LA FAMIGLIA COME PRIMO TEATRO DI DRAMMI. Teorie e pratiche dell’approccio famigliare

Inviato da Nuccio Salis

il dramma in famiglia

Scrivere sulla famiglia e sulle sue dinamiche relazionali ed affettive è un compito assai arduo e impegnativo, che non mi sento di poter sviluppare in un modo sintetico ed esaustivo. Le ricerche ed i contributi sul piano della letteratura scientifica sono decisamente vasti e numerosi, e risentono forse più di altri di tutti i cambiamenti culturali e le contingenze storiche a cui la famiglia compartecipa come anello fondante primario del sistema sociale ed educativo.

Diverse sono le definizioni e le modalità di intervento sul gruppo in oggetto, e che da una parte arricchiscono il dibattito sulle tipologie operative da adottare, sottolineando sia le differenze fra i diversi approcci e riscontrando anche importanti punti focali di convergenza, dal momento che questi ultimi possono ricondurci all’identificazione di elementi comuni ed universali a tutte le aggregazioni famigliari. Ciò potrebbe essere importante per riconoscere una piattaforma congiunta di bisogni, e di conseguenza reperire parametri di valutazione e strumenti di intervento in grado di rispondere efficacemente alle richieste più diffuse e sentite nei pur diversi gruppi famigliari.

Una descrizione che ritengo piuttosto completa e precisa è quella di Virginia Satir (1916 – 1988), psicologa e psicoterapeuta statunitense, la quale sostiene che la famiglia è “un sistema di persone di età e genere diversi che mantengono relazioni affettive, con gli obiettivi di soddisfare i bisogni emotivi, di proteggere e di trasmettere valori culturali”.

Il supporto affettivo fornito dalla stessa a ciascun membro ha la funzione di assicurare uno sviluppo sicuro e una spinta di fiducia verso un rapporto esplorativo con l’ambiente. Tuttavia non tutti i gruppi famigliari, com’è abbondantemente noto, assolvono questa essenziale funzione di sostegno e di incoraggiamento all’autonomia e all’espressione autentica di sé in ciascun individuo che vi appartiene.

Esistono nuclei famigliari che si imbattono nella difficoltà di esperire risorse adattive efficaci, e non si riconoscono in grado di rispondere in modo equilibrato agli eventi critici che li riguardano. Il fronteggiamento e il superamento delle crisi di transizione rappresentano uno dei passaggi più delicati nel percorso storico di ciascuna famiglia, ed è compito preciso di ciascun social worker chiamato ad attivare la risposta di aiuto, mobilitare interventi capaci di generare strategie di coping famigliare realmente rispondenti ai bisogni anche inespressi che il gruppo manifesta magari attraverso forme di disagio e di disadattamento.

Una delle questioni più rilevanti, e su cui si gioca l’intero processo di equilibrio e buon funzionamento del sistema famiglia, riguarda la ricerca di un sano bilanciamento fra protezione/mantenimento ed emancipazione/svincolo, fra appartenenza e differenziazione. Come spiega l’autorevole psichiatra Murray Bowen (1913 – 1990), che ha prodotto fra le più citate ricerche e disamine sulla famiglia, ciascuno è soggetto al compito evolutivo che lo vede impegnato da uno stato primario di simbiosi e fusione dell’Io, fino ad arrivare a uno stadio ultimo di maturità e autonomia, in cui l’eredità biografica della famiglia si aggiorna e si adatta attivamente nelle rinnovate contingenze storiche con cui il singolo si misura e si confronta. Il raggiungimento e la costruzione della propria diversità e unicità rimane l’obiettivo principale di ciascun essere umano addetto alla cura di sé.

È utile ricondurre l’espressione di ciascun ruolo famigliare dentro una configurazione di intrinseca autenticità e di sincera prossimità affettiva con gli altri membri facenti parte del gruppo. L’obiettivo resta la prevenzione o il superamento (a seconda dei contesti e del livello di funzionalità) di quei ruoli famigliari divenuti abnormi e innaturali, ovvero travisati da personaggi che agiscono i loro drammi, cercando di coinvolgere e scritturare chi può essere complementare alle istanze dei loro falsi Sé.

Tali meccanismi risultano oltremodo complicati, soprattutto quando si tratta di farli emergere alla consapevolezza di chi li replica all’interno del microsistema famiglia, dal momento che si tratta di comodi espedienti per nutrire il proprio dramma e nascondersi alla verità di sé e delle potenzialità insite nel territorio sociale. La stasi di questa condizione disimpegna la persona a ricercare le parti vere di sé, potendo continuare a contare su eventi ed aspettative controllabili e prevedibili, perlomeno fino a quando è possibile continuare il gioco.

Nella passerella dei personaggi, spiccano maggiormente coloro che danno l’idea di come ciascuna relazione disfunzionale invii sempre una squalifica (verso se stessi e/o verso il proprio interlocutore), più o meno implicita e dichiarata, ma comunque presente e in grado di condurre la relazione verso l’insoddisfazione e la frustrazione.

Vi è quasi sempre presente, ad esempio, un accusatore, la cui posizione esistenziale, letta secondo le coordinate dell’Ok Corral della scuola analitico-transazionale, si riassume nel ‘Io sono OK – Tu non sei OK’, dal momento che questo personaggio sminuisce il valore degli altri, distribuisce disprezzo e crea un clima psicologico dal quale ricevere obbedienza e soddisfacimento del suo senso di dominio e tendenza alla prevaricazione.

Può fargli da soggetto ad incastro, l’immagine del compiacente, il quale avvinto da un senso di nullità e di generale incompetenza, delega volentieri la sua agenda di bisogni a chi può fargli da guida, anche qualora la stessa si manifesti in modalità violenta e aspramente mortificante. Se abituato a nutrirsi per mezzo di carezze svalutanti, in assenza di alternative e nella terrificante prospettiva del cambiamento, ripiegherà in un comportamento di soggezione verso chi si diverte nel vederlo soccombere e disinteressato a reagire. In virtù del paradigma transazionale pocanzi citato, va da se che siffatto personaggio è cristallizzato nella posizione ‘Io non sono OK – Tu sei OK’.

Altra figura presente nel corollario degli scenari drammatici in atto nel sistema famiglia, è il razionalizzatore, che cerca di ricondurre ogni evento a spiegazioni logico-causali, nel tentativo di distaccarsi affettivamente da un coinvolgimento emotivo da cui forse ne rifugge proprio per non rimanerne impressionato. Dentro nasconde una fragilità che non gli permette di affrontare le tempeste emozionali, e forse risulta giacché  ipodotato sotto il profilo dell’alfabetizzazione socio-affettiva. La sua posizione esistenziale è collocata nel riquadro ‘Io non sono OK – Tu non sei OK’, dal momento che non riconosce né a se stesso né agli altri la possibilità di misurarsi e sperimentarsi dentro dinamiche comunicative e relazionali “calde”, gratificanti ed avvincenti, che concedano cioè spazio anche al linguaggio dei sentimenti.

Esiste poi il banale, il quale percependosi come tale, invia a se stesso la più grave ed alta forma di squalifica, e nel contempo agli altri, nel caso in cui non li riconosca come capaci di comprensione, di sostegno e di aiuto (Io non sono OK – Tu non sei OK); mentre nella circostanza eventuale in cui riconosce ed attribuisce competenze relazionali ed empatiche agli altri, potrebbe sottomettersi eccessivamente, ricalcando la posizione esistenziale del compiacente (Io non sono OK – Tu sei OK).

L’impatto in vivo dell’operatore con tali modelli famigliari può essere molto complicato da gestire. È risaputo di come presso taluni sistemi famigliari vigano regole e strutture interne che oppongono una impiegabile resistenza ai cambiamenti, anche perché si deve considerare che molto spesso i problemi non sono rappresentati come tali, e quindi l’ordine delle idee e delle convinzioni del beliefe system famigliare risulta come un ostacolo assai difficile da affrontare e condurre a una qualche forma di consapevole necessità di modifica verso la famiglia. Non mancano, peraltro, in questi casi, aspetti di natura controversa circa la sensibilità e le procedure più adeguate tramite le quali lo specialista è chiamato al suo intervento. Egli infatti non deve forzare gli eventi e nemmeno ri-orientare la rotta per mezzo di un (seppur percepito) atteggiamento svalutante, dove viene quasi sempre respinto e rifiutato perché visto come colui che impone il suo modello o quello più comunemente accettato. Ciò accade di buon grado laddove è presente un profondo e cronicizzato disagio con una storia famigliare che abbraccia le generazioni precedenti e vi include quelle future, e pertanto si può leggere all’interno di una triangolazione intergenerazionale a schema disfunzionale. Altro tema che meriterebbe un proficuo approfondimento riguarda poi il confronto con quei modelli famigliari marcatamente diversi per provenienza etnica e culturale, in cui è necessario fare capo a tutte le provviste offerte dall’etnocounseling e dalla mediazione famigliare.

A parte la moltitudine delle possibili circostanze, la chiave di lettura con cui si può procedere nell’organizzazione e nella pianificazione di intervento efficace, replica una sequenza certamente nota e ripetuta, che prevede come primo step la gestione dell’impatto e del contatto con la famiglia, nel tentativo di aprire e sviluppare ponti di dialogo e di sincero e trasparente confronto. È questa anche la fase in cui si scelgono gli strumenti osservativi considerati più adatti in situazione e si raccolgono preziose informazioni preliminari.

La presenza dell’helper, che assume il compito di facilitare e mediare i rapporti indirizzandoli verso traguardi di equilibrio e di efficienza, rappresenta già di per se stessa un’intrusione che scompagina il quadro delle complesse attrezzature omeostatiche adottate dalla famiglia per conservare e mantenere le sue impalcature interne. Pertanto, la destrutturazione dei presupposti, dei miti e delle abitudini famigliari avverrà con certezza fin dal primo impatto nell’incontro fra operatore e gruppo in oggetto. È la fase meglio nota come caos, e nella quale il professionista cerca di contenere ed interpretare il perturbamento inevitabile del sistema, limitandone il rischio di ulteriore posizione difensiva e chiusura da parte della costellazione famigliare, la quale invece va diretta e supportata verso l’assunzione di comportamenti che si avventurino in luoghi dapprima sconosciuti o non contemplati. Il tutto nella massima prudenza e nella constatazione dei limiti, delle resistenze e delle possibilità oggettive che fanno parte del sistema dentro cui si interagisce.

Nel corso del tempo, l’accettazione reciproca fra famiglia ed operatore, dovrebbe produrre un’integrazione fra i diversi costrutti, tale da far raggiungere al micromondo famiglia una volontà di sperimentarsi in nuove azioni, predisponendosi finalmente a provare ad assumere sia i rischi che le potenzialità di un rinnovato vivere sociale.

Questo nuovo clima esperito all’interno della famiglia, e dei rapporti che la stessa rinnova con l’habitat esterno della cui mappa ecologica prende comunque parte, dovrebbe toccare i principali aspetti di un modello funzionale che rovescia le prospettive disfunzionali dei personaggi ed afferma invece l’autenticità individuale, smascherando i primi e rendendo vincenti i secondi.

Tali aspetti possono essere elencati come segue:

 

.) Assumersi responsabilità. Lo sviluppo di tale atteggiamento porta a cascata tutto il resto. Re-interpretare l’orizzonte degli eventi non più in termini di attribuzione di colpe e quindi di conseguenze persecutorie, verso sé e/o verso gli altri, è il contributo più decisivo verso il cambiamento, perché interrompe il flusso delle svalutazioni e fa uscire di scena il personaggio. Ciò significa a tutti gli effetti diventare persona, individualizzarsi e connotarsi come soggetto libero, autonomo e in grado di scegliere con accuratezza i suoi percorsi, prendendosi cura dei propri bisogni ed empatizzando con quelli altrui.

 

.) Sviluppare valore di sé. Ciò induce a concludere il loop perverso che alimenta l’immagine svalutante di sé attraverso le risposte ambientali che confermano tale configurazione squalificante. In pratica si smette di essere vittime, si trovano e si sviluppano i propri punti di forza, si ricomincia a vivere.

 

.) Accettare le contingenze. Il principio di realtà aiuta ad aderire ad una visione più vicina all’accettazione del limite e dell’incongruenza, sospendendo e superando il giudizio verso se stessi, e procedendo ad una valutazione che tenga conto con ragionevolezza delle opzioni e delle possibilità che ciascuno di noi possiede per pianificare un nuovo rapporto con la sua esistenza, partendo dalla sua iniziativa.

 

.) Amarsi e aprirsi al contatto. Questo punto costituisce fondamentalmente una sintesi dei precedenti. È ormai diventato frequente ribadire in più contesti questo punto, e ciò è significativo di quanto ancora si fatichi a maturare una visione di sé come persone degne di ricevere amore ed attenzioni. Se non si approda a questa regola basilare, dopotutto, diventa difficile vivere rapporti sereni ed appaganti, dal momento che l’immagine autosvalutante di sé avrà fame di conferme, ricercando inconsapevolmente relazioni disturbate in cui invischiarsi come vittime e succubi di azioni riprovevoli.

 

D’altra parte, forse dobbiamo ricordare che non a caso è stato scritto “ama il prossimo tuo COME TE STESSO”, addirittura trasmesso come comandamento, quindi come condizione imprescindibile per ogni essere umano che desidera co-costruire una civiltà fondata sull’etica e sull’amore.

 

Nuccio Salis

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