un sottilissimo confine tra richieste umanitarie e pubblicità


un sottilissimo confine tra richieste umanitarie e pubblicità

 

            Un tempo che appare molto lontano solo a causa dell'accelerazione con cui ci siamo abituati a vivere, ma che in realtà è dietro l'angolo, la chiamavano "pubblicità progresso"  e veniva dispensata in TV e sui giornali con modalità un po' particolari: priva di toni trionfalistici, di spot accattivanti, di immagini persuasive ed emotivamente coinvolgenti, insomma erano pubblicità che si rivolgevano direttamente alla sfera razionale dell'utente e del lettore. Tematiche e problemi di rilievo per la società intera venivano presentati con serietà, per obiettivi umanitari prima che economici e i massmedia in tal modo assurgevano al ruolo educante di far convergere l'attenzione di ognuno oltre l'egoistico benessere, otre il marketing, oltre la reificazione dell'umano.

 

            E oggi ancora esiste la "pubblicità progresso"?

Certamente permangono e anzi si sono moltiplicati i problemi che nella società globalizzata meritano una riflessione sincera e non autoreferenziale, ma  radicalmente sono mutati gli ambiti, le modalità e gli strumenti con cui vengono portati in primo piano. Per rendercene conto, possiamo mentalmente ripercorrere immagini e spot o interi servizi  di cronaca dopo un evento tragico, dopo un terremoto, un'inondazione o per situazioni di grande permanente disagio, come la migrazione di popolazioni, la fame nel mondo, la povertà.

            In un mondo globalizzato in qualunque parte del pianeta, anche lontanissima dalle nostre realtà, il problema si  ponga, riusciamo a sentirlo vicino e ben comprendiamo come la sopravvivenza e il benessere del genere umano dipendano anche da noi, coinvolgono le nostre abitudini persino quotidiane oltre che le nostre scelte in merito ai consumi e allo spreco di risorse ed energie.

            È su questo che i massmedia fanno leva inducendo oggi e sempre più intensamente in noi un forte coinvolgimento emotivo attraverso immagini sconvolgenti, "usando" senza alcun rispetto persone e situazioni, proponendo e riproponendo, per interminabili minuti secondi, uomini  e donne in fuga in preda al panico, alla ricerca di un riparo, di cibo, volti di bimbi morenti, madri affrante e in fin di vita con in braccio un loro piccolo il cui sguardo rivolto proprio verso noi è inconsapevole accusa nei nostri confronti, e noi proviamo un fastidioso senso di colpa; sì ci sentiamo colpevoli e in quei pochi frammenti di tempo ci scorrono nella mente immagini della nostra vita privilegiata -anche se frequentemente ce ne lamentiamo- e come all'improvviso ridestati quasi da uno schiaffo che ci colpisca in volto, siamo pronti ad impegnarci per fare qualcosa per quelle sfortunate persone, ma soprattutto desideriamo immediatamenterimuovere  quel terribile senso di colpa che ci toglie ogni vitalità e accogliamo la richiesta di quella voce fuori campo, mesta e suadente che ci chiede denaro. Così, donando qualche centesimo o qualche euro, torniamo liberi.

            Forse che, allora, non è giusto mettere in primo piano i problemi del mondo?

È giusto e va fatto, ma ciò che sento e mi piace credere di non essere la sola, è che sensibilizzare ai problemi dell'altro, del prossimo, vicino o lontano che sia, non potrà mai essere fatto senza usare rispetto per ogni essere umano, appunto per l'altro, per il prossimo.

            Perché foto e immagini dei "nostri" figli minorenni sono monitorate da normative che li proteggono, che impongono di non renderli riconoscibili e quei bimbi morenti vengono proposti a lungo in primo piano? Perché comprendiamo che non è rispettoso e dunque neppure lecito rubare immagini di persone in situazioni di forte disagio e per i poveri del mondo o delle nostre periferie cittadine questo non vale, anzi vige la sola legge dello scoop?

            Di questo noi ormai abbiamo bisogno? Di essere travolti emotivamente con immagini forti, con frasi colpevolizzanti e apocalittiche? Abbiamo bisogno che ci si faccia sentire in colpa per prestare attenzione a ciò che accade solo un poco al di là della punta del nostro naso? E dopo, passato quel momento in cui, emotivamente coinvolti, abbiamo donato, riprendiamo la nostra vita esattamente dove l'avevamo interrotta tre minuti prima? E, d'altro canto, come mai non avvertiamo neppure un briciolo di fastidio di fronte all'opulenza ostentata di tanti del nostro mondo sviluppato?  Perché le immagini di sprechi e responsabilità sociali tradite e vituperate non ci scandalizzano?

            Ma forse, vorrei sperare, questo è ciò che pensano i realizzatori di quegli spot drammatici, incapaci -loro- di credere che l'essere umano conosca ancora la vera generosità, incapaci -loro- di credere che il nostro pianeta possa essere abitato da popolazioni che imparino ad essere socialmente responsabili, convinti -loro- che da ogni problema si possa trarre un business alla maniera di una mini esposizione universale...         

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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