L'abuso del mondo


Da tempo ci troviamo in una crisi permanente che riguarda tutti gli ambiti e i contesti della vita sociale, quindi della vita di tutti e di ciascuno. Naturalmente non la si vive e non la si patisce allo stesso modo o con la stessa percezione della gravità del momento storico che stiamo attraversando - ho usato a ragion veduta il verbo “attraversare” quasi a sottintendere la speranza di trovare, prima o poi, una via di salvezza che non sia solo una via di fuga -, basti pensare alla sperequazione macroscopica nella distribuzione delle ricchezze e delle risorse tra gli abitanti di questo nostro pianeta che sembra diventare di giorno in giorno sempre più stretto e in difficoltà nell'ospitarci e nel sostentarci.

In un certo senso, o meglio, dal punto di vista del mondo (ipotizzando per assurdo che il mondo possa avere un punto di vista), la comparsa dell' Homo Sapiens sulla faccia della terra è stata più di danno che di vantaggio: fin dall'inizio, per difendersi e sopravvivere, la scimmia nuda, politica, parlante e simbolica chiamata “uomo” ha dovuto in qualche misura alterare, modificare, addomesticare l'ambiente naturale circostante per renderlo, appunto, abitabile.

A differenza degli altri animali, infatti, l'uomo ha bisogno di lavorare per sopravvivere: non per niente ha le mani libere e un encefalo altamente specializzato per progettare e costruire e usare strumenti adatti alla produzione di beni necessari a soddisfare i suoi bisogni. Anzitutto quelli elementari, ma non solo quelli: l'uomo è qualcosa di più di un animale; come scrive Salvatore Natoli “La vita che ci è stata data può essere a ogni momento perduta.

Gli dei, dice Esiodo, nascondono agli uomini la vita, e tocca loro guadagnarsela ogni giorno. Il lavoro è quindi uno dei contrassegni della nostra costitutiva finitezza: 'Se così non fosse, canta il poeta contadino, 'in un sol giorno ti procureresti agevolmente di che vivere magari per un anno e rimanertene in ozio; e subito al focolare appenderesti il timone, tralasciando il lavoro dei buoi e dei muli pazienti'.

Se questo è vero, è anche vero che nel lavoro l'uomo esprime la sua forza, le sue capacità di conquista. Il mito lo insegna: Prometeo, nel donare agli uomini il fuoco, ha permesso loro di mantenersi in vita, di trarla dal suo nascondimento e di migliorarla.” (Il buon uso del mondo. Agire nell'età del rischio, Mondadori, 2010).

Ma allora perché Prometeo è stato punito, e nel modo atroce che sappiamo, da Zeus? Non ha forse disubbidito a fin di bene? Quale è stata la sua colpa? “Per Eschilo la vera colpa del titano, la sua vera hybris, non è stata tanto quella di essere corso in aiuto agli uomini, di aver dato loro il fuoco, ma di essersi portato troppo oltre, 'di aver spento in essi la vista della morte, seminando così cieche speranze'.

Prometeo, nel momento stesso in cui con le arti e le tecniche aiuta l'uomo a trarre la vita dal suo nascondimento – e perciò prodursela -, gliela carpisce di nuovo, inoculando in essi l'idea perversa di poter competere con gli dei, di farsi immortali, o comunque di dimenticare la loro mortalità”.

E tuttavia, se riconsideriamo questo mito alla luce dell' attuale crisi globale dell'umanità, crisi di sistema dovuta soprattutto alla prevalenza del moderno homo faber sull'antico homo laborans, che doveva con fatica lavorare per riprodurre la sua vita – anche secondo il castigo biblico – e quindi alla trasformazione del lavoro stesso “da mezzo per far fronte all'indigenza a manifestazione di potenza e invenzione che ha trovato la sua massima espansione nella moltiplicazione illimitata delle tecniche”, per assoggettare e piegare sempre più la natura (ormai in gran parte snaturata) ai nostri pretesi e sempre nuovi bisogni, Zeus non aveva tutti i torti.

L'uomo si è rivelato un essere capace di grandi virtù ma anche di grandi vizi, tanto da risultare l'animale più pericoloso per se stesso e per il pianeta: le due guerre mondiali del secolo scorso, la rincorsa agli armamenti nucleari e alla produzione di bombe sempre più “intelligenti”, cioè devastanti, il saccheggio continuato delle risorse non illimitate della comune madre terra, non promettono niente di buono per la storia futura.

L'enorme progresso tecnologico che in teoria dovrebbe liberare gli uomini dalla schiavitù del lavoro inteso come fatica o “sudore della fronte”, se da un lato li ha effettivamente alleviati, migliorando le condizioni di vita almeno di una parte di umanità, da un altro lato li ha asserviti alle esigenze della produzione e del profitto, alienandoli nel ciclo perverso del produrre per consumare e del consumare per produrre, con il risultato di aumentare a dismisura il divario tra chi consuma troppo e chi troppo poco, tra chi si ammala per eccesso di alimentazione e chi deperisce per denutrizione, tra i potenti e i dannati della terra.

Per certi versi possiamo dirci fortunati, per altri non siamo mai stati così a rischio di estinzione. “Il nostro tempo – scrive ancora Natoli – offre all'uomo possibilità e opportunità che non ha mai avuto nella sua storia, con tutti i rischi connessi. Ciò impone, a maggior ragione, di saper fare un buon uso del mondo.”

Ma farne buon uso non significa certo disporne come a noi pare e piace: se cominciassimo, o meglio, ricominciassimo a guardare al mondo non come a qualcosa da usare o da abusare ma come a un inesauribile motivo di meraviglia e di gioia, come a un'immensa opera d'arte la cui bellezza sempre nuova non smette mai di stupirci, forse allora faremmo buon uso non solo del mondo ma delle nostre facoltà intellettive e percettive, scoprendo magari che non potremmo godere della sua bellezza se, in qualche misura, non ne partecipassimo.

D'altronde, come potrebbe sapere, il mondo, di esserci e di essere bello se non ci fosse nessuno a contemplarlo?

Fulvio Sguerso

www.foglidicounseling.org

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