Noi scopriamo quello che il testo dice, perveniamo a scoprirne la diversità dalla nostra mentalità, o magari la lontananza dalla nostra cultura, solo partendo da quelle “donazioni di senso” che noi costruiamo a partire dalla nostra precomprensione e che correggiamo e scartiamo sotto la pressione del testo. Per questo, chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all'alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva neutralità, né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi. In sostanza le presupposizioni o i pregiudizi dell'interprete non devono imbavagliare il testo, non devono zittirlo. L’interprete deve essere sensibile all'alterità del testo: il testo non è un pretesto perché parli solo l'interprete. L'interprete deve parlare per ascoltare il testo; deve cioè proporre un senso dopo l'altro, un senso migliore e più adeguato dell'altro perché il testo appaia sempre più nella sua alterità, per quello che è.
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