Le neuroscienze a scuola
Ogni educatore che si relazioni con le nuove generazioni necessita di conoscenze ponderate sulle caratteristiche, peculiarità e problematiche dell’età evolutiva e proprio nel ruolo di educatore, per agire efficacemente nei complessi processi della relazione interpersonale, della comunicazione e dell’apprendimento, è chiamato anche ad orientarsi sugli studi scientifici e le recenti teorie sul funzionamento del cervello umano. È certamente un campo, quello delle scienze, che esula dalle dirette competenze di un docente, ma da cui si può ricevere un rilevante contributo.
Gli scienziati impegnati in particolare nell’ambito delle neuroscienze, progressivamente negli ultimi anni sono essi stessi interessati a misurare e convalidare le recenti scoperte segnatamente in quello dell’insegnamento e dell’educazione nella scuola. Tra scoperte scientifiche e relazioni interpersonali o intrapersonali non c’è affatto quella distanza siderale che ingenuamente supponiamo e un esempio ne sono i “neuroni specchio” a cui qualche tempo fa mi riferivo, proprio perché tener presente quanto l’équipe del prof. Giacomo Rizzolatti è riuscita a dimostrare ci aiuta a comprendere meglio comportamenti e atteggiamenti, prima ignorati o mal interpretati dell’altro, del nostro interlocutore, adulto o alunno.
È una prospettiva impegnativa certo e tuttavia entusiasmante come può esserlo il gusto della scoperta, persino di quella che ha la forza di farci sentire in contraddizione rispetto a ciò di cui fino ad un attimo prima eravamo certi.
In questo proposito di formazione mai conclusa, trovo interessante proporre il testo di Sergio Della Sala, Mike Anderson, Le neuroscienze a scuola Il buono, il brutto, il cattivo, Giunti, 2016.
Le citazioni che seguono sono in quarta di copertina e, sibito dopo, segue l’indice; infine ne è riportata una recensione.
Quello che sappiamo, o crediamo di sapere, sul funzionamento del cervello influenza sempre più l'insegnamento e l'apprendimento. Alcune di queste nuove pratiche educative sono buone, altre meno, alcune, infine, semplicemente insostenibili. Quelle "buone" derivano da una solida ricerca cognitiva, quelle "cattive" si basano su criteri pseudoscientifici, quelle "brutte" sono dovute ad applicazioni semplicistiche e sbagliate di teorie complesse. Sarebbe bene che neuroscienziati e insegnanti riconoscessero i limiti delle loro discipline e dialogassero di più.
Questo libro si propone di stimolare questo dialogo. Dovrebbe essere letto da chiunque si interessi di educazione scolastica, insegnanti, psicologi, neuroscienziati, politici e genitori.
INDICE
Introduzione di Mike Anderson.
1 - Un’introduzione dogmatica
2 - Le neuroscienze cognitive in classe
3 - Scienze cognitive e educazione
4 - Il bipensiero educativo
5 - Il richiamo delle tecniche educative “alternative”
6 - Un ponte tra scienza cognitiva e pratiche educative
7- La prospettiva di un educatore
8 - Dialogo tra un educatore e un neuroscienziato
Riferimenti bibliografici
Postfazione
La recensione così segnala il testo:
Il libro ha un obiettivo ambizioso: gettare le basi metodologiche per un dialogo interdisciplinare che, secondo l’autore, dovrebbe sottendere allo sviluppo della Neuroeducazione. L’autore è un neuroscienziato, che inizia criticando l’uso e l’abuso del termine “neuro” e dei riferimenti alle neuroscienze, e che riconosce che chi realmente si “sporca le mani” nell’educazione sono gli educatori e gli psicologi cognitivi. Inoltre restituisce alla “scienza” una sua posizione neutrale, che deve essere difesa, in modo che eventualmente possa supportare le scelte politico-sociali in termini di educazione, senza alcuno schieramento ideologico rigido e predefinito. Neuroscienze comprese. Della Sala riconosce anche i limiti delle interpretazioni delle molteplici ricerche neuroscientifiche, soprattutto nella definizione delle relazioni causa-effetto: le differenze cerebrali sono la causa o il risultato di alcuni disturbi? Viene poi spiegata molto bene la neuroplasticità funzionale del cervello: “le principali attività dei cervelli consistono nelle modifiche che essi apportano a se stessi”. Queste modifiche corrispondono a delle “riorganizzazioni neurali” in risposta a stimolazioni esterne ed interne. La plasticità cerebrale lavora, per usare termini scolastici, per “addizione”, per “sottrazione” e per “moltiplicazione”: le connessioni neurali si possono creare ex novo, abbandonare o potenziare. L’autore sfata anche il mito-leggenda per cui noi usiamo solo il 10% del nostro cervello. Affronta poi le principali critiche che vengono mosse alle neuroscienze, prima tra tutte la centralità del cervello e della funzione cognitiva, laddove l’educazione, invece, si occupa di tutta la persona, anche nei suoi aspetti emotivi e comportamentali. Ma comunque le neuroscienze, fornendo una comprensione dei processi di apprendimento, possono servire l’educazione e gli educatori. La finalità è un costruire un sano dialogo interdisciplinare che possa attivare “best practices” che supportano lo sviluppo dei modelli di apprendimento, e di conseguenza di insegnamento. Vengono poi argomentati vari studi scientifici, come quelli sul “testing effect”, (mettendo a confronto l’approccio studio/prova con quello studio/studio) e quelli sulle differenze dei benefici tra la pratica distanziata e la pratica massiva. Molti studi supportano nel programmare i tempi delle verifiche e dei richiami mnemonici. Così come è importante non solo distanziare ma anche alternare le materie, le tematiche e le problematiche. Molto interessante la disquisizione sugli stili cognitivi e sul loro presunto collegamento all’emisfericità cerebrale, che viene confutata e ridefinita come “lateralità funzionale”. Così come è imperdibile il dialogo finale tra un educatore ed un neuroscienziato.
Cordialissimamente,
Giancarla Mandozzi
< Prec. | Succ. > |
---|