LA SOFFERENZA NON È UNA MALATTIA. Riprendiamoci il counseling

Inviato da Nuccio Salis

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L'obiettivo più difficile da realizzare, nella relazione di aiuto, è sviluppare l'assunzione di responsabilità rispetto a ciò che si sente e che si vive, ponendosi di fronte a sé stessi con un atteggiamento esplorativo e costruttivo, alla ricerca del significato profondo legato al manifestarsi delle proprie vicende. Si tratta di proporre un percorso di trasformazione consapevole e di crescita globale, sostenendo una nuova e continua centratura su di sé. Nell'ambito del trattamento clinico basato sul modello rogersiano, lo psicologo Thomas Gordon chiama "messaggio Io" questa focalizzazione verso se stessi che permette di autorivelarsi con un linguaggio emozionale chiaro e molto accurato nella descrizione di tutti gli altri indicatori referenziali che rendono conto degli elementi contestuali e spazio-temporali dove avvengono le nostre azioni.

L'ostacolo crescente a queste forme evolute di confronto e conoscenza di sé è posto dall'affermazione del paradigma patologizzante, che ha trasformato la vita in una malattia da curare. La visione cartesiana organicistica, lo scientismo fideistico e fanatico dei positivisti, la cultura dell'efficienza e della rapidità del primato produttivo materiale, la becera superficialità con cui la medicina ufficiale guarda il linguaggio dei sentimenti e sostiene la prerogativa del profitto in una società annichilita da ciò che viene chiamato progresso (misurato esclusivamente col parametro del PIL o della funzionalità tecnologica), hanno finito per standardizzare la spiegazione autentica ed originaria del comportamento umano e dei vissuti correlati, allo scopo unico di "ri-normaluzzare" chi si sente (giustamente) disadattato in un mondo siffatto, incapace di valorizzare la sacralità della vita e della singolarità della storia di ciascuno, riducendo l'umano a un'etichetta clinica e nosografica. È questa da sempre un'impostazione che storicamente si è da sempre tradotta in pratiche di controllo coercitivo soprattutto verso soggetti individuati come dissidenti o semplicemente non allineati ai comuni canoni di comportamento attesi dalla maggioranza delle persone. E così, anche attualmente, sentimenti, percezioni, vissuti che non rientrano nel prototipo identitario che la collettività si impegna ad omologare, ricadono dentro le varie categorie concettuali delle malattie e delle disfunzioni, la cui pretestuosa oggettività è smontata sia dalla storia che da rigorosi studi comparativi a carattere antropologico che mostrano il relativismo di ciò che in Occidente viene bollato come patologia. È dalla violenta insolenza di questa impostazione, che nascono tutte quelle forme di abuso nascoste dietro buoni precetti, e che sono dirette, invece, ad affermare e difendere presupposti molto più politici che scientifici. Trovo avvilente constatare, più che frequentemente, da parte di vari operatori nella relazione di aiuto ad orientamento umanistico, una generale tendenza alla sudditanza nei confronti di profili professionali più affermati, a causa di un dominio storico e culturale che li rende figure percepite come più prestigiose. Questo atteggiamento, oltre che svilire e penalizzare un approccio multidisciplinare efficace, riduce di spessore la valenza della risposta di aiuto fondata sul dialogo, sull'ascolto, sull'accoglienza, cioè verso quei requisiti dell'incontro e della terapia che sono invece gli unici elementi risolutivi di una esperienza di crescita e di reale trasformazione di sé. Difendiamoli. (dott. Nuccio Salis - pedagogista clinico, counselor socioeducativo, formatore analitico-transazionale)

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