Il percorso iniziale nella formazione alla professione di aiuto è generalmente caratterizzato da una cospicua percentuale di entusiasmo e motivazione personale. Chi intraprende questo cammino, di solito, si sente spinto da una forte propensione umanistica, e segue la propria nobile vocazione guidato da slanci idealistici e da un encomiabile desiderio di miglioramento o cambiamento della realtà sociale.
Fortunatamente è proprio questo approccio ingenuo, tendente ad ignorare o sottovalutare la complessità e l’investimento in termini emotivi personali, a sostenere l’interesse e la perseveranza in chi persegue i propri obiettivi formativi e costruisce le proprie rotte valoriali in funzione di ciò a cui crede.
Forse, a livello formativo nell’ambito della professione di aiuto, non sono pienamente accolte tutte quelle istanze personali e psicologiche che conducono una persona a scegliere come mestiere la responsabilità di occuparsi dell’altro da sé che versa in condizioni di disagio o sofferenza, nelle sue più svariate forme. Se numerose lacune possono essere facilmente ravvisate sotto l’aspetto della conoscenza teorica, specie nell’ambito della costruzione di relazioni interpersonali efficaci e dell’uso di strumenti e strategie rispettivamente di lettura e di intervento sulla persona in stato di difficoltà, d’altra parte sembra anche carente una formazione di base che punti a favorire, in chi si avvicina a tale attività, una certa capacità introspettiva che consenta di mettere a fuoco con più chiarezza possibile le proprie coordinate personali in termini emotivi, affettivi, relazionali e motivazionali.
Conoscere meglio se stessi dovrebbe essere la condizione prima, necessaria ed immancabile, che legittima poi il poter procedere nel gestire l’incontro con l’altro da sé. Forse, se questo aspetto fosse meglio considerato, si potrebbe anche pensare di agire nell’ambito della prevenzione primaria per contenere e controllare il noto fenomeno del burnout.
Nella vita professionale di un operatore dedito alla cura della persona, è frequente perdere le energie e scaricarsi. Se queste forze non solo non vengono recuperate, ma anzi la situazione affrontata aggrava le difficoltà e riduce gli entusiasmi presenti al principio, la figura di sostegno e di aiuto si ritroverà ad un punto in cui avvertirà di non riuscire e di non volere più seguitare ad assumersi un impegno che comincia a trovare debilitante, insoddisfacente, mortificante o senza senso. La volontà iniziale si è spenta. La motivazione affronta una traiettoria a caduta libera. Le proprie idee che avevano costituito l’impalcatura portante del senso della direzione intrapresa, e che avevano investito il proprio ruolo di un importante investitura a livello comunitario, appaiono ora annichilite dentro un orizzonte utopico, svuotate di importanza e di spessore. E così, messi all’angolo e spersonalizzati da un contesto in cui si avverte soltanto ostracismo e sabotaggio del proprio operato, si reagisce quasi istintivamente con la disaffezione, la ritirata, l’inefficacia operativa, l’assenza, il disimpegno, l’indifferenza e il cinismo. Il tutto, ovviamente, a danno dell’utenza bisognosa di ricevere un aiuto valido, efficiente e costruttivo.
Vi possono essere alcune frasi ricorrenti che rendono nota di un atteggiamento ormai trasformato, approdato cioè dal versante dell’impegno verso l’altro a quello dell’allontanamento o addirittura della lesività manifesta proprio nei confronti di chi invece dovrebbe ricevere meritate attenzioni da parte di un professionista preparato.
Un’espressione tipica e caratterizzante potrebbe essere anzitutto:
_ “Non ce la faccio più!” Affermazione certamente ridondante da parte di chi si accorge di aver esaurito la fonte delle proprie energie. Dedicarsi all’altro contattando reiteratamente la sua sofferenza, ponendosi in ascolto dei suoi sovvertiti schemi di bisogni speciali, cercando di comprendere ed interagire coi suoi modelli di comunicazione, di dialogare con le sue specificità di natura anche clinica, prevede un impegno che può a lungo andare mostrarsi logorante, oltremodo faticoso e tendente a svuotare le forze interiori. Andare oltre questo punto di saturazione percepito, potrebbe costituire il rischio di un tracollo psicofisico, di un completo esaurimento che farebbe passare la persona da dispensatrice di aiuto a richiedente cure e sostegno.
È opportuno avvertire quando è il caso di fermarsi e di dedicarsi al recupero delle proprie energie, prima che una picchiata a picco delle stesse ci ritrovi talmente esausti da essere incapaci di reagire, oltre che di mostrare un mediocre ed inefficace rendimento nel proprio contesto lavorativo.
_ “Non mi interessa più!” (“Non ne voglio più sapere!”) Frasi che confermano il passaggio dal prosciugamento delle proprie energie all’inevitabile reazione di autoprotezione, allo scopo di ripararsi da ulteriori e più rischiosi danni psicologici.
In questa fase, il soggetto si crea una barriera fra sé e l’altro, desensibilizzandosi progressivamente per evitare di toccare la sofferenza altrui, e restarne immune e decontaminato, con una radicale operazione di fuga che si sviluppa fino ad arrivare all’indifferenza completa.
_ “Non fa per me!” (“Ormai faccio il minimo indispensabile!”) Sono le frasi tipiche di chi opta per una rinuncia e sbandiera la propria resa. L’annuncio può avvenire dichiarando visibilmente il proprio senso di disfatta e la rabbia che vi è implicita. A questo livello, magari c’è qualcosa che sul piano organizzativo è entrato in rotta di collisione con la personale costellazione di valori che fa parte del professionista. Delusioni, promesse mancate, tiri mancini, provvedimenti ritenuti ingiusti, cambiamenti che richiedono adattamenti ritenuti incongrui (es: trasformazioni sulle modalità operative, modificazioni sui criteri contrattuali), decisioni aziendali non condivise; tutto questo può scalfire e ledere quella carica di positività con cui, abitualmente, il professionista svolge la sua mansione.
La reazione adottata per manifestare la propria obiezione è generalmente un boicottaggio che prevede la riduzione del proprio rendimento operativo. Questa si rivela spesso una manovra subdola da cui, ancora una volta, a farne le spese è l’anello debole rappresentato dalla persona che vige nello stato di bisogno. Contrariamente a quanto si prospetta da questa reazione, si potrebbe provare a testimoniare in modo assertivo su quanto è nel proprio interesse, ricercando strategie efficaci per poter far rispettare il proprio profilo professionale e tutte le istanze che vi sono collegate. Sarebbe molto importante, in questi casi, poter contare sull’appoggio di colleghi che condividono le medesime considerazioni e che sarebbero pronti ad agire per rivendicare con modi leciti i propri diritti nell’ambito lavorativo.
A ridosso di ciò che descrive la sindrome in termini di fatica e di negatività, possono anche essere indicati alcuni preziosi e irrinunciabili aspetti che costituiscono anche i fattori protettivi dal burnout.
Ciascuno, in luogo del proprio agire operativo, ha certamente bisogno di non sentirsi isolato e non considerato. Dall’analisi transazionale impariamo che il lavoro è certamente una modalità di strutturazione del tempo, che fornisce una immancabile piattaforma di senso nel caso in cui l’alternativa sarebbe il vuoto e un senso di smarrimento. Tuttavia, anche una volta saziata la fame di struttura, l’essere umano promuoverebbe anche la sua fame di carezze, e non potrebbe vivere senza collezionare importanti riconoscimenti nell’ambito lavorativo. Pertanto le gratificazioni psicologiche, personali oltre che economiche, sono molto importanti per rilanciare e conservare la motivazione, specie nell’attività che riguarda l’aiuto alla persona. Invece, l’attuale sistema economico fondato sulla precarietà, sull’instabilità e sull’incertezza, sulla mancanza di garanzie circa il miglioramento della propria posizione lavorativa, sul non riconoscimento dei propri titoli e requisiti, creano un clima ed un sentimento che sfavoriscono l’efficienza della prestazione lavorativa, e che anzi incentivano la disarmonia, il disordine, la confusione e il disorientamento del lavoratore.
Altro importante elemento di cui prendersi cura è la convergenza fra valori personali e la mission dell’organizzazione di cui si fa parte. Prestare la propria opera sapendo anche di avvalorare la causa per la quale si crede e si combatte, aiuta certamente a rafforzare la propria motivazione, ad avere più forza e più convinzione nel continuare la propria attività. E allora, quando si verifica una distanza fra gli intenti del gruppo di cui si fa parte, e la propria costellazione di idee e convincimenti, sarebbe bene prenderne francamente atto, e decidere come risolvere questa discrepanza, non escludendo, se è possibile, anche la rottura del proprio rapporto di lavoro, prima che questo ci snaturi e ci corrompa, o appunto ci faccia entrare in un’azione oppositiva di burnout che non giova a nessuna delle parti coinvolte.
È essenziale stabilire agganci significativi e di fiducia all’interno di un gruppo di lavoro. Meglio se l’intera struttura di relazioni segue apposta una politica di sviluppo efficace delle relazioni umane, e spende per la formazione, in questo lato. Questo giova alla coesione del gruppo ed alla sua capacità produttiva.
Si evince, dalla descrizione di queste dinamiche assai diffuse nell’ambito operativo in cui la persona coinvolge se stessa nella relazione con l’altro, che debbano essere anche individuati e divulgati i fattori protettivi principali che aiuterebbero a far affrontare tale sindrome complessiva in cui ci sente “scoppiati” e privati di forze, abilità e risorse. Ciò è importante anche per far risaltare l’importanza di questo fenomeno, forse fin troppo sottostimato e scarsamente conosciuto, che magari giunge alle cronache quando si mette al corrente di episodi di violenza e sopraffazione compiuto da certe insegnanti o educatrici verso bambini molto piccoli. Si può trattare infatti di una cattiva gestione di un carico di frustrazioni interno, eruttato a cagione di piccole creature indifese, e che può essere ragionevolmente legato al burnout.
Dedicarsi al prossimo può essere per se stessi un fattore di rischio, se non si conoscono i punti chiave principali che determinano tale sindrome, ed anche l’importanza dei mezzi con cui poterla gestire ed affrontare a salvaguardia del proprio equilibrio e benessere personale.
Si affida ad una completa ed efficace formazione, il compito di informare correttamente su un piano scientifico circa il funzionamento di questi meccanismi, ed impegnarsi nell’affrontarne i processi che si correlano e si manifestano in seguito a questo importante fenomeno, dalle importanti implicazioni e ricadute sulla salute umana e sociale.
< Prec. | Succ. > |
---|