FAME D’ECCESSO. La civiltà contemporanea del “subito” e “di più”

Inviato da Nuccio Salis

 fame di eccesso copia

“Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mc, 6,33)

 

Di corsa, a raggiungere il successo, spinti dalla più feroce e snervante competizione, nel convincimento che tutto sia reale, necessario, irrinunciabile, doveroso. La forza e il valore di ciò che sei, costituito originariamente dalla tua eterna essenza, viene misurato dai traguardi che raggiungi, dal portfolio delle competenze, da punteggi, classifiche, visibilità, like e tutto ciò che sottomette la vita al numero, alla matricolazione pari a quella delle merci. Il solito pistolotto umanista, si potrebbe dire, dai contenuti ritriti e già abbondantemente noti e stranoti alla moltitudine. Allora perché parlarne ancora?

Forse perché evidentemente nulla sta cambiando, o forse sì, almeno per una cellula di persone che ricominciano a riaggregarsi e ritrovarsi intorno a quelle dimensioni perdute e soffocate dal logorante tramestio quotidiano. È risaputo come l’identità dell’umano contemporaneo sia costellata da una forte ed irriducibile spinta al possesso, all’avere, ed al mostrare la facciata superflua delle proprie conquiste materiali, le quali fungono a guisa di corazza, a mascherare le proprie insicurezze, a celare il proprio analfabetismo emozionale, e ad occultare le proprie incomunicabili imperfezioni, nel nome della dittatura dell’efficienza e dell’apparenza.

Ci incontriamo per la strada, magari pieni di sconforto, di dolore, di ferite interiori, ed i nostri sorrisi tirati in un meccanico “tutto-bene-grazie” ci proteggono anzitempo dal rischio di aprire una sincera conversazione che può far trapelare le nostre debolezze. Quale azzardo sarebbe, in un contesto sociale dove le piaghe aperte possono essere strumentalizzate vigliaccamente per sottomettere il più debole, per controllarlo e soggiogarlo alla logica dei propri interessi. Alla fine, praticamente, sembra proprio che questa corsa corrisponda a una vana e inutile fuga da un’infelicità non ancora coscientemente percepita.

I messaggi, gli slogan ed i richiami costruiti socialmente ad hoc sembrano proprio dare una precisa indicazione: “Quando sei infelice consuma, ma non scoprire che sei infelice perché consumi”. E così il circolo vizioso del controllo e della manipolazione può continuare indisturbato. Per non rendersi conto di ciò, il Sistema che mercifica la vita ha ideato qualcosa di decisamente geniale: creare la dipendenza dall’eccesso. Questa droga narcotizzante pare funzioni anche molto bene. Una moltitudine senza identità pascola dentro spazi e percorsi giù precostituiti e delineati.

La motivazione indotta da tutte le circostanze esterne sollecita ad avere non solo “di più”, ma anche “subito”. Queste due sintetiche espressioni racchiudono l’essenza dell’attuale civiltà, afflitta dalla bramosia dell’eccesso e della rapidità con la quale procurarselo. Si tratta di un comportamento di regressione, che richiama le componenti egocentriche di certe naturali dinamiche evolutive, riattualizzandole però in un contesto odierno, in cui si constata la prevaricazione di una generale infantilizzazione nell’ambito delle scelte dell’agire umano. In questo specifico contesto storico e sociale, contaminato da un imperante individualismo sospinto, la realizzazione dei propri traguardi non prevede una mediazione con le esigenze altrui, non contempla la distribuzione e la condivisione, anzi la tendenza crescente che si osserva consiste proprio nel muoversi secondo i dettami del raggiungimento dei propri obiettivi ad ogni costo, pur di non uscire “fuori dal giro”, come si suol dire, pur di non sfigurare rispetto ad uno standard di vita sociale che promuove sempre la capacità di essere all’altezza in qualcosa, e di mostrare sempre forza, bellezza, sicurezza e tutto ciò che in modo fasullo è d’obbligo ostentare, per rimanere dentro lo stereotipo che assolve al suo compito di essere socialmente approvato. Il resto diventa riprovevole, e sospetto: la fragilità, l’empatia, la precarietà, tutto quello che viene mortificato mediante le frasi fatte che all’occorrenza salvano dal rischio di costruire relazioni più vere, intime e profonde.

Doverosa sottolineatura ad una immancabile lettura dualiana di tali concetti: ciascuno ha il diritto di soddisfare ciò che ritiene siano i propri legittimi desideri. Ognuno ha la libertà di credere e rincorrere i propri sogni. Ciò che si vuole mettere in evidenza è il preoccupante legame di dipendenza caratterizzato dall’abuso, dalla morbosità e dalla fissazione, che è solito generarsi fra i bisogni del singolo e l’atteggiamento dello stesso, proiettato da una insaziabile fame di abbondanza e sovrappiù.

Peraltro, dentro questa infelice situazione, sparisce del tutto la presenza dell’altro, cioè si adombra fino a scomparire del tutto il concetto di alterità e di considerazione delle differenze identitarie del mondo altrui, sia di natura singola che gruppale. Sembra cioè essersi depauperato il senso stesso del limite, per via di una perseverante sollecitazione all’avere, per cui ogni cosa è concessa dal momento che l’obiettivo da perseguire non ammette ostacoli.

Tutto ciò che si frappone nel percorso verso il raggiungimento dello scopo è da rimuovere con ogni mezzo, o comunque da sottostimare ed ignorare. E così che la maggior parte di coloro che sono genitori, per esempio, non potendo sopportare di sentirsi da meno, come educatori capaci secondo i canoni collettivi, non riescono a tollerare la frustrazione legata al basso rendimento scolastico dei figli, o alla loro condotta antisociale, e pertanto spostano la responsabilità verso altri soggetti, per affrancarsi da eventuali demeriti, inevitabili limiti ed imperfezioni, e proteggere ciò che oggi conta più di ogni altra cosa: l’immagine e l’apparenza. Dalle grottesche sceneggiate quotidiane fino ai relativi fatti di cronaca più gravi, tali eventi sono continuamente sotto gli occhi di tutti, come ad assuefarci dal nostro stesso sbigottimento.

Tali generazioni genitoriali contemporanee, adulte soltanto dal punto di vista cronologico, inviano modelli di comportamento sociale seriamente inadeguati e diseducativi. Gli adulti per primi, incapaci oramai di accontentarsi, ripugnano il superfluo e non gestiscono l’attesa di una gratificazione, rincorrendola ad ogni costo, ricorrendo a mezzi e strategie di comodo, magari anche non lecite. E tutto questo mentre hanno figliato, decidendo così di trasferire a questa sfortunata generazione di piccoli, tutto lo squilibrio delle loro distonie. Assistiamo per giunta ad un curioso paradosso: si verifica per l’appunto che ad una crescente moltitudine di dispositivi e opzioni di comunicazione, segue una riduzione delle competenze di connessione interpersonale, cioè di una gestione appropriata di processi sociali ed affettivi fondati sulla reciprocità e su una reale cooperazione.

Si pone a riguardo una fondamentale questione educativa sulla possibilità di far maturare un atteggiamento orientato alla critica ed alla ricerca di opzioni percorribili più costruttive, in modo da arrestare questo degenerato processo di regressione e di frammentazione delle parti sociali e dei singoli, sempre più configurate come entità isolate e disgregate, disperse dentro una moltitudine vissuta spesso come anonima, come ostacolo o come potenziale strumento per assecondare e raggiungere soltanto i propri fini.

Quali possono essere le possibili risorse di crescita e di reale progresso umano, a cui fare riferimento per poter sviluppare atteggiamenti più adattivi sotto il profilo funzionale? In pratica, tale domanda dovrebbe mobilitare una impegnata ricerca sull’esistenza o la costruzione di un ventaglio di percorsi e strategie con il fine di espandere il controllo consapevole su di sé e migliorare tutti quei processi di autoefficacia, decentramento e uscita da un loop comportamentale fondato sulla meccanicità e l’automazione delle abitudini e dei fuorvianti sistemi di credenze.

Occorre ciò favorire e sostenere la crescita di una meta-coscienza, in grado di restituire o abilitare ciascun soggetto ad un rapporto con se stesso più equilibrato, mosso per esempio dal desiderio di conoscersi meglio, di controllare in modo più autonomo le proprie condotte, di monitorarle e spiegarle all’interno di una rete di interessi; con il proposito di scegliere le risposte più consone, di assumere scelte più congeniali al proprio complesso interno composto da una moltitudine di stati affettivi, cognitivi e motivazionali. Tale sofisticato processo può essere usato anche allo scopo di effettuare una ricognizione analitica sulle proprie vicende personali, con l’impegno di eseguire un più lucido possibile esame di realtà, riformulando cioè i contenuti delle proprie più consuete e consolidate attività rappresentative, procedendo a realizzare una ri-contestualizzazione e ribaltamento di ciò che ci è già noto.

Tale processo di reframing creativo, aiuterebbe la nostra mente, ed i suoi interconnessi elementi affettivi ed emozionali, a rigenerarsi uno spazio possibile e potenziale di rivalutazione della realtà, al fine di sollecitare una vera e propria funzione pragmatica di riprogrammazione in vivo circa la propria biografia e vicissitudini. Si tratta cioè di riacquistare la propria competenza circa l’essere artefici e ri-costruttori attivi e in divenire della propria storia e della propria identità. Con tale metodo, ciascuno assolve ad un impegno verso se stesso fondato sulla cura di sé e sull’autoformazione, concedendo a se stesso di rileggere e re-interpretare i propri percorsi e passaggi salienti, anche quelli contrassegnati dall’errore, e di rivalersi ri-negoziando un nuovo atteggiamento più aperto e volto verso il necessario cambiamento.

D’altra parte, il vero rivoluzionario è colui che accetta che il cambiamento passi anche attraverso di sé, affinché dimori quella forza propulsiva e trasformativa che costituisce la nostra preziosa energia vitale. Diventarne padroni e coscienti, rimettendola dentro un processo di scambio creativo con l’ambiente, è forse uno dei compiti più nobili a cui la vita stessa ci chiede di ottemperare. Per poter sostare su una tale dimensione così provvida di allettanti propositi, è necessario per l’appunto un piano educativo in grado di rivalutare caratteristiche notevolmente mortificate nel contesto sociale contemporaneo.

Facendo riferimento, per esempio, ad una impostazione nota come “psicologia positiva”, ad opera di Martin Seligman, si sottolinea come l’attitudine a sviluppare qualità come saggezza, coraggio, umanità, giustizia, temperanza/perseveranza, trascendenza, creatività, progettualità, responsabilità; debba essere assolutamente tenuta in debita considerazione con il fine di agevolare ed orientare verso un pieno controllo di sé, con l’idea di pervenire ad una misura soddisfacente sul piano della prevedibilità, efficienza e realizzabilità dei propri traguardi. In pratica, risultati e obiettivi possono essere raggiunti nel momento in cui ci si dedica attivamente nel coltivare quelle parti di sé associate alle qualità ritenute più virtuose nell’ambito dell’agire umano.

Seguendo le teorie dell’autore pocanzi citato, le qualità dapprima indicate potrebbero essere intese ed approfondite come abilità umane legate alla capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, sperimentando ed esplorando nuove ipotesi dell’agire, adottando il coraggio di ‘passare per la porta stretta’, provando cioè percorsi inediti o non frequentemente battuti. Il tutto, accompagnato dalla consapevolezza che ciascun evento è connaturato alla impeccabile Legge di Causa/Effetto. Ed ancora, entrando nel merito di quelle qualità sopraelencate, si evince anche come sia necessario un atteggiamento volto ad ascendere e decontaminarsi il più possibile da desideri indotti, impersonali e artificiosi.

Si può per giunta mettere in evidenza la necessità di saper attendere, guadagnare e rimandare la gratificazione, che risulta poi una delle caratteristiche principalmente distinte fra lo psichismo adulto e quello infantile. Questo nuovo orientamento non è comunque pensabile dentro un costrutto autoreferenziale, ma è da costruirsi nell’interazione continua e dinamica con l’ambiente sociale, nella prospettiva del ‘sentirsi parte’, dentro un orizzonte partecipativo e cooperativo. Costituire un tale panorama di propositi e di obiettivi, può rimanere la risorsa necessaria per modellare un nuovo atteggiamento più costrutti vo e funzionale, diretto nella fattispecie a regolare e selezionare in autonomia il flusso degli stimoli esterni che inducono ad una avida e bavosa fame di eccessi, in tutti i campi della quotidiana esistenza. Acquisire consapevolezza su tale tema sarebbe fondamentale per sperimentarsi dentro una esperienza di autonomia e di iniziativa personale, rivolto alla generale promozione della qualità della vita.

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