PRENDERSI CURA COMPENSANDO LA FRAGILITA’. IL counselor come figura educativa vicariante

Inviato da Nuccio Salis

 aiutare persona

Il counselor è una figura professionale che ha il compito di sostenere per un certo periodo di tempo il percorso di una persona che si trova temporaneamente in un periodo di stallo, e cioè per qualche ragione la stessa non riesce ad accedere alle sue migliori risorse ed a potenziare le proprie abilità e competenze residue ed emergenti.

Per questa ragione, lo specialista dell’aiuto si offre per una relativa quantità di tempo concordato come una sorta di guida tracciante che orienta e motiva all’azione, aderendo al piano di valori, bisogni ed obiettivi che provengono dal mondo esperienziale del cliente, e non da quello del professionista. Quest’ultimo aspetto non è affatto di poco conto, dal momento che il counselor, avendo il privilegio di contattare, conoscere e comunicare il vissuto del suo interlocutore, dovrà prendersene cura con estremo rispetto e con una disinteressata accettazione che non prevede secondi fini.

 

All’interno di questa dinamica, si inseriscono inevitabilmente dinamiche di natura affettiva che elevano tale relazione all’interno di uno schema molto simile a quello fra un adulto dispensatore di cure (caregiver) ed un bambino ancora sprovvisto di strumenti cognitivi ed emozionali sufficientemente adeguati per far fronte con maturità e consapevolezza alle domande che l’ambiente gli pone. Dentro tale circuito interpersonale, all’adulto spetta il compito di mediare, filtrare ed elaborare l’esperienza stimolatoria da restituire al piccolo. In seno a tale configurazione, il bambino risulta in modo evidente in una situazione di dipendenza, in quanto la sua sopravvivenza è rimessa alle decisioni ed alle competenze di accadimento da parte dell’adulto. Certo, tale asimmetria è indispensabile e funzionale alla tipologia stessa di tale accoppiamento specie-specifico, e la qualità con cui l’adulto si dispone è al tempo stesso influenzata dalle risposte reattive e schematiche del bambino, che impara con il tempo anche a superare l’elementare e rapida risposta riflessa, per inviare segnali che sollecitano chi assume il ruolo di guida a provvedere ad erogare interventi di accudimento idonei a soddisfare le richieste e le necessità di base da parte del bambino.

Questa cornice interattiva, se legata a processi di scambio efficace ed equilibrato fra le parti, produce una sana simbiosi reciproca, da cui ciascun soggetto ricava nuovi elementi per ridisegnare i contenuti e i confini della propria identità. Tale meccanismo non può non aver suscitato l’interesse di tutti quegli studiosi e ricercatori che guardano a tale fenomeno secondo l’ottica e le teorie dell’attaccamento, trovando curiose analogie ed accostamenti nel rapporto fra operatore dell’aiuto e cliente/paziente.

L’elemento fondante della questione riguarda il fatto che fra i due soggetti compartecipi di tale dinamica, esiste un divario nelle competenze e nell’equipaggiamento adatto a ricevere ed organizzare risposte in linea con le richieste poste dall’ambiente. Lo stesso sbilanciamento è associato all’interno del processo relazionale fra counselor e cliente, in quanto prevede che il primo sia dotato di strumenti e di strategie mediante le quali supportare con sicurezza e in modalità appropriata il percorso che il secondo non riesce a proseguire, facilitandolo nel superamento del blocco.

Nonostante le curiose e pertinenti analogie, rimane il fatto consolidato che il counselor sostiene la persona col fine di farla riappropriare di capacità momentaneamente messe in stand-by e di recuperare risorse sospese e per qualche ragione accantonate da difficoltà oggettive e da punti di vista denotati da pessimismo e sfiducia verso se stessi.

Certo, durante questo significativo passaggio, chi offre il suo aiuto vicaria la persona in condizioni meno felici, con la finalità che questa realizzi efficacemente il suo progetto di crescita e di autonomia. A tutti gli effetti, la relazione di aiuto assolve una raffinata funzione pedagogica, ed il professionista presta in quell’occasione il suo ruolo propriamente educativo.  Tale situazione pone il counselor su un piano di responsabilità da cui esercitare con competenza un agire ad elevata capacità responsiva, in grado di accogliere ed appagare le richieste e le istanze personali che il soggetto appellante si porta dentro.

Le componenti essenziali attraverso cui condurre questa opera ri-abilitativa, conservano effettivamente la qualità espressiva di tutti gli ingredienti immancabili dentro un sano rapporto di attaccamento. Fra questi possiamo riconoscere:

 

_ Osservare e cogliere: l’adulto orienta abilmente la sua attenzione verso ogni manifestazione del bambino, possibilmente annotandola sulla base di una raccolta dati che restituisce oggettività e che può salvare da imprudenti e preconcette valutazioni. Aperto e ricettivo ad ogni espressione dell’altro, in tutte le sue componenti soggettive, egli dirige la sua capacità di focalizzare e identificare le forme attraverso cui l’altro da sé si manifesta, mettendone correttamente in relazione i tempi ed i contesti.

 

_ Interpretare: l’adulto possiede un repertorio in parte innato ed in parte appreso ed acquisito dalla cultura, di lettura e spiegazione circa la manifestazione comportamentale del bambino. Sulla base di questa combinazione organizza la propria azione e il proprio intervento, pronto a ridefinirla in itinere a seconda dei feedback che l’ambiente stesso gli restituisce.

 

_ Condividere: il cuore del processo è caratterizzato dalla valenza del legame fra le parti, e l’adulto accoglie ogni stimolo facendone un feedback regolativo-affettivo. Mediando la sua risposta contribuisce a creare un sentimento vicendevole di unione e intimità.

 

_ Co-agire: le risposte dell’adulto sono dirette a sviluppare e mantenere una linea di sintonizzazione fra le parti in gioco, ed a favorirne la crescita e la conservazione. Tuttavia tale percorso non può prevedere l’assoluta costanza, presenza e linearità, pertanto ogni mancato o inefficace intervento da parte del caregiver, purchè lieve nella sua fallacia, è da considerarsi fisiologico.

 

_ Consolidamento relazionale: adulto e bambino formeranno una diade in grado di reciprocarsi secondo un procedimento comunicativo che restituisce e rinegozia significati da ambo le parti. In questo modo, ciascuno ricama (o rivede) i suoi personali costrutti interni, riprogrammando le proprie azioni, come strutture comportamentali connotate da una combinazione equilibrata fra novità e prevedibilità.

 

Con tutta la portata del suo repertorio comunicazionale, l’adulto conduce il bambino ad avere numerosi spunti per creare un’immagine di sé e del mondo. La presenza fisica, il tono della voce, le modalità del contatto (es: caldo, distaccato, incostante, ambivalente, prolungato), delineano aspettative di una certa tipologia nel legame fra sé e la realtà circostante. Quando l’adulto richiama sempre ad una rivisitazione dell’esperienza cognitivo-emotiva del bambino, permette al secondo di riconcettualizzare la sua esperienza e la sua visione delle cose, di tenere conto del punto di vista altrui, di come esistano altre possibili rappresentazioni oltre alla propria. Lo accompagna, in definitiva, a costruire una teoria della mente, a prepararsi a superare l’univocità delle sue posizioni egocentriche, a prendere consapevolezza dei suoi stessi processi attraverso cui ha imparato a pensare e significare il mondo, lo guida in pratica verso lil raggiungimento della metacognizione, a suo tempo soprattutto quando sarà possibile rivolgergli domande del tipo “Quando hai agito così ho provato questo…”, “Quando hai detto quello ho creduto che tu… che io…”, sollecitandolo cioè ogni volta a realizzare una possibile re-visione e reframing delle proprie coordinate di senso con cui interpreta il mondo.

Lo abitua a diventare un soggetto attivo e sperimentatore, ad auto-osservarsi in modo congruente e prepararsi a leggere gli eventi esistenziali in termini logico-causali, ma anche emotivi, per divenire persona integrata e completa, con tutto il suo potenziale di autodeterminazione.

Tutto ciò rende consapevole il counselor del suo ruolo simil-genitoriale, che deve prendere in considerazione col fine di prevenire il rischio di appagare eventualmente, attraverso l’altro, il suo desiderio frustrato di genitorialità. Egli piuttosto deve poter lasciare andare l’altro, aiutandolo a riconquistarsi la libertà e l’indipendenza decisionale, rimanendo dentro il campo temporale del ‘qui ed ora’, ovvero evitando indagine retrospettive anamnestiche basate sul tema del rapporto primario genitore/figlio.

Semmai, egli è però obbligato a recuperare e riflettere su di sé, in merito a tali importanti questioni, e chiedersi se e in quale misura i modelli di attaccamento sperimentati nella sua infanzia possono on qualche modo interferire con la proprietà del suo agire professionale.

Sono temi da non trascurare, affinchè ciascun counselor possa sostenere e realizzare la sua azione nella correttezza deontologica e dentro una prospettiva intenzionale di sicurezza ed efficacia relativa agli strumenti e alle tecniche di cui dispone. È questo un modo per salvaguardare la qualità del percorso formativo e trasformativo del cliente, e proteggere al tempo stesso l’autorevolezza del proprio ruolo e la serietà del suo lavoro.

 

dott. Nuccio Salis 

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