LA QUINTA FAME. Oltre la ricerca e il desiderio di carezze primarie

Inviato da Nuccio Salis

carezze

Nell’ambito degli studi a indirizzo analitico-transazionale è piuttosto nota la ricca letteratura prodotta in merito alla teoria delle carezze. Qualunque stimolo recepito rappresenta una unità di riconoscimento, che ha la funzione di confermare l’esistenza e la presenza nel mondo. Dal momento che però la mente è incapace di distinguere la valenza qualitativa della carezza, la stessa tenderebbe a nutrirsi di qualunque input a lei diretto, pur di rifuggire dal terrore di non essere riconosciuti, di non avere un’identità con cui interfacciarsi all’alterità, dall’angoscia sperimentata nel pensarsi isolati, ignorati o dimenticati da tutti.

 

In sintesi, gli obiettivi a cui tendono certi asceti, ovvero il superamento delle pulsioni che guidano gli script primari dei nostri comportamenti, costituiscono proprio l’intima natura dei bisogni più basilari dell’umano: cioè ricevere continua attenzione e conferma sulla sua esistenza e fisica presenza.

Nell’approccio classico descritto e divulgato magistralmente dallo stesso Eric Berne, tale attitudine che conduce alla ricerca di considerazioni vitali per la sopravvivenza dell’organismo umano, fonda il principio cardine della necessità del nutrimento. Ciascuna persona esprime cioè la tendenza a catturare la maggiore quantità possibile di carezze (stroke research), per conservare una sufficiente provvista anche quando queste venissero poi a mancare, costringendoci ad affrontare un periodo magro e avaro di riconoscimenti. La creazione della banca delle carezze e della raccolta dei bollini rappresentano passaggi significativi da lasciare al desiderio di approfondire da parte del lettore.

Tale spontanea e profonda necessità da parte sia della psiche che dell’organismo umano, che si manifesta come una vera e propria fame, ci aiuta a delineare uno schema in sequenza composto dalle varie fami, ciascuna rispondente ai diversi bisogni dell’individuo, anche in relativo rapporto alle sue fasi evolutive.

Nell’AT classica sono riconosciute le te principali fami:

a ) coccole; b ) attività; c ) relazione.

La prima fa riferimento alle richieste implicite ed istintive nell’inviare richieste di vicinanza e calore umano. Il neonato, attraverso il pianto attira l’interesse dell’adulto caregiver che procede ad avviare una risposta appropriata di cura e di attenzione verso il piccolo.

Soddisfatto questo primo appetito, compare successivamente la fame di attività, legata alla tendenza di riempire il tempo morto e vuoto. IL silenzio e l’horror vacui spingono alla richiesta di strutturazione del tempo, ed anche in questo caso poco o nulla importa alla mente la qualità con la quale si trascorre il tempo. Anche se coi rituali o coi comportamenti di dipendenza, tutto viene accettato purchè si vincano il terrore della noia o del raccoglimento in se stessi.

La terza fame può essere appagata mediante l’incontro e il contatto con un partner relazionali con cui innescare un processo di scambio interpersonale. E nemmeno a dirsi, anche in questo caso, specie se il soggetto è invischiato nei suoi drammi e nei suoi personaggi interiori, non interesserà la qualità del processo comunicativo, quanto piuttosto la conferma delle proprie eventuali posizioni esistenziali squalificanti, su di sé e/o sugli altri.

A questa serie di fami, la produttiva psicologa Fanita English ne ha aggiunto un’altra: la fame di scoperta. L’essere umano, connotato anche da una grande curiosità e dal desiderio di conoscenza, spinge lo stesso ad esprimere la propria creatività allo scopo di inventare, sperimentare, ri-combinare ciò che è già noto per generare il nuovo. IL sapere assume la forma della scoperta attiva.

Questa descrizione sembra affrancare maggiormente il soggetto umano da una sorta di determinismo specie-specifico che pare imporre la supremazia della ricerca a tutti i costi di carezze atte a compensare e soddisfare la ricerca degli stimoli e saziare la fame di riconoscimento.

Esiste tuttavia un’ulteriore propensione, a carattere più strutturato e superiore, che assume forma nell’impegno pratico e concreto di superare il vincolo imposto dal naturale bisogno di carezze e di nutrimento. Forse questo ultimo gradino non può essere contemplato o raggiungibile da una numerosa parte dell’umanità, anche se al tempo stesso sta rappresentando per vari individui il pregevole ed edificante tentativo di uscire dalla dipendenza dei bisogni e di trascendere i desideri, sia primari che quelli sovra strutturati e propinati da una società organizzata intorno ai consumi e alle varie forme di ritualità collettiva.

Si può trattare della quinta fame, la quale però, stavolta, invece di indirizzarsi alla ricerca di “cibo” esterno, sa già che la più grande tavola imbandita di sano e buono cibo esiste già dentro di sé, e coincide propriamente con la coscienza. Essa non ha bisogno di involucri esterni per ammantarsi della parvenza di esistere, e quindi nemmeno di riconoscimenti a provenienza esteriore, perché se sa già di essere, non abbisogna di nessun rispecchiamento di nessuna controparte.

Questa consapevolezza interrompe tutti i giochi e i drammi che vi sono associati, perché in piena modalità ed espressione dell’Essenza non si possono accettare inviti a maschera e deliberati giochi di finzione.

La scoperta di sé suggella la parola fine ad ogni simulazione, riconduce al vero ed alla Fonte da cui si è sgorgati, per vivere di pienezza e trovare e distribuire spontaneamente i riconoscimenti senza maturare alcun debito. La manifestazione dell’Essenza esalta infatti la gratuità e il valore di ogni incontro con altre Essenza, in cui ad esprimersi sono gli elementi vivificatori dell’autenticità, dell’integrità e della consapevolezza, ovvero quelle parti dell’intero che sono in grado di metterci in rotta verso la sana e responsabile espressione di sé: un divertimento ancora troppo travisato e per questo temuto e sconosciuto.

L’impegno nel ristorare questo tipo di fame, può consentire all’individuo di recuperare le parti più vere, intime e preziose di sé, sciogliendo inutili e nocivi passatempi pieni di scenari drammatici e tragici risvolti, e quindi arricchendosi verso nuovi lidi di un’esistenza degna di essere narrata e vissuta.

 

Conclusioni:

Un rigoroso e serio approccio terapeutico dovrà tenere conto anche e soprattutto di questi temi, sempre che non voglia scomparire azzerato dal nuovo paradigma in progressione. L’immensa portata di tutto ciò che ancora si continua ad ignorare per limitata cultura scientifica, non favorisce l’efficienza risolutiva nella relazione di aiuto, confinando certi interventi in territorio sfatti che richiedono una grande opera di bonifica e di innovazione.

Chi perde questo treno rimarrà prigioniero delle sue roccaforti ideologizzate, di cui ne assisterà allo sfacelo babelico.

Chi ha coscienza starà dalla parte della coscienza.

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