Aiutare le famiglie nel migliorare le loro relazioni è un viaggio certamente appagante e pieno di sorprese. Ci si imbatte inevitabilmente con vari ostacoli che rendono faticosa e spesso azzardata questa impresa, ed ho pensato che valesse la pena soffermarmi su qualcuno dei punti più critici e significativi che almeno personalmente trovo fra i più difficili da affrontare. Dichiaro apertamente la mia volontà di condivisione e confronto anche con altri professionisti del settore nella relazione di aiuto, dal momento che nutro la convinzione che tali impressioni ed esperienze siano diffuse più di quanto non vengano percepite, anche fra altri colleghi specialisti.
Nell’interloquire con genitori preoccupati, disorientati e portatori di una notevole carica di ansia e di perplessità varie, mi capita spesso di dover riscontrare che gli aspetti più ostici di un lavoro impegnativo comune, che dovrebbe condurre verso un miglioramento e un cambiamento dei modelli comunicativi e di gestione affettiva, viene rappresentato da un contenitore di credenze oramai troppo cronicizzato da teorie implicite e convinzioni radicate da parte delle partnership genitoriali, che finiscono per generare un parenting eccessivamente orientato da ombre e mistificazioni di varia natura.
In altre parole, quando i genitori presentano loro stessi e le dinamiche della loro costellazione, discutendo sulle problematiche espresse dai figli, offrono una modalità esplicativa che attinge principalmente dal mondo delle suggestioni e dell’irrazionale, che in quel contesto offusca una lucida lettura che si rivela invece necessaria alla comprensione il più possibile oggettiva, serena e rigorosa delle vicende che vengono narrate.
Il piano di significazione che i genitori riportano alla mia attenzione è quasi sempre contaminato da impressioni ed aspettative di natura suggestiva e profondamente emotiva, a cui peraltro vi è da aggiungere appunto tutto quel calderone di miti, credenze, ipotesi consolidate dall’esperienza famigliare pregressa nella biografia di ciascuno di loro.
Trovo questo livello di confronto il più difficile in assoluto da affrontare. Lo dico perché riscontro nella mia esperienza professionale, in merito a questo processo dialettico, una difficoltà di non poco conto nel dover prendere atto che i genitori arrivano nel mio studio con un pacchetto di teorie e convinzioni che fungono da bussola di navigazione sicura per i loro rapporti col mondo, e spesso la richiesta implicita che formulano consiste nel confermare loro la rotta, e conservare la visione di realtà che hanno a cui sono pervenuti, sebbene con ragionamenti distorti ed errate valutazioni legate anche a risonanze emozionali decisamente influenti o fuorvianti.
In queste circostanze, è possibile al tempo stesso verificare che un percorso di cambiamento potrà essere intrapreso e proseguito soltanto da chi ha realmente deciso di mettere in gioco il suo castello blindato di convinzioni e conclusioni rigide e preconfezionate.
Certo, noi adoperiamo gli stratagemmi a nostra conoscenza per invitare a questo percorso, che come effetto inevitabile contiene la riconfigurazione dei propri costrutti e del proprio sistema intrinseco di analisi e valutazione del mondo.
Fra le convinzioni più resistenti e ancora molto diffuse, devo riportare una serie già abbastanza inflazionata di condivisi luoghi comuni, che rappresentano ancora oggi dei modi ingenui, comodi e iper-sintetici di spiegarsi la realtà ed il suo funzionamento.
“Secondo me lo fa perché è figlio unico!”, è la spiegazione più a portata di mano che si usa sovente per darsi una ragione sui comportamenti taciturni o non partecipativi del bambino. Posto che già questa valutazione va considerata sulla base del “metro” soggettivo dei genitori, nel considerare quale sia il giusto livello di interattività del loro figlio in una situazione relazionale, un bambino che è poco coinvolto nelle circostanze che riguardano attività di gruppo (siano esse formali, semi-strutturate o spontanee) avrà pure una combinazione di motivazioni che danno luogo a un comportamento da valutare con estrema prudenza e serietà.
Ecco quindi, se le contingenze lo favoriscono, affacciarsi il primo impegnativo compito nel destrutturare una delle più impervie leggende dure a morire.
Una infelice combinazione di psicologismo povero e di anacronistico sapere tradizionale, ha prodotto nel tempo una sorta di vocabolario a rapida consultazione, per reperire facili e svariate soluzioni alle domande che dovrebbero invece attivare un maggiore impegno alla ricerca. Se poi a quella frase viene aggiunto “Me lo hanno detto pure le maestre!”, allora l’irrigidimento del postulato diventa un dogma incrollabile che non può essere in alcun modo discusso o confutato. Insomma il messaggio implicito è chiaro, perché si tratta di muoversi in un territorio minato che ammette con più di qualche riserva un avanzamento di ipotesi e soprattutto di verifiche e controlli alternativi.
La forza conservativa di questi noti pregiudizi è associata ad un meccanismo che tende a perpetuarne la convinzione originaria, ricercando nella realtà tutti quegli elementi che ne rafforzano la struttura. Ciò può produrre i ben conosciuti falsi valutativi, ovvero attribuzioni erronee di apparente impeccabile logicità. Proprio per stare su questo esempio, se ci trovassimo di fronte a un bambino nella cui esperienza si rivela una tendenza all’isolamento e alla chiusura, nel caso in cui questo fosse per l’appunto l’unico figlio della coppia genitoriale, la tendenza generale si orienterebbe ad ascriverne il comportamento ad una unica causa, con un approccio francamente ristretto e monolitico.
La capacità di ricostruire invece un percorso articolato di significati, indagando il vissuto del bambino, ci obbliga a spalancare il nostro sguardo e soprattutto a considerare l’interdipendenza fra le variabili dentro un sistema di concetti e di vicissitudini che si attivano dentro un orizzonte dinamico ed ecologico.
“Perché non lo abbiamo potuto portare all’asilo negli ultimi due anni!” Altra sbrigativa ipotesi, che non ammette altre plausibili e più credibili versioni dei fatti, consiste nell’imputare ad un percepito o presunto deficit di socializzazione, la mancata frequenza della scuola dell’infanzia, come se questa fosse garanzia assoluta e indiscutibile di crescita e maturazione delle abilità socio-relazionali e comunicative nel bambino. È comunque così nell’immaginario collettivo. E ciò richiede di prenderne atto e di curarsi di questo aspetto, con pazienza, volontà e fiducia costruttiva.
Non è affatto provato in modo schiacciante e perfettamente riproducibile che un bambino non esposto assiduamente alla presenza di coetanei non acquisisca o non sviluppi da sé i modelli efficaci della socializzazione. Un setting preposto e strutturato per questo, dovrebbe attenersi a dei requisiti di provata efficacia e funzionalità. Soprattutto, si può affermare senza timore che la scuola dell’infanzia non è l’unico luogo esclusivo per sollecitare il confronto fra pari, visto che l’esperienza di socializzazione primaria di un bambino può essere organizzata ed anche accidentalmente adattata ad ogni evenienza e circostanza che stimola questo tipo di attività. Ma ancora una volta, a dominare è la percezione comune sulla validità intrinseca di una frase fatta che ha prodotto nel tempo una interpretazione della realtà troppo rigida ed univoca.
“Parla troppo e spesso da solo. Siamo molto preoccupati per la nostra bambina!” Ecco uno degli allarmi che più di tutti ha la forza di far precipitare trafelati i genitori negli studi degli specialisti in “bambinologia”. Un bambino che immagina è naturale, a patto che i contenuti delle sue fantasie non vengano proiettate e diffuse al di fuori di esso. Chi ha deciso ciò? E perché? Certo che ci troviamo di fronte a un grottesco paradosso. Ricorda un po’ l’aneddoto del paziente psichiatrico che chiede al suo medico se la notte, per aiutarsi a sviluppare una sensazione di conforto, può rivolgersi a Dio, e lo psichiatra acconsente ben volentieri. Se però, il giorno seguente, il paziente riferisce che Dio gli ha risposto, il medico gli aumenterà la dose degli antipsicotici. Perché? Semplice: perché noi siamo portati ad accettare come giusto e adeguato soltanto ciò che è in sintonia con le nostre aspettative e credenze culturali. Un bambino che include nei suoi giochi e nei suoi monologhi un personaggio completamente inventato o ispirato dalla galleria di persone note, viene erroneamente percepito come un bambino a potenziale rischio di deriva psicotica, con tendenze solitarie ed asociali. E poco importa se non vi è alcuna certezza provata su questo legame, ed anzi, è invece verificato che il personaggio immaginario fa parte dell’esperienza dei “doppi”, cioè di quei rispecchiamenti dell’ego con cui il bambino si autoaddestra per imparare il rapporto con se stesso e conoscersi; ovvero sviluppare la condizione preliminare che serve esattamente per aprirsi al mondo e vivificare la propria esperienza, scrivendo la propria narrazione e disegnando la propria identità. IL bambino non è una monade autoreferenziale, nemmeno quando sta legittimamente sperimentando in solitaria gli effetti e i prodotti delle sue fantasie. Altro esempio particolarmente rilevante consiste nel rapporto con l’ombra.
Tutti processi che accettiamo a patto che vengano ricondotti alle nostre esigenze di adulti in un mondo che disprezza la diversità e che tende ad uniformare secondo un’idea di normalità che è decisamente patologica, perché asservita ad una logica di una società adultocentrica, che produce questi tipi di valutazioni sfacciatamente ridicole e deleterie. Insomma, è come se si chiedesse ad un bambino, pensa pure liberamente ma a modo mio, sogna pure ciò che vuoi ma sogna ciò che desidero io, gioca come vuoi purchè giochi aderendo a un modello di conforme e rassicurante normalità. Questo concetto di normalità non tiene in alcun modo conto dei tempi e delle modalità soggettive e speciali con cui ciascun bambino affronta, sviluppa e raggiunge livelli sempre più avanzati di abilità intra ed interpsichiche. Queste ultime due dimensioni sono strutturate in modo congiunto, ed è difficile renderlo comprensibile a delle menti intrappolate in un becero dualismo che separa ciò che è dentro da ciò che è fuori.
Tuttavia è proprio questo il nostro lavoro. E qui non si tratta di realizzare un’opera di convincimento mediante la consegna di mere istruzioni, quanto piuttosto di favorire su un piano più emozionale il ricorso alla fiducia verso le risorse peculiari di cui ciascun bambino è dotato.
Troppo spesso, invece, nella nostra esperienza clinica, ci tocca constatare che vi sono genitori che ignorano inquietanti indizi che preludono a comportamenti devianti, ed altri che invece si agitano e si turbano per i movimenti evolutivi più sani e naturali che caratterizzano i loro figli.
Insomma, si trascurano segnali di possibile e reale necessità di allarme e intervento, e ad un tempo si esasperano e si patologizzano elementi di specificità del bambino.
Ricordo ancora una madre piuttosto scossa per la sua bambina che a quasi 9 anni la osservava ancora parlare col suo amico immaginario. Ed ella per correre ai ripari le comprò una bambola grande con annesso cavallo ed un cagnolino vero. Insomma, questa fantasia a suo dire doveva sparire, perché la bambina rimettesse i piedi per terra. Ora, la bimba in questione aveva sì i piedi per terra. Era in grado di argomentare, rispondere in modo congruente, andava ottimamente a scuola, aveva sonno ed appetito regolari ed aveva rapporti sereni con tutti. Peraltro, bambole, giochi e cagnolino ricevevano le sue attente e premurose cure.
Era una bimba graziosa, vivace quanto basta e in grado di fare amicizia fin da subito, aprendosi ai rapporti con fiducia e positività. Insomma, i segni del suo benessere erano più che evidenti. Ma l’unico focus della madre consisteva nel mettere in evidenza negativamente proprio l’aspetto più creativo e generativo della figlia, a completamento di un profilo decisamente equilibrato.
Ecco come, spesso senza ragione alcuna, patologizziamo i nostri bambini.
“Sii forte, che tanto poi ci penso io a proteggerti”. Questo enunciato non va considerato verbale, quanto piuttosto il prodotto inconsapevole di tortuosi ragionamenti contaminati e infestati da dottrine acquisite da una combinazione farraginosa di tradizioni e di cambiamenti registrati nella contemporaneità. Nel senso che, a ben considerarlo, tale ingiunzione paradossale è una richiesta che contiene un insidioso doppio legame, quindi un messaggio con una duplice valenza, di natura incongruente e tesa a confondere e destabilizzare. Dobbiamo farci caso: questa è precisamente la modalità comunicativa che noi usiamo per la maggiore quando ci rapportiamo coi bambini, e nella fattispecie quando siamo investiti di un compito educativo.
L’idea che si è fatta più strada, in questa nostra cornice storica attuale fatta di guerrieri e di lotta feroce per l’affermazione di sé, consiste nel sollecitare continuamente i bambini a difendersi, non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, rispondere alle offese, combattere strenuamente contro i rivali per avere ragione e la meglio su tutti quelli che li ostacolano. Si riproduce attraverso i bambini la realtà alienata dagli adulti, presentandola loro come l’unica possibile, e con un solo e unico atteggiamento adatto per poterla affrontare.
Perciò, attraverso questo messaggio, che passa sottilmente per vie di natura affettiva e negli strati più profondi della relazionalità, si invia un significato che disorienta il bambino, perché da una parte gli si chiede di reagire sempre senza farsi sopraffare dagli eventi sfavorevoli, e dall’altra gli si risolve spesso tutto, bloccando la sua iniziativa di autonomia e di giudizio super partes e responsabile, in questo ultimo caso penso in modo particolare a quei genitori che vanno a rimettere le loro violente rimostranze agli insegnanti dei figli, generando intorno a questi ultimi quella bolla protettiva e isolante dalla quale però i genitori stessi sostengono di volerli affrancare. E così facendo, in una altalena fra il ruolo di genitori incalzanti e quello di genitori spazzaneve, si assiste ad un rocambolesco sconvolgimento di richieste, valori e domande che si contraddicono di continuo, generando un senso di frammentazione e insicurezza nel bambino, e che egli esprime a circolo vizioso proprio dentro quel meccanismo che turba gli equilibri perduti, ed ai quali però gli stessi genitori hanno contribuito attivamente a mantenere.
Sono queste contraddizioni a generare in gran parte molto di ciò che conosciamo nell’ambito dei fenomeni antisociali.
Conclusioni
La fragilità non è dunque più accettata, così come non lo è la fantasia, e nemmeno gradita è l’attitudine a perdersi nei soliloqui o a concedersi momenti di viaggio in solitaria. Ed ecco svilupparsi questi pericolosi tabù che deteriorano e squalificano il valore e la funzione dei rapporti sociali. Tutto questo, per giunta, minacciato dagli atteggiamenti faziosi e discrepanti di genitori sempre più confusi, disadattati e incompetenti, che per farsi aiutare con efficacia, però, dovrebbero anche contribuire a svolgere la parte che li spetta. Nessuno può asserire che sia facile, tuttavia l’impegno da assolvere è doveroso, e consiste principalmente nel cogliere la necessità impellente di riorganizzare i costrutti e processi attribuzionali dell’esperienza, per favorire in modo costruttivo quei progressi che vorrebbero vedere negli altri, e nella fattispecie nei loro stessi figli.
“Sii il cambiamento che vuoi essere”, sosteneva Gandhi. Principio che dovrebbe diventare il motto guida che sostanzia l’agire di una genitorialità consapevole ed efficace.
dott. Nuccio Salis
(Pedagogista clinico, Counselor socioeducativo, Formatore analitico-transazionale, Educatore professionale adh)
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