ascoltare anche ciò che non viene detto


ascoltare anche ciò che non viene detto

 

            Di quanto l'ascolto sia fondamentale nell'esercizio del counseling e di ogni professione che sia principalmente attenta alla relazione con l'altro, si è raggiunta una consapevolezza diffusa non solo tra gli operatori bensì anche tra le persone che al counseling o ad altre discipline si rivolgono per avere un sostegno, un chiarimento sui momenti di difficoltà. L'ascolto con grande precisione  viene declinato in tutte le sue componenti, viene definito a seconda del livello, dell'efficacia, della immediatezza di partecipazione che è in grado di comunicare all'interlocutore, naturalmente coinvolgendo a pieno titolo ogni linguaggio, il verbale , il paraverbale e il non verbale.

 

            Piuttosto sfumato, timidamente posto come condizione prevista e opportuna, ma non esplicitata, né spiegata, tra queste dettagliate informazioni, è che l'operatore ha il compito di ascoltare anche ciò che non viene detto dalla persona in aiuto.

Perché non venga posto in primo piano, credo sia una precisa scelta, dal momento che ascoltare il non detto implica una raffinatissima competenza dell'operatore, non facile da acquisire e assai facile da equivocare, perché ovviamente l'ascolto del non detto non è sinonimo di "interpreto il non detto"; di interpreti intorno ne abbiamo un numero altisonante, sempre pronti a sostenere quanto siano in grado di  far luce su ciò che non si vede, con una sicumera da...brivido.

Una competenza così importante da essere in grado di offrire da sola un'altissima percentuale di successo al percorso di crescita della persona, è una competenza non frequente, non immediata, piuttosto frutto del lavorio di tante e complesse  abilità richieste, allenate nel tempo, con studi sempre più approfonditi e circostanziati, ancorato a capacità relazionali, a metacognizione, riflessione e supervisione di esperienze maturate nella professione.

            Numerosissimi possono essere gli esempi nella nostra pratica quotidiana di counselor che testimoniano quanto ciò che la persona in aiuto non ha detto sia ancora più determinante per giungere al focus del problema e sia un solidissimo elemento chiarificatore. Al counselor che osserva attentamente non sfugge infatti se la persona è estroversa e parla volentieri di sé, quando per un attimo devia impercettibilmente dal racconto, compie un piccolo scarto segnalato da un batter di ciglio, da un rallentamento di ritmo molto lieve in verità, ma altrettanto evidente, per poi ri-prendere a raccontare con maggiore leggerezza. Che cosa è accaduto in quel battere di ciglio, quale pensiero-ricordo-paura-divieto...è affiorato nella mente della persona mentre ci parlava? Non è certo il caso di intorremperla e chiedergliene conto perché suonerebbe come un' interrogazione, ma è certo che sono questi segnali che il counselor è tenuto a mantenere presenti e sui quali, al momento opportuno, con tranquillità farà in modo di ri-portare la persona, offrendole la diretta dimostrazione di quanto l'ascolto di un counselor sia qualitativamente in grado di cogliere sfumature e realtà della propria vita interiore ben più che l'ascolto di una cara persona amica. (E questo è ancora in Italia di essenziale importanza, perché in tanti restano convinti che il counselor sia in fondo solo una persona amica, di cui ci si può fidare e a cui si può chiedere consigli...).

            Il non detto è importante anche quando la persona, per i motivi più diversi, è restia a parlare e soprattutto a parlare di sé? Certamente sì e allo stesso modo.  La persona taciturna o così avvilita da rinunciare persino a  voler collaborare per chiarire quale sia il problema che l'angustia, è prodiga di segnali paraverbali e non verbali che sono per il counselor un vero e proprio percorso cifrato e facilmente decodificabile, un percorso come le briciole di pollicino che portano dritte al cuore del problema. Sono segnali talvolta inconsapevoli, è vero, ma ciò non li rende meno autentici e la persona che si astiene dal parlare proprio per questo fa ricorso con maggiore frequenza quasi come libera scelta alla mimica del volto, ad atteggiamenti e comportamenti. Intendo dire che la persona che non è impegnata a parlare, mentre il counselor è tenuto a rispettare quel silenzio, si dedica con attenzione ad esplorare l'ambiente, si osserva intorno, posa lo sguardo su questo o su quell'oggetto che arreda il setting, non lesina espressioni del volto che facciano trapelare accettazione, rifiuto, riserbo, approvazione... la persona che non ama raccontarsi può facilmente chiederci informazioni sulla professione, su di noi, sul tempo che ha a disposizione, su che cosa noi pensiamo ... Al counselor è affidata la competenza ancora una volta di discernere se e a quali domande è corretto, è importante rispondere, a quali invece è bene che offra una controdomanda, ed è così che si avvia in modo del tutto personalizzato -come ogni percorso di counseling prevede, in qualsiasi approccio-  la relazione con la persona in aiuto, che ha già con il suo atteggiamento fornito molte succulente informazioni su cui convergere insieme.

            Non ci meravigli la forza travolgente di: Il non detto è quello che più ...ci lega

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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