“CHI SEI?” La indovini con una o compri una vocale?

Inviato da Nuccio Salis

 chi sono

Volevo parlare del domandone finale a cui tanti di noi rifuggono: “Chi sei?”

Perché troviamo così tanto impegnativo rispondere? E soprattutto, perché nel tentativo di rispondere non centriamo il paradigma della domanda?

Eppure sono soltanto due paroline, e non richiedono una risposta decentrata sul fare, ma sull’essere. Ecco allora che si può cogliere il motivo di tutto questo terrore di fronte a tale quesito: non riusciamo a rispondere sul tema “essere”. Non possediamo il linguaggio e l’abitudine disinvolta a trattare la tematica su noi stessi. Ovvero: non sappiamo niente su noi stessi. Sappiamo tutto (o quasi) o comunque più del necessario sui divi di cartone che appestano rotocalchi e cartelloni pubblicitari, sulle abitudini del vicino di casa, sul funzionamento dei dispositivi tecnologici coi quali spesso ci divertiamo e passiamo il tempo, o che utilizziamo per necessità o per facilitarci alcune circostanze del quotidiano programmare. Eppure, crolliamo di fronte alla domanda “Chi sei?”

 

Rendiamoci conto. Sappiamo come funzionano le cose, gli oggetti, i suppellettili derivanti da invenzioni e dall’ingegneria meccanica e informatica, ma non sappiamo niente su come funzioniamo noi, e in tanti (forse troppi o quasi tutti) vivono per inerzia, sospinti dai doveri, dalle prescrizioni sociali, dalle convenzioni culturali, da un calendario di attività che a detta loro non hanno nemmeno scelto, e ciondolano avanti e indietro per bar, piazze, sagre paesane o nel loro posto di lavoro, senza nemmeno interrogarsi minimamente che senso ha la loro vita, cosa ci stanno a fare al mondo, qual è lo scopo principe della loro esistenza.

Domande di questo tipo, peraltro, determinano nella quasi totalità assoluta delle persone (persona intesa propriamente come maschera-finzione) una fuga verso il dimenticatoio salvifico ottenuto dalle dipendenze, dai vizi, da abitudini e ritualità che fanno vibrare su basse, bassissime frequenze, perseverando così nell’occuparsi e dedicarsi esclusivamente al soddisfacimento dei propri bisogni e piaceri primitivi (fame, sonno, espletamento bisogni fisiologici, scarica copulatoria).

Così vive (se questa può chiamarsi vita) la maggior parte delle persone. Esattamente come specie animali programmate secondo le direttive genetiche preformate dalla natura. Costoro rispettano semplicemente una programmazione interiore limitata all’espletamento di certe funzioni, e non possono (e apposta scrivo “non possono”, no “non vogliono”) fare diversamente. Pertanto, per molti è inutile prendersela, o sperare nel cambiamento. Sono convinto che anche chi ha promosso la probabilità ottimistica del cambiamento abbia dovuto fare i conti con questa esperienza, pur promuovendo atteggiamenti ed approcci basati sulla speranza e sulla fiducia. Dopotutto, con ogni probabilità, anche questo assunto e questa posizione non possono che riguardare solo una piccola parte di ciò che chiamiamo genere umano.

So bene quanto possa irritare anche soltanto accennare a tale questione, e se provoca scandalo può essere che anche chi legge è terribilmente terrorizzato dalla domanda delle domande. D’altra parte, è il nucleo essenziale di tutto. Non è un problema umano, è IL problema umano. IL vero e unico problema dei problemi. “Essere o non essere” è l’interrogativo amletico di cui tutti certamente abbiamo sentito parlare, ed anche stavolta limitandoci al sentito dire, senza mai approfondire, entrare nel merito, ampliare gli orizzonti della conoscenza per arrivare alla coscienza.

Ed ecco allora che questa fuga in un avvilente nichilismo fatto di conformismo e di adesione acritica per assicurarsi la protezione e  l’accettazione del branco, risulta in modo schiacciante assai funzionale a tutto il sistema. Chi non è cosciente è infatti ben disposto a sottoscrivere ciò che gli viene proposto da un sistema che strappa il tuo consenso in modo che sia tu a decidere, mediante la tua non conoscenza, mediante il tuo esecrabile rifiuto di sapere e di conoscerti, ad accettare la tua condizione di schiavitù. Una schiavitù “felice”, sia ben chiaro; una schiavitù nella quale il padrone viene addirittura percepito come benefattore e figura salvifica da ingraziare e da incensare tutti i giorni. “Ma com’è bravo quel bancario che mi fa il mutuo agevolato”, “Com’è sensibile il datore di lavoro che ci ha ridotto l’orario da 13 a 11 ore al giorno”, “Che onesto quel politico che dice che dobbiamo pagare meno tasse e dobbiamo avere meno oneri”, insomma… “com’è umano lei!”, chiosava il fantozziano ragioniere, incarnazione e prototipo di questa miserabile mortificazione umana (o disumana?)

Questa è d’altra parte l’unica cosa che uno schiavo semiconsenziente può fare. E così ecco esibire i propri drammi addirittura con una sinistra autoironia che è davvero espressione di tutto il disagio e la dissonanza cognitiva di chi preferisce distruggersi pur di continuare a tacere questioni su di sé. Si racconta con orgoglio la propria notte brava di vomiti o ubriacature, si è fieri delle proprie pance che esplodono. Si manifesta agli altri ogni genere di sozzeria compiuta e gli effetti della propria umiliante condizione, perché è questo il modo con cui si trovano gli “amici”. In analisi transazionale si direbbe che anche la risata della forca è un modo per ottenere carezze.

L’epoca contemporanea, le cui applicazioni tecnologiche hanno determinato un passaggio epocale dall’intimità all’estimità, peraltro, ha rivelato l’avvilente condizione di degrado nella quale si trova il gregge dei bipedi pseudopensanti. Quel che si osserva è un deprecabile e becero conformismo diffuso, peraltro su parametri standard molto bassi che non riguardano nessuna evoluzione di tipo ascendente e verticale. Il progressivo imbarbarimento, che non è solo percepito ma misurato e constatato da sempre più autorevoli osservatori sociali e professionisti della salute pubblica e del trattamento della psiche umana, è anche il segnale principale che denota questa discrasia e questo ritardo fra la domanda “Chi sei?” e la risposta che ancora non è arrivata. Si preferisce perseguire stili di vita che affranchino da questo pericolo: la paura madre di tutte le paure: scoprire chi sei. Perché, mi chiedo, questa domanda apre una prospettiva di un siffatto terrore? Tale da soffocarlo con una vita dissoluta o socialmente approvata dalla civiltà del multitasking e della corsa trafelata dentro la ruota del criceto? Forse, mi sono risposto, sarà perché uno in fondo sente che non è. Cioè, se uno si chiede chi è per poi scoprire che non è, forse è un colpo ferale che non può essere sostenuto. A questo punto mi si potrà obiettare che questo ragionamento costituisce un paradosso illogico, perché dal momento in cui uno esiste, o si sta anche domandando “chi sono?” vuol dire che esiste. Ecco beccato l’adepto inconsapevole tesserato a sua insaputa al club di Cartesio e del suo comodo dualismo. Se pensi, non è detto che sei. Pensi. Punto. La Coscienza è una cosa. La mente un’altra. E poi, Cartesio non si sofferma sui contenuti o sulla qualità del pensiero, ergo bisogna dedurne che anche lui se l’ha fatta sotto più volte di fronte alla domanda “chi sei?”

Noi possiamo utilizzare espedienti anche meno sofisticati, rispetto ad una filosofia ingenua che pur ha suggestionato il mondo e fatto comodo a una certa impostazione scientista, che tutto separa senza considerare l’ottica olistica e peggio sostenendo spesso gli interessi privati dell’establishment accademico e proteggendo la visione comune delle cose.

Nell’ambito più comune, dunque, le scappatoie e gli escamotage sono affidati più che altro alla maschera del ruolo sociale e comunque a tutti quegli orpelli identitari che fanno da corazza inaccessibile all’interiore autenticità.

In pratica, di fronte alla domanda “chi sei?”, decliniamo con i simulacri esterni le varie risposte, senza mai giungere al senso centrale della formulazione originaria della domanda. Ci risiamo: non sappiamo rispondere quando si tratta di Essere.

Ed ecco infatti sentire risposte quali:

sono…. seguito da mestiere (sono un fabbro, un venditore di tende da campeggio ecc.), status sociale (sono un pensionato, un disoccupato), condizione fisiologica (sono un diabetico, un handicappato), il nome (sono Gustavo), hobbie (sono un pittore, un collezionista di funghi), sesso e orientamento sessuale (sono un maschio, transgender, un feticista dell’alluce valgo), orientamento alimentare (sono fruttariano, mangio solo gli ortaggi che si staccano da soli) ecc.

Ma tutte queste risposte non rimandano all’Essere. Nemmeno un po’. Rimandano semmai al fare, all’apparire, agli aspetti contaminati da certe influenze esterne, e ancora all’involucro e alle caratteristiche della struttura con cui siamo temporaneamente veicolati. Ma dov’è l’Essere in tutto questo? Non c’è. Non sappiamo rispondere. Non abbiamo il vocabolario e le parole adatte. Eppure, essere significa semplicemente l’espressione autentica di sé in ogni istante. Non ha bisogno di tutte quelle configurazioni con cui ci ammantiamo, inutilmente per scappare dalla domanda che tanto ci terrifica, obbligandoci a voltarci dove non vogliamo guardare.

Ma allora cosa rispondere di fronte alla domanda “Chi sei?” Se già sei, e sai di esserlo, la risposta è tautologica: sono. Punto. “Io sono colui che sono” risponde Dio dinanzi a certe perplessità avanzate da Mosè.

Tutto ciò che vi si aggiunge può essere di peso, se non addirittura inutile. Questo non significa che dobbiamo vagare come entità eteriche nutrendoci solo di aria e di luce, ma è anche giunto il tempo maturo per poter considerare la prerogativa della Coscienza e l’assunzione di una crescente consapevolezza che rimane la sola e unica risorsa veramente efficace e definitivamente risolutiva per affrancarsi dalla spazzatura del mondano, per poter abbracciare una vita vera, fatta di pienezza e ricchezza interiore, che per forza di cose non potrà che essere condivisa che con pochissimi esseri altrettanti unici che hanno scelto il privilegio di incontrarci, offrendoci la stessa condizione a loro volta.

È questa unione a costituire la sola e unica famiglia con la quale ritrovarsi per glorificare il profondo rinnovamento ad una vita realmente degna di essere vissuta per il suo centrale scopo: sapere chi siamo.

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