Bande giovanili e condotte devianti: profili psicologici


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Il disagio giovanile, in questi ultimi anni, si è manifestato mediante episodi di bullismo e di ribellione alle regole della società in senso  generale e dei vari stati che ne sono stati coinvolti in modo particolare. Spesso il desiderio di trasgressione, che sovente si  trasforma in violenza, è trasversale, non è legato ad uno stato sociale peculiare e neppure alla nazionalità, mentre, in alcuni casi, nasce dal degrado e dalla frequentazione di individui adulti dediti alla violenza ed alla sopraffazione.

 

Questi comportamenti che possiamo definire devianti, ovvero chi “devia” da ciò che in una società è considerato normale e lecito, nel caso degli adolescenti, trovano una dimensione privilegiata nella cosiddetta dimensione collettiva.

Le bande giovanili rappresentano una sorta di “aggregazione sociale” in cui gli individui trovano una dimensione comune  (identità “culturale”, etnica, religiosa, sportiva, ecc.), credendo così (falsamente) di potere superare o eludere disagi familiari, timidezze, emarginazione, povertà, razzismo, se non addirittura vere e proprie patologie che sfociano nella violenza. Molte di queste bande scelgono comportamenti delinquenziali per esprimere il rifiuto di determinati valori normalmente accettati. E’ possibile individuare delle caratteristiche comuni delle bande giovanili:

a) una struttura fortemente gerarchizzata, per cui vi è sempre un  leader ed ognuno dei membri ricopre il suo ruolo assegnatogli;

b) un forte senso di appartenenza e di coesione, al punto che è molto sentito il “noi” e ben percepita la distinzione fra chi fa parte della banda e chi sta al di fuori di essa;

c) la presenza di regole e comportamenti ben definiti, dietro alla violenza ed alla sopraffazione delle bande giovanili si può percepire il bisogno degli adolescenti di essere regolamentati e contenuti; gli atti di violenza nascondono spesso la necessità di capire fino a che punto ci si può spingere prima di essere sanzionati. Ciò costituisce una sfida nei confronti degli adulti, che spesso cela una richiesta implicita di aiuto.

Lo psicologo ed il ricercatore Dan Olweus, fu il primo che, verso la fine degli anni Settanta, tentò di quantificare e definire il fenomeno del bullismo. Spiegando che: «uno studente è oggetto di azioni di bullismo quando viene esposto, ripetutamente, nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da uno o più compagni di classe». Olweus sottolinea che tali azioni vengono compiute in una «situazione di squilibrio di forze», pertanto si evince che vi sono due caratteristiche fondamentali per definire tale fenomeno: la presenza di due “attori”in posizione non simmetrica: da una parte il bullo, più forte, che mette in atto le prepotenze e dall’altra la vittima che le subisce. Inoltre vi è una presenza di azioni reiterate nel tempo, infatti, per poter parlare di bullismo è necessario che venga posta in essere una routine e non un solo episodio isolato.

Il bullismo è una modalità relazionale completamente distorta e patologica, che per molto tempo è stata sottovalutata con il pretesto che i ragazzi devono cavarsela da soli. In realtà il bullismo è un fenomeno di ampie dimensioni che va arginato con estrema determinazione e qualsiasi operatore che lavori in campo educativo deve intervenire, tempestivamente, per limitare il problema e farlo emergere. Fare finta di niente oppure minimizzare o tollerare, servirebbe solo a far crescere questo fenomeno negativo in maniera esponenziale, che, poi, diventa spesso anche la causa principale del precoce ritiro scolastico della vittima.  

Lorenzo Lorusso

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