ricercare la possibilità di trasformare lo scontro in confronto.
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Con questa ricerca è possibile definire che l’approccio Mindfulness diventa elemento importante nei processi di trasformazione della patologia, perché vengono trasformati e modificati gli stati di rabbia e ostilità, andando a far posto ad un pensiero fatto di meno pretese e più richieste, potendo così far fronte al bisogno che soggiace sotto lo stato ossessivo. L’indice di Consapevolezza enterocettiva porta a definire una presenza mentale che aiuta nel percorso di psico-analisi, diventando un mezzo di grande alleanza tra terapeuti.
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